mercoledì 27 novembre 2013

La repubblica da ri-fondare sul telelavoro

Impiegare un’ora e mezza per fare poco più di trenta chilometri imbottigliato in un flusso di automobili che si muovono a passo d’uomo tutte nella stessa direzione. Un’occasione unica per fare un po’ di sociologia spicciola e tirare qualche considerazione su che tipo di soluzione si potrebbe escogitare per rendere la vita migliore. Guardandosi intorno è facile arguire che si  tratta di persone che si stanno spostando per andare a lavorare in un grande centro urbano,  probabilmente legate ad un orario di inizio che potrebbe essere flessibilmente impostato per le 9 di mattina. Da come sono vestite di direbbe che sono tutte persone che svolgono lavori di una certa levatura. Di certo non sono legati ad una pressa o ad un tornio. Ma neppure ad una scopa o una chiave inglese. Dispongono di una buona conoscenza di strumenti informativi a vedere con quale frenesia utilizzino dispositivi wireless come tablet e smartphone.  Dal tono animato delle conversazioni telefoniche che intrattengono si può arguire che siano già attivi, “sul pezzo”, a discutere con i colleghi, trattare con clienti o a spettegolare su qualcuno, dato che anche questa pratica costituisce quel valore fondante che è la socialità del lavoro. E sebbene interconnesse con l’ufficio, la famiglia e il resto del mondo, sono sole, nel senso di assenza di altri passeggeri che condividano i tre o quattro comodi sedili che lo circondano. Migliaia di auto incolonnate che procedono a passo di lumaca che trasportano una sola persona che per altre 10 ore si siederà su una sedia o poltrona che si voglia, che abbonderà per una mezz'oretta per andare a mangiare un boccone, se ci va. E tornare a casa, facendo la strada inversa, sempre alla stessa ora.   
Dopo avere assistito alla morte per consunzione della figura del mobility manager, quel ruolo volutamente inconsistente che avrebbe dovuto apportare qualche elemento di razionalità negli spostamenti  casa ufficio dei dipendenti di medie e grandi aziende, dopo avere verificato che i timidi tentativi di incentivare un uso meno individualista dello spostamento privato proponendo corsie preferenziali al cosiddetto autopooling non hanno sortito nessun tipo di entusiasmo, dopo la constatazione che il treno pendolare metropolitano è un’esperienza che tende a disinnamorare anche il più convinto de sostenitori dei mezzi pubblici e avere, infine, decretato che nonostante i costi, la crisi e i rischi gli italiani non rinunceranno mai a privilegiare lo spostamento con il mezzo proprio, sarebbe opportuno pensare  a delle soluzioni in grado di attuare un deciso cambiamento di rotta.
Il telelavoro sembrava una parola ormai destinata a finire nello sgabuzzino delle profezie del futuro prossimo venturo, un po’ come i panorami dell’anno 2000 pieno di macchine volanti e gente in tuta da astronauta che va a lavorare con la valigetta 24 ore. Qui da noi è così, forse. Ma non in altri Paesi che hanno capito da un bel pezzo che una buona fetta di migliore qualità di vita passa proprio dalla possibilità di gestire in modo autonomo il proprio lavoro decidendo quali sono le occasioni in cui è necessario interagire fisicamente (sempre meno funzionalmente necessarie) e quelle in cui la tecnologia digitale può sopperire alla condivisione dello spazio fisico (sempre più caro). Negli Stati Uniti sono stati fatti pesanti investimenti per rendere possibile una maggiore disarticolazione dei processi lavorativi e produttivi al fine di creare una maggiore autonomia gestionale del proprio contributo agli obiettivi aziendali. L’investimento in tecnologia dell’America di Steve Jobs mostra il suo lato migliore. Il miglioramento del benessere passa anche da qui: una società maggiormente evoluta da un punto di vista informatico può gettare le fondamenta per un’organizzazione del lavoro migliore. Bisogna saperla cavalcare come stanno facendo le principali aziende del settore informatico con l’aiuto di alcuni Stati, in primis la California. Sapere usare un tablet oggi non è solo una moda, ma potrebbe essere un passo concreto verso un mondo diverso.
E’ un aspetto importante, ma in Italia non siamo preparati. Per una serie di ragioni, alcune banali come la mancanza di programmazione e di riferimenti normativi certi, resistenze a vari livelli, ma anche per l’assenza di una “Ragioneria” in grado di soppesare il dare e l’avere di valori intangibili come la serenità, la  maggiore efficienza lavorativa, il benessere familiare, la tranquillità dei figli. Purtroppo tutto questo non esiste perché non se ne avverte neppure il bisogno. Si sa per esempio che l’inquinamento di una grande città come Milano dipende in larghissima misura dal numero spropositato di auto che ogni giorno si riversa da una periferia sconfinata. Eppure non si sono imposti effettivi limiti all'afflusso di mezzi privati approntando mezzi di trasporto efficienti in grado escludere la necessità del ricorso all'auto. Da una città che stenta a riconoscere l’utilità delle piste ciclabili è arduo pensare che possa arrivare a programmare un sistema più razionale di spostamenti verso il proprio centro. Ma il gravame dell’aria inquinata e i danni per la salute non rientrano tra i conti della Ragioneria del Benessere che ogni Stato oggi dovrebbe avere.
Riformulare un sistema di organizzazione del lavoro dovrebbe rientrare nei compiti principali di un Governo di un Paese avanzato. Almeno tanto quanto trovare per tutti un’opportunità di impiego dignitoso e in grado renderci adeguate soddisfazioni. E anche su questo sappiamo che l'Italia non è che faccia molto bene. Eppure una migliore suddivisione degli impegni legati al lavoro potrebbe favorire la crescita di partite contabili in grado di alleggerire il costo del lavoro stesso aumentando allo stesso tempo la propensione all'offerta di impiego da parte delle parti datoriali. Il beneficio di un lavoro fatto da casa potrebbe inoltre, rendere maggiormente predisposte le frange deboli dei lavoratori ad accettare impieghi poco allettanti soprattutto nel settore dei servizi come addetti alle attività di call centre, personale di back office, amministrativo e contabile. Riformulare i modelli di occupazione privilegiando l'autonomia e il lavoro distanza è un processo complesso che deve passare attraverso lunghe stagioni di maturazione e gestazione che solo un’attenta regia può gestire. Alleggerendo le proprie strutture direzionali le aziende potrebbero vedere alleviati i propri costi fissi e una parte delle economie gestionali potrebbero andare a parziale contributo per la copertura delle spese per le spese della casa dei dipendenti come luce, gas e riscaldamento. Un gioco con che potrebbe trovare entrambe le parti vincenti in ragione del valore sempre positivo delle contropartite. Una sfida per i Governi dei prossimi anni. Un progetto programmatico ambizioso e prestigioso che potrebbe portare a ottimi risultati di lungo respiro a livello sociale ed economico. Ma anche di miglioramento dell'ambiente fisico in cui viviamo. Un progetto che dovrebbe già essere messo in pista a partire da oggi. Per esempio istituendo una scuola di specializzazione per giovani ingegneri gestionali laureati o laureandi dove possano acquisire i ferri del mestiere di una imponente task force che per conto del Governo verrà inviata presso le aziende per studiare e predisporre dei piani di delocalizzazione del lavoro basati sul telelavoro alle quali le stesse dovranno, obbligatoriamente a questo punto, assoggettarsi. Tempi di realizzazione? Meno di una inutile linea ferroviaria tra Italia e Francia. 

martedì 19 novembre 2013

Sfamiamo il Mondo. Cominciamo da Milano

La Milano da bere si appresta, con l'avvento dell'Expo 2015, a diventare la Milano da mangiare. Il tema selezionato per la grande manifestazione planetaria, che, a detta di molti, dovrebbe attirare milioni di visitatori, è il cibo. O meglio più che il cibo sono le risorse alimentari che scarseggiano in quantità, ma anche, e soprattutto, in qualità. E allora quale paese è più titolato del nostro a parlare di risorse alimentari, cibo e alimentazione? Un'occasione come questa non poteva sfuggirci. Vedremo come andrà a finire. Vedremo se sarà l'occasione imperdibile profetizzata dai fautori di questi mega eventi che hanno ormai esaurito la loro carica propulsiva per stagioni di rilancio dell'economia nazionale. Intanto i lavori fervono e i proclami degli amministratori si riempiano di enfasi e gaudio. Auspichiamo solo che il problema della fame non si risolva solo per i forti appetiti delle schiere di faccendieri che fisiologicamente popolano queste enormi feste di paese. Bene. Aspettiamo fiduciosi.
Se però andiamo a vedere come si sia stia preparando da un punto di vista ideologico al tema dell'Expo, non sembra che ci sia altrettanta attenzione e fervore. Forse a parole. Decantiamo le virtù della nostra cucina, degli alimenti genuini che ne fanno parte, le nostre tradizioni e condiamo tutto con la creatività dei nostri cuochi, imprenditori del gusto, ambasciatori del made in italy e orgogli nazionali vari, ma a fatti facciamo proprio poco. A Milano, per esempio, la città che per un semestre sarà, almeno ufficialmente la capitale mondiale dell'alimentazione, le cose non vanno molto bene. Nei bar del centro si assiste sempre al solito spettacolo della famiglia di stranieri intrappolata in un tavolino esposto al pubblico ludibrio alle prese con il solito raccapricciante spettacolo di spaghetti precotti scaldati nel microonde, pizze mezze crude, panini gommosi, gelati industriali e vino estratto dal brik. Il tutto per cifre da capogiro. Parliamo di Milano, ma nel resto del Paese non è meglio: a Roma, Firenze e Venezia chi si occupa di ristorazione più che alla qualità di quello che serve pensa a buggerare turisti ignari con menu improbabili e molto lontani dall'idea di alimentazione sana, corretta e rispettosa delle tradizioni locali che l'Expo vuole dare. Nel "cerimoniale" della manifestazione non è previsto che, almeno a ridosso dell'evento, chi lo sta preparando dimostri almeno un minimo di sensibilità verso il tema che farà da sottofondo? Che cosa deve pensare della cucina italiana il turista incappato nel bar in Galleria a Milano, nella pizzeria di Roma dove servono pizza imbustate e nella gelateria di Venezia che propone gusti dai colori improbabili? Probabilmente poco, visto che quello che mangia in Italia è sicuramente più allettante di quello che mangia a casa sua, ma almeno diciamoglielo che la cucina italiana non è solo quella. 

venerdì 8 novembre 2013

Quel buco venuto così bene

I buchi nell'acqua ogni tanto possono venire bene, e per rimanere in tema di metafora, ogni tanto serve che si scavino dei buchi perché qualcuno possa riempirli. Un'esempio di questa, apparentemente insana contraddizione, è la "bula" un'area protetta gestita dal WWF in prossimità della città di Asti, in Piemonte. Un'oasi tutelata in riva al Tanaro dove svernano numerosi specie di uccelli, i migratori si riposano durante la trasvolata e chi è appassionato di natura può farsi una bella gita le rare volte che le guide del WWF accompagnano i visitatori a conoscere questo particolare ambiente. Una macchia di natura rimasta miracolosamente fuori dagli scempi di cui sono normalmente oggetto le aree fluviali? Tutt'altro. La "bula" origina dal profitto di chi campa estraendo ghiaia dagli alvei dei fiumi e dalle concessioni troppo spesso elargite da chi dovrebbe amministrare il territorio con una visione un po' più oculata rispetto a come si è fatto finora. L'invaso, che oggi colpisce per la vegetazione rigogliosa e le numerose specie di uccelli che è possibile osservare, non  è altro che una cava di ghiaia in disuso che,  in virtù di accordi fatti tra la regione Piemonte e alcune associazioni di difesa della natura, è stata scavata e conformata in modo da simulare il più fedelmente possibile l'habitat naturale di molte specie di uccelli. I titolari delle cave, in cambio, hanno potuto estrarre oltre il limite di falda, di solito vietato, traendo maggior profitto dalla licenza, a patto che si attenessero alle specifiche degli esperti del WWF. Un esempio? Le anatre non amano essere viste quando nidificano. Vanno a cercarsi gli anfratti più nascosti vicino agli specchi d'acqua in cui vivono e che non trovano negli invasi delle cave "normali" che notoriamente hanno un andamento lineare. Ecco allora che agli addetti della cava di Asti è stato richiesto di scavare in modo irregolare affinché al termine del lavoro il profilo dell'invaso risultasse più vicino possibile ad un ambiente naturale. Con somma gioia della future mamme anatra! Ma non è tutto rosa è fiori. La "bula" è una vera e propria oasi in un mare di degrado indicibile che la assedia da tutte le parti: discariche abusive, incursioni di pescatori di frodo, pascolo abusivo di pecore e capre. Con pochi mezzi e risorse per contrastarli. L'unico modo in cui il WWF può impedire l'invasione dei rifiuti è in occasione delle giornate dedicate alla pulizia dei boschi, alvei e argini di fiume che vengono periodicamente organizzate dalle associazioni ambientaliste locali, WWF in testa. "E pensare", mi confida un entusiasta (e preparatissimo) attivista del WWF "che basterebbe piazzare delle telecamere per controllare gli accessi di chi scarica abusivamente eternit, plastica, copertoni e latte di prodotti chimici pericolosi", ma a quanto pare a pochi interessa preservare l'ambiente di uno dei fiumi più belli del nord Italia. E intanto raccatta sconsolato l'ennesima lattina di birra buttata per terra durante l'ultima incursione dei pescatori abusivi.  

mercoledì 30 ottobre 2013

Le cacche del berlusconismo

Pensate che vent'anni di Berlusconi, ormai avviato ad un meritato tramonto, passino così, senza colpo ferire? Credete che una volta eliminato il tarlo si possa ricompattare la consistenza infracidita del nostro senso civico? Una mosca è in grado di depositare migliaia di uova che schiuderanno altrettante larve favorite anche dal contesto corrotto in cui si trovano. A chi auspica una ripresa di un confronto moderato, onesto e costruttivo nelle aule parlamentari va fatto presente che i liquami maleodoranti del malcostume hanno iniziato a contagiare molteplici aspetti della nostra esistenza. Lasciando da parte la politica, ormai diventata il tiro al bersaglio dell'indignazione e della repulsione, trascurando la cultura, l'etica e la morale che tendono sempre più a restringersi ad argomento di discussione per circoli con pochi iscritti, soffermiamoci sul mondo dell'economia e sugli strani fenomeni di visione imprenditoriale a cui, in molti casi, è possibile assistere. E non sempre è un bel vedere, soprattutto per chi non è della partita e queste nuove imprese, le deve suo malgrado, solo subire. Parliamo dei nuovi settori "trainanti" come il gioco d'azzardo, i "vendo oro", le società che si occupano di spettacoli e "casting" e che reclutano disgraziate da avviare ad altri generi di intrattenimento, le finanziarie che brucano sui protesti di imprenditori in difficoltà e gli impresari che propongono facili titoli di studio e onorificenze a chi di successo ne ha avuto troppo. Chi sono le persone che stanno dietro, nell'ufficio con la scrivania nera comprata all'Ikea, i poster dei simboli del potere alle pareti e la BMW parcheggiata in cortile? In che cosa credono? Che idea hanno dei soldi e del successo? Che cosa fanno, soprattutto, dei soldi che guadagnano? Non ci vuole molto a rispondere: fanno esattamente quello fa Berlusconi, l'unica immagine di vincente che ha imbevuto le loro esistenze. Emblematica, a questo proposito, è la figura di Mirko Rosa, cresciuto, consolidato e arricchitosi grazie ad una ramificata rete di negozi specializzati in "ritiro oro" come vengono chiamati quei negozi ormai presenti in ogni città che, dato che i tempi della corsa all'oro sono finiti da un pezzo, commutano anellini, collanine, braccialetti e spille per poche centinaia di euro. Altro che pagliuzze d'oro! Chi abita dalle parti del basso varesotto lo conosce per via delle affissioni di volgari cartelloni pubblicitari con donne discinte rivestite solo da scaglie d'oro, per le macchine di lusso cafone sfacciatamente parcheggiate davanti ai suoi negozi, cartelloni autocelebrativi dei suoi facoltosi possedimenti e dei suoi libertinaggi, con atteggiamenti offensivi e spregiudicati nei confronti di personalità religiose e politiche. Una ricchezza sbandierata, ostentata con il chiaro intento di convincere che quello che sta facendo è nell'interesse di tutti. Questo spiega il suo "impegno nel sociale" che comunica mediante offerte di improbabili taglie per facilitare la cattura di autori di fattacci di cronaca o attraverso clamorose denunce contro la giustizia rea di perseguire coloro che sono nel giusto, come lo stesso Mirko Rosa, per esempio, già oggetto di attenzioni giudiziarie per svolgimento di attività non pienamente in regola, mentre negri, extracomunitari,sbandati, gli "altri", insomma, continuano indisturbati a delinquere. "Chi vi ricorda" verrebbe da dire, parafrasando il celebre indovinello periodico della Settimana Enigmistica? E che cosa vi porta a pensare che personaggi come Mirko Rosa non generino stirpe di cotanti epigoni della sua specie? Il sistema sociale quali benefici potrà trarre da un'imprenditoria sfacciatamente portata a succhiare energie e risorse per un accumulo finalizzato solo al compiacimento personale? Pare che un comune del circondario abbia pensato di premiare l'imprenditore Mirko Rosa per via delle sue eccelse qualità di innovatore. E lui con l'immancabile bandana da pirata si è puntualmente presentato a ritirarlo. D'altra parte che Elisabetta Prima che ha fatto diventare grande l'Inghilterra si era fidata di un pirata per regnare incontrastata sui mari e di un avventuriero sciupafemmine per estendere i propri territori nel Nuovo Mondo. Mirko Rosa come Nelson eroe di Trafalgar o insignito della carica di Baronetto come Walter Relaigh? Tutto può essere. Le cacche lasciate dal berlusconismo sono come quelle di piccione. Ovunque. 


giovedì 10 ottobre 2013

Sbagliando non si impara

Ho fatto bene a leggere "Il Libro Nero della Democrazia" scritto da Furio Colombo e Antonio Padellaro uscito nel 2002. Ho fatto bene perché dovevo rafforzare in me la convinzione che non vivo affatto in un paese normale. Il libro scritto dai due giornalisti, allora in forza all'Unità, mi ha aiutato a rispolverare i piccoli grandi disastri della politica di governo berlusconiana: le sue malefatte, i soprusi e le figuracce barbine di un periodo disgraziato della nostra vita politica. In un paese normale, appunto, una persona così dopo averne combinate solo la metà di Berlusconi, sarebbe sparito dalla circolazione senza tanti complimenti. Invece - ecco perché non siamo un paese normale - ha continuato a rimanere un auge, governare (peggio di prima) per quasi altri cinque anni e influenzare negativamente la già difficoltosa ripresa dalla deriva qualunquista imperante in Italia. Tralascio anche il fatto che il periodo preso in esame da Colombo e Padellaro non coincideva con l'esordio politico di Berlusconi, dato che era già entrato in politica da almeno sei anni riuscendo pure a governare per pochi mesi. Le pessime figure a livello di politica internazionale, i tentativi di banalizzare con riforme imperniate sulla visione aziendalistica la dignità di ministri, ambasciatori e parlamentari, il fallimento morale del G8 di Genova, la protervia usata per sconfiggere e togliere di mezzo chi lo criticava a partire dai giornalisti non inquadrati tutto questo sarebbe stato comunque accettabile in un paese normale perché sbagliare, ogni tanto è possibile. Ma non nel nostro caso.  

Furio COLOMBO, Antonio PADELLARO (2002), Il Libro Nero Della Democrazia - Vivere sotto il governo Berlusconi - Baldini & Castoldi - ISBN 88-8490-263-0

mercoledì 9 ottobre 2013

Gli altri Vajont

La diga squarciata di Malpasset
Cade oggi, 9 ottobre 2013, l’anniversario rotondo di una delle più sciagurate tragedie industriali che hanno colpito il nostro Paese. Cinquant’anni fa esattamente, un piccolo paese insieme ad alcuni borghi di montagna furono spazzati da una gigantesca ondata causata dal crollo di un pezzo di montagna che precipitò dentro un lago artificiale. Da allora tante parole sono state spese, ma ancora troppo poco è stato fatto per rendere giustizia a chi perse tutto in pochi secondi. Vite e resti umani faticosamente ricomposti nel corso di decenni, uomini e donne che ostinatamente, non vogliono fare perdere al Paese il senso del loro sacrificio. Ben vengano le celebrazioni per il 50° della tragedia, ma solo se servirà a non tradire la speranza. 
Perché ci vuole molto poco a perdere la speranza, se il ricordo non è adeguatamente alimentato dal disagio e dallo sdegno di chi vuole troppo presto dimenticare. Ci sono stati altri Vajont in tempi e in luoghi non molto lontani da Longarone, ma sembrerebbe che per questi casi,  la coscienza collettiva sia stata più abile e furba a nascondersi i dietro l’oblio. E riuscire  a farla franca.
Nella valli delle montagne del Bergamasco, nel dicembre dei 1923, trent’anni esatti prima del Vajont, ma anche negli anni in cui si fanno i primi studi di fattibilità della sua diga, uno sbarramento sul fiume Gleno crolla causando la morte di 356 persone, mal contate perché è costume in questi casi, nascondere il vero conteggio di vite perdute. I motivi? Lavori di costruzione mal eseguiti con materiali scadenti (calcina al posto del cemento), varianti di progetto senza approvazione, fondamenta non adeguate, in alcuni tratti inesistenti. Eppure anche allora c’era chi denunciò la leggerezza di un’impresa che svolgeva i lavori in economia. Si fecero i controlli, ma tutto si appianò. E la diga iniziò a funzionare finché uno squarcio di 80 metri liberò 6 milioni di metri cubi d’acqua che cancellarono i paesi a valle.
Nel 1935 ci fu il disastro di Molare. Una diga costruita per irreggimentare le acque del fiume Orba che passa nella parte bassa dell’Alessandrino non riuscì a trattenere l’improvviso ingrossarsi del lago artificiale cresciuto di livello a causa di forti improvvise piogge. L’onda seguita alla tracimazione causò 111 morti e enormi danni a ponti, strade e ferrovia. Il regime minimizzò e cercò di nascondere la reale entità del disastro, ma qualcuno si impuntò è portò tecnici ed ingegneri a processo. Risultato? Tutti assolti in quanto l’evento disastroso fu imputato all'eccezionalità delle precipitazioni.
Frejus, nella Valle di Vara, dicembre del 1959, pochissimi anni prima del Vajont.  Un’altra diga collassa e provoca  421 morti. Un intero abitato, Malpasset, completamente cancellato. Le ragioni del crollo furono oggetto di un dibattimento sottile, sul filo della logica ingegneristica e il calcolo delle probabilità. Una forte dose di casualità, ma anche un progetto ambizioso che avrebbe dovuto mettere in luce le competenze e l’abilità dell’ideatore finirono sul banco degli imputati. Comunque, anche allora, di fronte ad un’immane tragedia, ci furono solo piccole responsabilità.

Gleno, Molare, Frejus, Vajont sono quattro tragiche storie di acqua, fango e distruzione. Ognuna con le proprie colpe, nate da diverse ambizioni e da un legittimo bisogno di sicurezza: la disponibilità di forza motrice per mandare avanti le industrie a valle, l’acqua per irrigare i campi, l’acqua da bere. Ma troppo spesso, quattro volte nel volgere di  quarant’anni, la bramosia ha sopraffatto il bisogno, l’interesse personale è sopravanzato alla tutela della comunità, l’esercizio del controllo si è inchinato all’interesse economico. E la giustizia non ha mai fatto il suo corso fino in fondo, sicura che gli anni avrebbero reso lieve il dolore e lo sgomento. Forse per il Vajont non sarà cosi.   
Per approfondimenti: 





martedì 1 ottobre 2013

Ladies and gentlemen captain speaking

Guardate la faccia di quest'uomo. Guardate la sua faccia e ditemi se non vi ricorda un etrusco o un senatore dell'antica Roma. Uno così potrebbe essere stato un compagno di Enea, coraggioso e scaltro, valoroso guerriero animato da un imperioso istinto di sopravvivenza. Aveva sicuramente i suoi lineamenti il luogotenente più affidabile di Giulio Cesare, l'illustre sconosciuto artefice delle sue vittoriose campagne militari. Ma poteva essere un tenace console in Dacia, un soldato di ventura, un temerario comandante di una nave della flotta pisana, un visionario architetto rinascimentale. Perché quest'uomo rappresenta l'Italia e tutto quello che abbiamo di buono e di valore. Questa volta la faccia dell'uomo della Magna Grecia si è trasfigurato nel pilota dell'Alitalia che ha portato a terra un aereo zoppo di un carrello senza scalfire un'unghia ad alcuno. Potete essere certi che quanto in Italia si fa qualche cosa di buono, c'e sicuramente uno con la faccia del comandante Bruno D'Agata.

lunedì 30 settembre 2013

Notizia d'altri tempi

All'Istituto Piepoli che mi ha interpellato per un'intervista telefonica chiedendomi quale fosse stata la notizia che più mi ha colpito, se solo mi avesse chiamato una settimana dopo, avrei potuto rispondere senza esitazione di essere rimasto tremendamente impressionato dal ritrovamento delle pietre preziose, improvvisa manifestazione di un'antica e dimenticata sciagura aerea avvenuta sul Monte Bianco quasi cinquant'anni fa.. C'è tutto quanto possa suscitare interesse per l'intreccio del romanzo di spionaggio, il film d'avventura e la sferzante atmosfera di un periodo. Siamo nel 1966 e l'aereo partito da Bombay sarebbe dovuto arrivare a New York se non fosse stato per un errore del pilota che sbagliò a valutare l'altitudine e si schiantò sul Monte Bianco prima della discesa verso Ginevra. Da allora il tesoro che viaggiava con lo sconosciuto passeggero è rimasto in balia delle mutevoli condizioni del paesaggio d'alta quota: è stato sepolto, è riaffiorato per sparire nuovamente per chissà quanti anni e per chissà quante volte. Fino a che un alpinista l'ha trovato e ne ha denunciato il ritrovamento. Ci sono già due elementi che fanno di questa storia una fiaba, una novella da Mille e Una Notte: le pietre preziose e l'uomo onesto che le ritrova. Non un portafoglio con fogli di banconote destinate ad andare fuori corso o trasformarsi in poltiglia, ma pietre preziose incorruttibili destinate a preservare il loro valore a beneficio di un provvido rinvenimento. C'è il rude, almeno nell'immaginario, e onesto uomo di montagna che quasi cinquant'anni dopo denuncia la scoperta e se ne rimane in attesa dell'erede che lo ringrazi e gli commisuri la giusta ricompensa. Ma soprattutto c'è l'India dei maraja con gli zaffiri sul turbante, proprio come quello cantato da Capossela, e il fantomatico scienziato indiano che trasportava piani segreti per permettere al suo Paese di costruire la bomba atomica e distruggere l'odiato Pakistan con il quale, guarda caso, continuano a scrutarsi in cagnesco sugli strapiombi delle montagne più alte del mondo. Forse sarebbe sceso a Ginevra per perorare la sua causa e fare valere i propri diritti. Perchè allora, più di oggi Ginevra valeva il buon senso dell'Occidente sulle questioni mondiali. Non poteva essere una storia di poco conto per sparire così, nel nulla. Allora si speculò anche che l'aereo fosse stato abbattuto da un velivolo militare, italiano pare. Tutto era troppo fantastico, imbevuto di un fascino, che almeno per quelli della mia generazione,continua ad alimentare fantastiche atmosfere d'altri tempi. L'India era quella dei santoni e nel 1966 i Beatles si fecero ammaliare dalla loro religione al punto da influire anche sulla loro produzione musicale. Iniziavano a diffondersi le pratiche di meditazione delle religioni animiste che avrebbero per anni influenzato la moda, l'arte, l'alimentazione e la letteratura. C'era anche la città dalla quale è decollato l'areo, Bombay, che oggi si chiama con un altro nome. Sicuramente non sapremo se il bravo alpinista francese riceverà la giusta mercede per il suo atto disinteressato e stringerà la mano al discendente di quell'antico trasvolatore. Difficilmente viene dato un seguito a notizie di questo tipo. L'obiettivo era creare un humus favorevole all'evasione. E con me ci sono riusciti.

mercoledì 11 settembre 2013

Il magico boom

I tentativi del nostro Paese per uscire dalla crisi cominciamo ad evidenziare i nodi scorsoi che si stringono intorno al collo della nostra economia. In tutti i Paesi dell’Unione gli indicatori macroeconomici  stanno prendendo la rincorsa per una decisa ripresa, mentre da noi si stenta a prendere la direzione corretta. Fino a quando il male era comune il gaudio era quello di sapere che eravamo in compagnia. Oggi rischiamo di rimanere soli. Eppure le cause della nostra debolezza e scarsa capacità di competere sono risapute e riconosciute: scarsa innovazione, nanismo aziendale, tendenza alla frammentazione, bassa propensione ad investimenti di lungo periodo, incapacità a creare e consolidare competenze. Le origini di questi grandi impedimenti vanno ricercate in tempi lontani quando la nostra economia fece boom e milioni di persone poterono assaporare il benessere e la soddisfazione di avere creato qualche cosa dal nulla. Anche se ogni tanto qualche miliardario con velleità di politico cerca di farci credere che sia possibile tornare a quel periodo magico, sarebbe opportuno fare qualche riflessione. In quel contesto apparentemente benevolo e propizio, lo Stato non fece la sua parte, proprio come oggi, dove la latitanza delle istituzioni su molti segmenti della nostra realtà economico sociale è sempre molto sentita. In quegli anni l’economia e la capacità produttiva crebbero a dismisura. Ma non fu un bene perché i benefici ebbero scarsa possibilità di produrre effetti a lungo termine. Era una crescita senza controlli e senza regole. A chi ci governava allora andava bene così: c’era piena occupazione e questo impediva il disagio sociale e i tentativi di sommossa dormivano sotto la cenere; in ossequio alla morale cattolica l’integrità della famiglia era preservata grazie soprattutto al proliferare di aziende a carattere famigliare, un fenomeno talmente diffuso da impedire, negli anni successivi, la costituzione di un tessuto produttivo organico.  Eravamo affamati di crescita. Questo ha tollerato scempi paesaggistici che tuttora feriscono la dignità del nostro Paese. Il ricordo della povertà e del disagio era ancora troppo fresco per proporre modelli di sviluppo maggiormente inclini alla solidarietà e alla condivisione. Furono realizzate grandi opere, ma solo per favorire modelli di crescita basata sulla individualità come autostrade e strade, trascurando e mandando in rovina quello che di buono esisteva già come le ferrovie locali e i sistemi di trasporto merci su rotaia. Dalla fine degli anni ’50 fin verso la metà degli anni ’60 il nostro prodotto interno lordo cresceva a dismisura e questo faceva dormire sonni tranquillo alle istituzioni, troppo tranquilli. Si produceva, si guadagnava e quello che si produceva andava comprato. Il circolo era apparentemente virtuoso per andarlo a modificare, magari riducendo le possibilità di spesa con politiche fiscali di riequilibrio. La scelta è stata quella di tollerare evasione ed elusione. Adesso si cerca di correre ai ripari. Non che lo Stato stette semplicemente a guardare compiaciuto: più colpevolmente fece molto poco per prevenire le conseguenze che inevitabilmente sarebbero intervenute al termine del “boom”. Ebbe timore di toccare quel prodigioso meccanismo che in modo del tutto casuale si era messo in moto per un’eccezionale spinta dal basso e che se si fosse inceppato nessuno sarebbe stato capace di fare ripartire. Scarsa capacità di prevedere il futuro, poca immaginazione, una innata propensione e ridurre i problemi per la loro portata e a procrastinare le decisioni. Esattamente come in tempi attuali le istituzioni non sono state in grado di comprendere il fenomeno della crisi, soprattutto per le conseguenza strutturali che è destinata a lasciare sul nostro sistema. La ripresa non potrà più passare per le attività produttive dei “distretti” onore e vanto della nostra economia degli anni passati. Le dimensioni della competizione globale ce lo impediscono. E non è solo una questione di costo della manodopera e di mancanza di infrastrutture. Basta guardare le nostre scelte di consumatori che premiamo le aziende globalizzate perché offrono un valore riconoscibile costante nel tempo. Nel passato non si è fatto a sufficienza per investire verso sistemi di distribuzione di merci e servizi efficienti, moderni, concepiti sulla beneficio per l’acquirente finale, ma si è spesso indugiato su sistemi di accrescimento della catena per favorire un numero irragionevole di intermediari. Si sono tutelate, spesse volte con un tornaconto elettorale, categorie professionali per garantire rendite lucrose senza proteggere il fruitore finale dei servizi.
Tutto questo in ragione di un magico e misterioso tocco di re Mida che aveva tirato fuori dalla miseria un Paese con quasi 50 milioni di persone che combattevano con la miseria, l’arretratezza e la mancanza di un ruolo di prestigio in Europa.
Oggi le cose non sono diverse. L’incapacità che i Governi, a partire da quello guidato da Berlusconi, hanno evidenziato nell'errata lettura dei dati dell’economia reale, il malcontento che cresceva sono lo specchio dell’atteggiamento dello Stato di 50 anni fa.
Adesso, per rimanere in tema di boom, c’è anche chi pensa a candidare l’Italia per le Olimpiadi del 2024, giusto per rinverdire i fasti dei giochi di Roma del 1960. Da come stanno litigando Milano e Roma sembrerebbe proprio che qualcuno ci crede veramente. Ed è questo che preoccupa.  

mercoledì 4 settembre 2013

Noblesse oblige

Passate le feste ci si dimentica velocemente degli inganni denunciati da scontrini esosi per quattro misere consumazioni al tavolino di un locale esclusivo. Ho volutamente aspettato qualche giorno prima di esprimere il mio punto di vista su vacanzieri colti da raptus di presenzialismo che si trovano loro malgrado buggerati e sbeffeggiati da quel mondo che tanto inutilmente perseguono. Ho voluto vedere quanto seguito potessero lasciare notizie così insulse e prive di valore e ho constatato che le polemiche e le proteste di qualche miliardario in via di redenzione sono ricordi agostani, completamente assorbiti dagli scontrini non meno esosi del supermercato che, nonostante gli aumenti, nessuno metterà mai in rete. Rimane solo la beffa, non dell'esborso sostenuto, ma per la magra figuraccia fatta mostrando al mondo un tentativo maldestro e impacciato di spacciarsi per quello che non si potrà mai essere: uomini di mondo. Nel frattempo mi è anche capitato di venire a conoscenza di quanto costasse il biglietto di prima classe sul viaggio inaugurale del Titanic: l'equivalente di più di 72 mila sterline di oggi. Una cifra considerevole se paragonata al passaggio in terza classe che prosciugava le tasche dei disperati in cerca di fortuna, ma che era comunque abbordabile. Eppure mi sembra che i vari Astor, Guggenheim e compagnia non abbiamo sollevato polemiche sull'esosità dell'esborso. Noblesse oblige, miei cari, anche se la nave va a fondo. 

martedì 27 agosto 2013

Il mare di plastica

In questa estate di scontrini da capogiro, nelle località di vacanza frequentate da qualche vip e tanti  “sip”, self important person, ovvero persone che si “auto” definiscono vip, l’ostentazione rimane uno dei must del divertimento privilegiato. Divulgare sulla rete scontrini che reclamano cifre da capogiro giustificate solo dal contesto in cui vengono emessi è, in fondo una inconscia dimostrazione di potere anche perché chi si tiene ben stretto il portafoglio sta ben attento a non posare le chiappe su divanetti posizionati a portata di udito o di vista mozzafiato. A tutto c’è un prezzo. Il problema è che a chi decide il prezzo nessun può o vuole dire niente. Pertanto, nel dubbio, meglio stare alla larga.
L’altra ostentazione estiva, quella che sbalordisce i plebei avviene nei porticcioli delle località turistiche di mare dove galleggiano barconi di tenore hollywoodiano sui quali pendono bandiere di piccole isole britanniche che hanno attualmente problemi a ospitare nei loro porticcioli qualche barca a vela, una piccola flotta di pescherecci di granchi e il traghetto che le collega all’Isola Madre.
Ma è l’ostentazione di tanta potenza che stride con la cultura del mare e che risulta, in ultima analisi, una grande dimostrazione di ignoranza.
Il mare è una riserva di energia enorme e l’uomo ha impiegato millenni per sfruttarne le potenzialità affinando le regole della navigazione per renderla sempre più sicura e affidabile. Il buon senso e la capacità di conoscere il mare e i suoi molteplici aspetti ha portato l’uomo a sviluppare una strategia minimalista per potere essere sempre in grado di affrontare le situazioni più proibitive. Le canoe leggere e flessibili hanno permesso la colonizzazione delle isole del Pacifico. Migliaia di miglia in mare aperto affrontate con fragili imbarcazioni in grado però di reggere il mare più tempestosi del mondo. Piccoli approdi dislocati lungo la costa per permettere ancoraggi a ridosso di venti e mari pericolosi per la navigazione. Cabine piccole e raccolte per ottimizzare lo spazio con cuccette anguste che però permettevano di evitare di venire sballottati dalle onde. Vele piccole, frazionate e riducibili per evitare di farsele strappare dalla forza dal vento, e potere, allo stesso tempo avanzare. Le navi che donarono gloria all'impero Britannico non erano più lunghe di un modesto vaporetto in servizio sul Canale Grande. L’ammiraglia che ospitava Sir Francis Drake non raggiungeva la lunghezza di peschereccio.
Il gigantismo sul mare è un’invenzione dei tempi moderni e vari incidenti di percorso non hanno arrestato questa tendenza contro natura. 
L’ostentazione griffata del plutocrate ha intrapreso la strada della lunghezza smisurata per ospitare a bordo altrettanti simboli pacchiani e oltraggiosi della cultura del mare: suite a tema, tavoli da consiglio di amministrazione con ridicoli orpelli cittadini, palestre e altri dispositivi per consumare energie in eccesso. E poi, il mondo è diventato più grande grazie ai vantaggi della navigazione a vela, milioni di persone hanno lasciato il proprio Paese per raggiungere altri continenti e fino a qualche decennio fa navi a vela erano adibite al trasporto di merci su tratte di piccolo e medio cabotaggio. L'ostentazione impone la barca a motore. Un'altra insensata dimostrazione di dispendio oltraggioso se si pensa che queste barche hanno motori dalla forza mostruosa e vengono usare solo per qualche giorno all'anno. Eppure basterebbe pensare alle gite informali in barca a vela a Cape Cod della famiglia Kennedy per farsi un'idea di ineguagliato potere e prestigio. 
In mare tutto è funzionale a due cose: sfruttare la sua energia per navigare e sopravvivere alle dimostrazioni estreme di questa. Tutto lo sfarzo che si vede a bordo di queste rappresentazioni di kitsch galleggiante non serve assolutamente a nulla durante la navigazione in acque agitate. Nettuno non si fa intenerire da un vaso di fiori esposto sul ponte di comando, ma considera solo il coraggio degli uomini che dimostrano perizia nell'aggirare i pericoli. E di solito quei bestioni non fanno altrettanto bella figura come nelle placide acque di un marina o di un porticciolo alla moda.
Anche la terminologia è indicativa del rispetto che di dimostra per la cultura del mare.  Yacht o panfilo sono parole si leggono solo sui rotocalchi estivi, ma non hanno corrispondenza tra i termini marinareschi. Se si vuole “ostentare” dimestichezza con le cose di mare  quando parlate di imbarcazioni da diporto dite semplicemente barca. Oppure chiamatele con il loro vero nome: sloop, schooner, yawl, ketch, anche se questi termini sono più consoni alle barche a vela che non sempre incontrano i favori e le voglie di ostentazione dei nuovi ricchi. Sappiate che chi comanda a bordo non è il capitano, ma il comandante. Per chi va per mare il capitano è solo un militare. Noi diciamo capitano perché in inglese si dice allo stesso modo, captain, ma per noi non è la stessa cosa. Se vi capita di assistere alle manovre di una grossa barca che entra in porto astenetevi dal dire che sta parcheggiando. La barca ormeggia, non butta l'ancora, ma dà fondo, non parte, ma salpa. Le finestre sono oblò, i letti cuccette, la ringhiera è la falchetta e il balcone è il pulpito. La passerella che vi porta a bordo è lo scalandrone. La nave non è un palazzo pertanto non ha piani, ma ponti e ogni ponte ha una sua dignità crescente. Così come non ha un tetto, ma una tuga, non muri, ma murate, i pavimenti sono paglioli. Inoltre a chi governa una barca non piace essere assimilato ad un automobilista: pertanto evitate di dire volante (anche se il timone sembra il volante di una Ferrari). Esprimetevi in miglia e nodi e non dite nodi all'ora per intendere la  velocità perché nodi vuole dire già miglia all'ora.
Se si vuole perfezionare la propria cultura sulle cose di mare, allora è consigliabile leggere i meravigliosi racconti di Conrad, Melville, Salgari, Stevenson, Jack London. Oppure leggere qualche cosa sulla fantastica ed incredibile avventura di Ernest Shackleton o altri resoconti sulle esplorazioni polari. Un modo per guardare con sufficienza quel mondo fasullo e plastificato dei magnati in accappatoio cifrato e cocktail alla mano.




giovedì 1 agosto 2013

Il governo del non sapere dove andare

La gestione di governo da parte delle forze politiche che hanno retto l'Italia per buona parte degli ultimi due lustri non ha brillato per chiarezza di intenti su quale fosse la rotta migliore da tenere, ma ha sicuramente avuto idee molto precise su dove non si sarebbe dovuto andare. E precisamente non si sarebbe dovuti arrivare ad un giorno come quello di oggi che sancisce la definitiva fuoriuscita del Cavaliere e l'inizio dei suoi guai più grossi, quelli che non potranno trovare soluzioni legislative, ma si confronteranno solo con l'oggettività dell'ordinamento costituito. Se si potesse raggomitolare il filo dell'operato legislativo partendo da oggi fino ad arrivare al momento in cui Berlusconi ha sentito il fiato pesante della Giustizia che indugiava sul suo collo, tutte le azioni che inizialmente avrebbero garantito imperiture indennità al principe, avrebbero brillato per machiavellica coerenza e diabolico tempismo. Ma questo non è successo.Per fortuna, anche se lungo il tragitto di quel filo di Arianna rimangono le croci di problemi che non hanno mai incontrato gli alfieri e i paladini di immediate ed efficaci soluzioni. Con le conseguenze che sappiamo e che fanno sembrare ancora più amari giorni come questi. 


sabato 27 luglio 2013

Protesta, ma con stile

Glielo si spieghi ai tartassati stilisti Dolce e Gabbana che l'efficacia della protesta si misura in termini di disagio che azioni ed omissioni intraprese da una parte possono arrecare alla controparte. Scioperi delle maestranze per causare mancati profitti ai padroni del vapore e da parte datoriale, serrate per stremare gli operai decurtati del salario, la loro fonte di sostentamento principale. Certo le cose potevano essere sinteticamente descritte così se le rapportassimo al periodo delle grandi lotte operaie in Europa e Nord America, ma oggi le cose sono cambiate anche perché si sono aggiunte parti terze che spesse volte di sovrappongono tra di loro in un giro di disagi incrociati: consumatori di beni di largo consumo, fruitori di servizi di trasporto, pazienti di grandi strutture sanitarie, cittadini e opinione pubblica. A maggior ragione non si comprende la ratio che ha portato i due irosi stilisti a chiudere le loro vetrine di Milano per protesta contro le avventate parole del consigliere comunale. Posso capire le offese per le parole dette senza il fondamento di una sentenza passata in giudicato e il sacrosanto diritto di vantare una potenziale innocenza fino all'ultimo grado di giudizio, ma non si capisce chi avrebbe dovuto danneggiare la serrata di via della Spiga. I dipendenti hanno dichiarato di avere approfittato della fermata per andare qualche giorno in vacanza, che non denota certo soverchie preoccupazioni per il rischio di pane e companatico. Non penso che frotte di consumatori "con i soldi in bocca" abbiamo subito l'affronto di trovarsi davanti ad una vetrina chiusa tappezzata con stilosi volantini che spiegavano i motivi di tanta rabbia. Forse qualche russo, cinese o arabo che avrebbe potuto terminare di spendere gli ultimi spiccioli nella tappa di Milano per acquistare indumenti per potere affrontare con un minimo di confort il penoso tragitto del rientro a casa. Ah ecco, forse era questo il disagio della protesta firmata D&G. Vergognati Milano città ingrata! Non ti meriti gli sforzi di chi lavora e si prodiga per te. E se per caso venissero anche condannati per evasione hanno già detto che loro lasceranno l' Italia e pertanto anche via da te, cara Milano. Vedi di moderare i termini la prossima volta. Hai visto di che cosa sono capaci?

venerdì 19 luglio 2013

L'intelligenza politica. Deputato e ministro a confronto.

Si è sentito dire che Calderoli, che uomo sprovveduto certo non è, abbia saputo sapientemente cavalcare l'onda emotiva del proprio esiguo elettorato facendo giungere alla loro orecchie ingiurie volgari e infantili a carico di un ministro della Repubblica di pelle scura. Proprio quello il popolo padano avrebbe voluto sentire profferire da uno con la cravatta verde. Nonostante le scuse e le clamorose marce indietro per recuperare una pur minima dignità all'interno del sempre meno dignitoso emiciclo, esperti abili nel leggere le tattiche di sopravvivenza di asfittici partiti continuano a sostenere che nulla è nato per caso e che tutto corrisponde ad un disegno di propaganda politica che tenta il tutto per tutto pur di sopravvivere. Cosa certa è, che risulta difficile immaginare un Calderoli quasi timoroso nel profferire insulti tribali e deprecabili all'indirizzo di chi riveste, anche per aspetto fisico, la più deleteria nomenclatura delle colpe che costellano l'immaginario leghista: nero, donna, comunista e progressista. E' parimenti arduo immaginare un Calderoli a guinzaglio corto che vorrebbe esorcizzare le paure della valle padana, ma che per ragioni demagogiche sacrifica la propria intelligenza di fine uomo di Stato a vantaggio e consumo di un manipolo di scalmanati. Lui, in fondo, che con le parole in libertà ha sempre combinato qualche danno: dalle vignette al maiale sacrilego, dai commenti sulla tintarella di giornaliste troppo abbronzate,  all'autodafé sul proprio Frankestein elettorale. Ammettendo anche, con ingenti sforzi di fantasia e buona dose di indulgenza, che il fine ultimo della tattica di Calderoli sia la sopravvivenza, che ben sappiamo essere la quintessenza di quella particolare dote che ci permette di scampare agli agguati che i sempiterni predatori ci tendono, è lecito domandarsi: perché nessuno parla dell'intelligenza della parte offesa? Il ministro della Repubblica Italiana Cecile Kienge, che mi pregio e mi onoro di scrivere nell'interezza della carica ricoperta, ha dimostrato un'intelligenza quasi inusuale per il panorama politico italiano. Ha smorzato subito i toni della polemica, portando l'accadimento da un piano personale ad uno istituzionale. Non ha replicato alle offese, mantenendo un tono distaccato dalla polemica che stava montando. Immagino che per il ministro l'incidente si sia chiuso nel momento stesso in cui era nato. Semplicemente perché, intelligentemente, più la bufera saliva, più si confaceva alle mire del nostro eroe della volgarità. Una tattica saggia, da politico navigato abituato a scansare i siluri della controparte. Un vero politico di stampo britannico, come d'altra parte il ministro, nato in un contesto culturale tipicamente anglosassone, è. E allora come non ravvisare quei primi segnali di cambiamento culturale che una vera politica di integrazione può portare? I commenti di Calderoli sono beceri, irrispettosi e soprattutto denotano una forte componente razziale. Ma non è il primo che parla senza riguardi per le differenze e non sarà certo l'ultimo. Il ministro Kienge, con la sua calma, la sua capacità di vedere al di là dell'ostacolo è veramente la prima a regalarci un comportamento da politico esemplare. Augurandoci che non sia l'ultima. 

lunedì 15 luglio 2013

Miracolo a Milano


Senza soffermarsi troppo sul significato di una bravata esibizionista e scellerata del giovanotto in cerca di "facili" momenti di gloria, un merito va comunque riconosciuto a Maurizio Di Palma, il base jumper autore del lancio dal Duomo di Milano degli scorsi giorni. Un merito che non tutti gli riconosceranno, soprattutto i Milanesi, così distratti e lontani, ormai soggetti senza alcuna storia che si muovono dietro le quinte di una città che oggi non offre più niente di concreto e vero. Quando Maurizio ha raccontato la sua notte sui tetti del Duomo, accuratamente celato alla vista dei sorveglianti per evitare di vedere sfumare il suo gesto eclatante (e fare passare dei guai ai malaccorti guardiani), ebbene, è riuscito a trasmettere le immagini in bianco e nero di una Milano viva, attiva, forte e altruista. La Milano degli anni del dopoguerra, produttrice, animatrice, promotrice. Severa con i suoi cittadini, ma anche con quelli che aspiravano a diventarlo. Ma sempre incline a concedere una nuova opportunità a tutti. E come tutte le città attive e dinamiche aveva i suoi ritmi e i suoi rumori: le saracinesche dei bar che aprivano di prima mattina, i primi passanti che attraversavano la piazza, i voli di piccioni da una parte all'altra, la ronda della polizia. E poi ll sole che incominciava a traforare le guglie e spandere i suoi raggi benefici sul tetto del Duomo. Immagini in bianco e nero, appunto, di una Milano che oggi non c'è più, ma che sa ancora farsi rimpiangere. Maurizio prima di fare il suo grande balzo, ha vissuto da una posizione privilegiata un'esperienza che ormai non prova più nessuno. E ha saputo raccontarcela. Tanti notti come queste Maurizio (e qualche salto in meno).

domenica 30 giugno 2013

L'America vista dal fiume.

Attraversare l’America e scrivere un libro non è proprio il massimo dell’originalità visto che la moda del diario di viaggio americano è una pratica diffusa da almeno tre secoli. Ma se chi attraversa il continente lo fa navigando, allora forse il diritto di scriverlo spetta sicuramente. Anche perché al momento non risultano altri tentativi simili. Andati a buon fine, perlomeno. Da oceano a oceano. Dall’Atlantico al Pacifico. Dalla baia dell’Hudson, sotto il traffico di Manhattan, alle foci del Columbia, nell’Oregon navigando attraverso il sistema fluviale e lacustre degli Stati Uniti percorrendo  solo un manciata di chilometri su strada per ovviare all’impraticabilità delle Montagne Rocciose. La fatidica catena, lo spartiacque, il “divide” che decide da quale parte andranno le gocce di pioggia che cadono su di esse: a sinistra, verso Ovest per percorrere il breve, ma tumultuoso tratto che le porterà verso il Pacifico o a sinistra per congiungersi all’incredibile sistema fluviale che gira intorno al Missouri, il vero fiume per gli americani, che attraverso chiuse, laghi artificiali, sbarramenti e rovine industriali mette in comunicazione le più importanti città degli stati centrali degli Stati Uniti con l’Oceano Atlantico.
La palma dell’impresa spetta ad uno scrittore che ha fatto del viaggio la propria ragione di vita. Dopo milioni di chilometri che lo hanno portato a conoscere ogni angolo recondito del proprio Paese, molto spesso seguendo le “strade blu”, l’equivalente delle provinciali che una volta, sulle vecchie cartine autostradali americane venivano tracciate proprio in quel colore. William Least Heat-Moon, lasciati da parte, questa volta, i tormenti privati, decide di partire su una piccola barca a chiglia piatta - Nikawa, cavallina di fiume in lingua nativa - per risalire per migliaia di chilometri i fiumi americani con il precipuo intento di arrivare dall’altra parte dei continente. Facile a dirsi, ma difficile spiegarlo a quelle diverse centinaia di persone che incontrerà nel corso della sua navigazione e accuratamente ritratti nel suo diario di bordo. Perché, tolta l’eccezionalità dell’impresa  e riconosciuta la tenacia dell’autore deciso a non sprecare un miglio di acqua navigabile, il bello di questo libro sono le descrizioni dei personaggi conosciuti durante l’incredibile viaggio. Uomini e donne, gestori di pub, contadini, addetti alle chiuse, vagabondi, uomini di legge decisi a fare rispettare le leggi sullo sfruttamento delle acque interne, ognuno ripreso in un contesto specifico, ma tutti uniti dalla forza evocativa che quel viaggio sapeva dare: dal suo punto di partenza, New York al suo punto di arrivo, il Pacifico che per molti americani dell’interno restano sempre dei miraggi irraggiungibili.
Anche Least Heat-Moon però non sfugge alla regola consolidata che stabilisce che ciò che giustifica un viaggio è seguire le orme di qualcuno che ha visitato quei luoghi in tempi remoti. E nel suo caso le anime ricorrenti sono quelle dei capitani dell’Esercito Americano Meriwether Lewis e William Clark mandati in avanscoperta agli inizi del XIX secolo per scoprire le origini dei grandi fiumi americani e iniziare a costruire quel grande sistema di vie d’acqua solcate da battelli leggendari che da San Louis portavano ricchezze, bellezze, vizi e alcool in tutti gli avanposti del West. Dagli stralci dei diari dei due militari le descrizioni dei luoghi rivisitati quasi due secoli dopo sono di una struggente bellezza. Anche i due rudi uomini d’armi capitolano di fronte agli spettacoli di gole, canyon e valli ammettendo la loro pochezza di narratori e auspicando la penna di un Salvator Rosa (un nostro connazionale, a malapena ricordato come eroe risorgimentale e ancora meno come scrittore).
Bellezze, che salvo alcuni tratti ben poco concedono al visitatore attuale. I genieri del Governo federale, in nome dello sfruttamento commerciale delle acque interne, navigazione, pascoli e, soprattutto, energia elettrica, non hanno dimostrato animo sensibile come i due militari. L’opera dell’uomo è sempre visibile per quanto riguarda alvei ristretti per aumentare la profondità, deviazioni, canalizzazioni, chiuse, dighe e canali. Un sistema efficiente che permette oggi un discreto ricorso alle vie d’acqua per finalità di trasporto commerciale anche grazie ad una ferrea regolamentazione degli afflussi delle acque per contenere i rischi di alluvioni o contrastare i periodi di magra.
Buona parte del viaggio si dipana lungo il tortuoso itinerario del Missouri, il fiume per definizione per chi è veramente americano. Al punto che molti lo considerano ancora più importante del Mississippi che ha strappato il primato di fiume più lungo degli Stati Uniti a danno del Missouri solo in ragione di una svista dei cartografi in merito alla effettiva attribuzione del primo tratto fluviale che in realtà sarebbe stato metodologicamente corretto attribuire al Missouri. Di certo l’errata attribuzione non ha tolto a Least Heat-Moon il fremito primordiale verso questo fiume e la volontà quasi ferrea di risalirlo quasi fino quasi alle sue sorgenti. Un libro che si legge con entusiasmo, lo stesso che ha mosso l’autore nel raggiungere il Pacifico, grazie a dialoghi secchi, costruiti con sagacia e ironia. Una continua rincorsa tra l’autore e i suoi compagni di viaggio, i “pilotis” del momento che si avvicendano nel corso del viaggio, ma che nella narrazione pare essere sempre la stessa persona. Di notevole impatto emotivo le perle di saggezza raccolte durante gli incontri. Una su tutte degne di nota (e di stimolo alla riflessione per molti):  nella lingua degli indiani d'America la parola inondazione non esiste. I fiumi hanno iniziato a straripare solo dopo l'arrivo dei bianchi. Prima seguivano solo il loro destino.

William LEAST HEAT-MOON (2000), Nikawa - Diario di Bordo di una Navigazione attraverso L'America, Einaudi - ISBN 88-06-15496-6

giovedì 20 giugno 2013

Tra orgoglio e abbandono: cronache di un viaggio abituale tra Lombardia e Piemonte

La ferita che ha lasciato lo sviluppo di Malpensa 2000, la “grande Malpensa” come imponeva la logica leghista allora imperante è ancora ben impressa nel territorio circostante, sventrato e svilito per assecondare un modello di sviluppo che, anche allora, non sarebbe risultato credibile.  Attraversare i comuni della lotta, quelli che scesero in piazza per protestare contro i carrelli degli aerei che sfioravano le antenne, Lonate Pozzolo, Ferno, Samarate, vuol dire passare in mezzo a rioni completamente abbandonati. Equamente abbandonati: case popolari, ville con piscine, casette con gli occhi chiusi con i mattoni in attesa di un riutilizzo che difficilmente si potrà fare. Visti i tempi e la cronica mancanza di pianificazione. Oggi i loro proprietari, indennizzati con moneta sonante, si sono trasferiti e agli aerei non ci pensano più. Ci viaggiano solamente, passando sopra altre case e altri tetti di gente meno fortunata di loro. Virando verso est, verso la sponda del Ticino oltrepassata la teoria di capannoni e uffici vuoti da sempre si passa sopra il fiume, l’unica anima bella rimasta in quest’angolo di orgoglio lumbard nel mondo, ormai solo immagine di un degrado senza fine.  In questi giorni di piena vederlo scorrere sotto il ponte di ferro di Galliate è come un soffio di ossigeno per un moribondo. Una riga verde smeraldo - perché se è vero che tutti i fiumi hanno un colore, il verde smeraldo è  il colore del Ticino - che passa sotto questa struttura del 1952, un tunnel che quando si attraversa, dà sempre l’idea che usciti dall'altra parte ci si possa ritrovare  a vivere il giorno della sua inaugurazione. In quegli anni verso i quali tutti vorremmo in fondo tornare, illusi che il tempo di allora si muovesse con il moto lento di un film in bianco e nero. Il ponte è la boccia di vetro con la ballerina immobile e la neve finta che le si agita intorno. Attraverso il vetro si vedono le stagioni: le piene, la neve sulle rive, la secca i bagnanti che affollano le anse e l’anima candida dagli occhi verde smeraldo che ogni estate pretende le sue vittime che, come tutti i fiumi, trattiene sul fondo, come a rivendicarne il pieno possesso. Il trofeo da esporre. Passo per Galliate e anche qui il ricordo degli anni del dopoguerra rivive. Con le sfide fra Varzi, illustre e notabile concittadino e Tazio Nuvolari, nato in una città del Mantovano gemellata con Galliate, città viscontea. Ma è solo un breve momento. Superato il centro della città, con le sue fortificazioni di stampo ottocentesco, il confine con l’Austria era a pochi metri, inizia a spandersi l’immonda concretezza dell’area industriale, un’onda sul bagnasciuga che, purtroppo, non si ritira mai. Un assurdità dei piani regolatori di anni di illusorio benessere, dove un paese di poche migliaia di anime riesce oggi ad avere due anche tre aree industriali, con l’intento dichiarato di coprire tutti e quattro i punti cardinali.
Nella campagna tra Novara e Vercelli, attraversata dal gioco reticolare dei canali irrigui che portano i nomi di uomini politici post-unitari che fecero l’Italia, ma soprattutto fecero grande il Piemonte, la cascina si staglia come una cattedrale gotica diroccata. In mezzo a quello spazio rimasto vuoto è ancora facile immaginarla solitaria in mezzo alla campagna. Con lentezza muovevano allora carri, bestie, biciclette, poi qualche motocicletta, qualche motofurgone, ma sempre nella direzione di quel centro di vita sperso in mezzo alle risaie e alla nebbia. Oggi ci passa l’autostrada, di fianco, un rudere rossastro che stona con le insegne della benzina e l’acciaio del guard-rail che le scorre vicino.
A Cameriano, sullo stradone, a metà paese si gira a sinistra e qui si che sembra di tornare agli anni 50’. Anche prima se non fosse per il monumento ai Sette Martiri della resistenza trucidati in mezzo alle rogge, è facile immaginare di tornare agli anni trenta. Il bar del paese serve acqua e menta e gli anziani seduti non sembrano oziosi come quelli dei bar cittadini. La padrona invita a giocare al tiro alla rana, dove vince chi riesce a centrare la bocca larga dell’anfibio con dischetti di ottone vecchi di decenni. D’inverno se si è fortunati può capitare di essere inviatati a cena dai cacciatori che svuotano i carnieri in questo posto d’altri tempi. Dopo il reticolo delle risaie, qualche cascina semi abbandonata si ritorna sullo stradone per Borgo Vercelli, altro esempio di politiche dementi che sono riuscite a trasformare un bell'esempio di urbanistica fluviale, caso raro per il Piemonte, dove le città voltano le spalle ai propri fiumi, in un polveroso ricettacolo di abbandono che colpisce indiscriminatamente capannoni costruiti e mai usati e architetture settecentesche.
Prima di Vercelli, nascosto tra una selva di cartelli gialli e neri che indicano le ansimanti attività superstiti dell’ennesima area industriale appare a malapena il cartello marrone che indica il percorso della via Francigena. E’ facile imbattersi in pellegrini turisti, in quasi tutti i mesi dell’anno. Persone normali: pensionati dall'aria giovanile, turisti stranieri con lo zaino che attraversano a piedi zone poco probabili per una passeggiata di meditazione: parcheggi, distributori di benzina, centri di logistica semivuoti. Ma dietro quel muro, si apre un sentiero di terra battuta che porta a Roma passando per monti, colline, laghi e boschi. Un sicura certezza per chi passa e prosegue nel suo itinerario di squallore. A sud di Vercelli, sulla strada di larghezza esagerata che attraversa le risaie un’altra area industriale, in forte espansione: ben due centri commerciali sorti nel giro di un amen. Con altrettante rotonde che ruotano attorno al nulla. Gareggeranno con l’abbandono che regna sovrano in questa parte di Piemonte funestata da centri commerciali e produttivi relitti di idee di espansione mal calcolata: concessionarie in stile azteco, un mega centro per l’artigianato che ha conosciuto solo i fabbri che hanno serrato i cancelli, ospedali allo sfascio, un ex orfanotrofio finito di costruire quando, ex lege, gli orfani sono stati cancellati dall'ordinamento, un manicomio in cerca di identità. Tutto nel giro di qualche centinaio di metri in linea d’aria. Unica nota di valore: è che qui Francis Lombardi, pioniere e asso dell’aviazione prima e carrozziere dopo, aveva i suoi stabilimenti che regalava sogni agli italiani del boom economico trasformando semplici utilitarie in semi-fuoriserie pretenziose. Oggi non se lo ricorda più nessuno.  

giovedì 6 giugno 2013

La vita e la memoria

Non suonino come un rimprovero le parole di Papa Francesco quando afferma che un uomo che muore di fame non fa notizia, mentre i dati dell'andamento finanziario diventano oggetto di interesse generale. La storia e l'Umanità non si sono mai fermati davanti al dolore del mondo; lo hanno giustificato con dati e fatti e spesse volte i dati coincidevano con i listini delle quotazioni di borsa. Siano invece, le sue parole, comprese come una pura verità alla quale non ci possiamo sottrarre, sia per aiutare quell'uomo che muore e tanto meno per modificare l'andamento delle contrattazioni di borsa. Accettiamolo e basta. Accettiamolo perché il nostro mondo è piccolo e non può arrivare a comprendere tutto il male dell'universo. Il nostro vivere, così come lo dipingiamo con la mente,  è riempito e svuotato costantemente delle cose buone che gradualmente vengono sostituite da cose meno buone, inutili vacue. Il lavoro è importante, la responsabilità ben riposta, l'attaccamento e l'impegno sono fondamentali per consolidare la propria posizione sociale e di censo, ma come suonerebbero adesso per chi ha dimenticato per otto ore, che beffardamente sono tante quante le ore di lavoro contrattualmente convenute, il figlio in un macchina diventata un forno? Nulla, meno di zero. E' come se scoprissimo, uscendo dai luccicanti uffici di una city che quell'uomo che muore accucciato sotto un portone è nostro padre. E noi ci siamo dimenticati di essere figli. Fino al momento in cui non lo avremo più.

giovedì 23 maggio 2013

Il marketing del tubo (di scappamento)


Le automobili prodotte negli ultimi anni si distinguono in due grandi categorie: quelle che mostrano il tubo di scappamento e quello che lo nascondono. I veicoli di basso cabotaggio, come utilitarie, macchine per famiglie, onesti mezzi di trasporto per chi all'auto non può rinunciare, il tubo di scarico lo occultano dietro il paraurti. Quelle grosse, potenti e cafone lo ostentano. Grosso, cromato, prepotente. Un simbolo di maschia potenza da esibire come i colori sgargianti che ornano il fondoschiena dei babbuini. Due, tre anche quattro in alcuni casi. Un’aberrazione che Luca Mercalli definisce una mostruosità come un uomo con due ani. Più che le motivazioni che portano a evidenziare la parte finale della combustione, che è poi l’origine di buona parte dei mali dei tempi nostri, bisognerebbe capire perché gli strateghi del marketing automobilistico abbiamo deciso di non mostrarlo più. In fondo l’auto ha sempre avuto il tubo di scappamento. E’ connaturato con essa, quasi una funzione sensoriale che le permette di funzionare, di fare rumore per farsi notare e di emettere scarichi nocivi per farsi sentire. Non si capisce per quale motivo sia improvvisamente sparito. Se si tratta di nascondere il fatto che non si vuole fare vedere che inquinano allora perché mostrare le vergogne di quelle che invece consumano di più e spesse volte senza motivo? Si vuole sottolineare l’atteggiamento remissivo e pacifico del suo utilizzatore che farebbe tutto per evitare di andare in giro a depositare la sua quota giornaliera di CO2, ma che tuttavia continua ad usare l’auto anche per fare tragitti da passeggiata balneare? Questo potrebbe essere un buon motivo. Come sempre il marketing riesce a trasformare le nostre deficienze in modelli virtuosi sempre a patto che si assecondino i modelli di consumo proposti. E’ oggettivamente difficile trovare delle argomentazioni ragionevoli. Io avrei fatto il contrario: nascondere la protuberanza velenosa di SUV, bolidi stradali et similia e fare pesare di meno le colpe a chi usa la macchina con coscienza e rispetto per gli altri. 

mercoledì 15 maggio 2013

Il difficile senso di una tragedia

Se può avere ancora senso tornare a parlare del gesto folle di Adam Kabobo, lo squilibrato che a colpi di spranga e piccone ha ucciso tre persone, sarebbe bene parlare di una persona che ha restituito il vero significato di questo dramma. Mi riferisco al direttore dell'Ospedale Niguarda che di fronte ai giornalisti ai quali comunicava l'ultimo ferale bollettino medico sulle condizioni del povero ragazzo di 21 anni, dopo un attimo di umano sbandamento, ha detto due parole che riverberano magnificamente  il pathos di questa tragedia: e' difficile. E' difficile, infatti, trovare un senso a quello che stava leggendo; è difficile per un medico giustificare le ragioni di una morte così, come è difficile per un padre giustificare la perdita di un figlio, per una comunità le ragioni della follia e della disperazione, per una città giustificare il disinteresse e l'ignavia. E' difficile, è oggettivamente difficile. Il solo vero atto di responsabilità è il silenzio di chi è sopravvissuto, il lavoro e l'impegno delle forze dell'ordine, dei giudici e degli operatori sociali che sapranno prevenire tragedie simili, le lacrime di un medico che ha fatto il possibile, ma oltre al dato clinico, non sa fornire spiegazioni. E' difficile, ma le lacrime e il dolore sincero del medico del Niguarda sono le cose più semplice da comprendere.

mercoledì 8 maggio 2013

Quando la pubblicità non aveva sensi di colpa


Ha fatto bene Silvio Saffirio a scrivere il suo libro sugli anni ruggenti della pubblicità. Una parentesi di storia felice che inizia verso la metà degli anni ’70 per chiudersi intorno alla metà degli anni ’90. Chi scrive è uno del mestiere. Nel senso che ha lavorato nel settore che conosce molto bene. La sua idea letteraria, dovendo semplificare, è stata questa: “perché non intervistare tutte quelle persone che hanno lavorato insieme a me, come soci, colleghi o concorrenti, che conosco molto bene, ma che non ho mai potuto conoscere per quello che pensano intimamente della pubblicità?”. Ne è uscito un lavoro molto interessante, soprattutto perché i solidali dell’autore erano, più che altro per ragioni anagrafiche, le menti creative che hanno fortemente contribuito alla nascita della comunicazione commerciale moderna. Parliamo di Emauele Pirella, Milka Pogliani, Maurizio D’Adda, Giampietro Vigorelli, Pasquale Barbella, Franco Moretti e altri esponenti di quel mondo che hanno lasciato un segno indelebile nel vissuto di molti prodotti e marche che magari oggi non esistono più, ma che continuano ad influenzare il nostro modo di parlare, di scrivere e di pensare. Rammarica che non abbia potuto essere schierato tra gli intervistati Enzo Baldoni (il libro è uscito dopo la sua scomparsa in Iraq) perché il suo punto di vista, a detta di molti degli intervistati, avrebbe potuto aggiungere ancora più significato alla lettura. Ma accontentiamoci anche del fatto che nel tempo intercorrente dal termine delle interviste alla stampa due importantissimi personaggi sono passati purtroppo a miglior vita: Emanuele Pirella che ha legato il suo nome ad alcune campagne storiche come quella del famoso sedere che invitava chi lo amava a seguirlo e Marco Mignani al quale penso potrà fare solamente piacere se verrà ricordato per i  suoi famosi 10 piani di morbidezza.
Ci sono alcuni elementi che saltano agli occhi e che descrivono bene il periodo: innanzitutto un fatto congiunturale dovuto alla calata in massa delle “major” anglosassoni della comunicazione che sono arrivate nel nostro Paese per sfruttare un mercato ancora immaturo e dalle fortissime potenzialità. Al traino dell’espansione in Italia di importanti corporation dell’alimentazione, delle bevande e dei beni semidurevoli sono arrivate importanti agenzie di comunicazione come Leo Burnett, J. Walter Thompson, Ogily&Mather, Young&Rubicam, Saatchi&Saatchi le quali, lungimiranti, si sono ben guardate da mandare manager scadenti a soggiornare per qualche anno nel Bel Paese, ma hanno smosso i cavalli di razza facilitando in seguito lo sviluppo di un fiorente periodo di creatività tipicamente italiana. Per la pubblicità italiana è stata una grande lezione per apprendere le tecniche e le modalità di lavoro delle grandi agenzie internazionali (che ancora oggi imperano in questo ambiente) alle quali hanno però unito un’inedita dose di immaginazione sofisticata, apparentemente leggera e ingenua, ma in grado di superare le reti molto fitte e infide della moralità dei tempi che spesso intralciava, con regolamenti assurdi, censure di vario tipo e cavilli burocratici di bizantina memoria la crescita di un sistema di comunicazione commerciale più aperto e libero. Non si dimentichi che il pubblico al quale si doveva fare riferimento era quello abituato ai siparietti di Carosello (tornato allegramente in auge in questi giorni) dove lo “sketch” con il volto conosciuto era totalmente svincolato dal prodotto che veniva poi evidenziato nella coda finale del filmato. Scelta non casuale o motivata da ragioni artistiche, ma in ossequio a vetusti regolamenti interni della Rai che impedivano, di fatto, ogni contaminazione del marchio all’interno della “reclame”.
Dal libro di Saffirio emerge anche la magia di una professione che allora nasceva veramente per caso e per pura combinazione. Sono eloquenti le testimonianze degli intervistati che raccontano gli sforzi per entrare nel mondo dell’editoria, ritenuto allora il vero paradiso della parola, della lettera, del pensiero che unisce la conoscenza all’arte, la volontà di apprendere alla capacità di divulgare. Tanti bei sogni sperperati nelle difficoltà di quegli anni: l’origine borghese e le scarse disponibilità economiche, le tentazioni dell’ideologia, i paradisi artificiali, la contestazione. Quasi tutti gli intervistati ammettono di essere stati, in fondo, dei falliti di successo. Ma il vaso di Pandora della pubblicità era ormai scoperchiato e la forte attrazione che il mondo della pubblicità eserciterà negli anni a venire su frotte di giovani dalle velleità creative ed immaginifiche farà scaturire dapprima un proliferare di agenzie molte volte improvvisate e affastellate che avrà come risultato un decadimento molto sensibile della qualità dei lavori e la netta sensazione che un momento magico sia definitivamente terminato. Si tenga presente, a riprova di questo, che la pubblicità italiana, per quanto ci possa piacere o essere piaciuta per le sue trovate, le immagini che ha evocato e i modi di dire che ha imposto, a livello internazionale non brilla certo per premi e riconoscimenti ricevuti. Ogni tanto portiamo a casa qualche cosa, ma capita di rado.
In ogni caso, gli anni ruggenti della pubblicità, nel piccolo del nostro mondo, ci sono stati. Con l’avvento delle televisioni commerciali e dei famigerati “spot” l’investimento delle aziende verso la pubblicità, soprattutto verso il canale televisivo, ha toccato vette molto elevate. E questa abbondanza di denaro che acquistava spazi di visibilità sul mezzo che ha fatto letteralmente impazzire gli italiani a partire dalla metà degli anni ’80, ha fatto la fortuna di molti pubblicitari, travisandone però spesso, i reali meriti. Infatti non va dimenticato che il successo di una campagna pubblicitaria per quanto intelligente, azzeccata e a passo con i tempi dovrà riconoscere il suo successo, e spesso il successo viene scambiato unicamente per quanto una pubblicità riesca a farsi ricordare, in ragione della potenza di fuoco alla quale ricorrerà. Insomma, per quanto banale, poco creativo e volgare, il messaggio pubblicitario ci sembrerà più riuscito di quello che vediamo meno. Ma si sa che la pubblicità non ha sensi di colpa.

Silvio SAFFIRIO (2010), Gli Anni Ruggenti della Pubblicità- I grandi creativi raccontano, Instar Libri - ISBN: 978-88-461-0110-5

domenica 21 aprile 2013

Lo Stato occupazionale


E’ possibile teorizzare un sistema di reclutamento che garantisca sempre una piena occupazione di tutta la forza lavoro disponibile, che sappia indirizzarla verso il giusto sbocco professionale e che sia in grado incentivarla ad cogliere tutte le possibilità di aggiornamento e formazione? Insomma un sistema che metta al riparo da sfruttamento, lavoro nero, paghe risibili e ricatti? Si; anche se sulle prime potrebbe sembrare un tentativo mal riuscito di resuscitare modelli di economia di stile collettivista, il sistema potrebbe avere una sua logica facendo dei doverosi distinguo. Nei Paesi del socialismo reale esisteva, di fatto, un unico datore di lavoro, lo Stato che, allo stesso tempo, formava, reclutava, divertiva e accudiva l’intera popolazione. Che lo facesse bene e con intenti disinteressati è sicuramente non vero, ma lo faceva. Ancora oggi l’assistenzialismo garantito è oggetto di rimpianto da parte dei sopravvissuti al crollo del muro. Ma dato che si trattava di assistenza, il modello non avrebbe potuto reggere a lungo. Come i fatti dimostrarono.  Ipotizzando però che i datori di lavoro siano tanti e operino in regime di concorrenza, come avviene nelle nazioni dove vige il libero mercato, sarebbe però interessante pensare ad un sistema dove l’intera forza lavoro venga assunta da un unico operatore, lo Stato, e rimesso a disposizione delle aziende sulla base di un meccanismo, né più ne meno, simile al lavoro interinale.
Facciamo un esempio: il soggetto A terminato il suo corso di studi universitario viene assunto dallo Stato che lo valuta per quella che è la sua preparazione, le sue capacità, talenti e inclinazioni . Se non dimostrerà il livello di preparazione adeguato e se rivelerà un potenziale, potrà integrare le sue conoscenze con attività di formazione ad hoc, ovviamente a spese della collettività. Una volta pronto per il mondo del lavoro, lo Stato lo proporrà a quelle aziende interessate al suo profilo. In cambio riceverà un corrispettivo per il servizio  reso. Un bel vantaggio per l’azienda: niente più tenuta di libri paga, versamenti di contributi, cedolini, accantonamenti: tutto è a carico dello Stato. Che ovviamente si rifà sulle aziende “clienti”. Ma torniamo al nostro soggetto A: il lavoro nella sua azienda prosegue. Cresce professionalmente e matura esperienze rivendibili in altri contesti. In un contesto normale l’azienda che lo ha assunto tenderà a non riconoscere nessun merito alla sua crescita e il giovane ha due strade per migliorarsi: chiedere un aumento o cambiare lavoro, ovvero mettersi subito in una condizione di debolezza e di potenziale rischio. Se fosse dipendente “dello Stato”, quest’ultimo una volta accertate le qualità del suo dipendente andrebbe dall’azienda cliente a contrattare un aumento del corrispettivo per le prestazioni svolte. Se l’azienda non accetta, la risorsa verrà automaticamente allocata presso un’azienda maggiormente disposta a sostenere i costi le prestazioni fornite. Indubbiamente il modello presuppone un’estrema mobilità, ma se questa modalità venisse resa obbligatoria fino ad una certa età, per esempio fino a 35 anni, i vantaggi sarebbero superiori ai disagi. Vediamone i motivi: Lo Stato di fatto diventa monopolista di una fetta di forza lavoro, proprio di quella più critica, vulnerabile e soggetta alla discriminazione. La possibilità di reclutare personale al di fuori questa modalità verrebbe facilmente individuata. Praticamente il lavoro in nero sparirebbe. L’evasione contributiva subirebbe una drastica riduzione perché sarà solo lo Stato a versare contributi per i propri assunti. E per le aziende è un bel sollievo in termini di costi fissi per personale amministrativo che non sarà più necessario. Lo stesso dicasi i versamenti delle imposte, l’assistenza sanitaria, la maternità. Tutto a carico di un unico interlocutore che coprirà i costi con i proventi derivanti dalla “locazione” delle proprie risorse. Un vantaggio enorme è poi prevedibile per la formazione e lo sviluppo delle risorse per la semplice ragione che lo Stato, possessore di fatto di tutte le risorse impiegabili all’interno della tessuto produttivo abbia un altissimo interesse a investire in formazione e addestramento per mantenere elevata la qualità del suo patrimonio che potrebbe essere impiegabile non solo all’interno del contesto nazionale, ma anche all’estero.
L’idea è questa, per sommi capi. Sicuramente ha molti buchi e smagliature, ma a livello generale non vedo motivi che potrebbero ostacolare un approfondimento. Se qualcuno avesse delle idee al riguardo o al contrario può approfittare di questo spazio per aprire il confronto. 

venerdì 29 marzo 2013

Il vero senso di essere Francesco


Il pellegrino scalzo che prega impassibile sotto la pioggia in piazza San Pietro a Roma non è l'immagine di un Chiesa d'altri tempi, ma l'icona di quella che sarà domani. Non una Chiesa povera, ma libera.
Papa Francesco ha colto il nesso indissolubile che lega l’assenza di vincoli materiali con la piena condivisione dell’Ideale. In questa assenza di legami scaturenti dalle troppo sapienti arti del compromesso e della negoziazione poggia la forza del nome che il nuovo capo della Chiesa ha voluto imporsi.
San Francesco ha rinunciato a tutte le sostanze paterne, non ad una parte di queste. Così ha fatto e farà Papa Francesco che con le sue rinunce sta di fatto smantellando il sistema di compromessi che ha garantito il perseverare dell'interesse terreno sulla componente morale e spirituale della Chiesa. Le sue rinunce di oggi sono la sua forza domani.
Non è la spiritualità di quest'uomo che non ha indugiato un solo momento a rompere gli schemi, ma la sua assoluta libertà nel volere essere a tutti costi quelli che gli piace essere.
Le scelte minimaliste del Papa oggi sono amplificate dal megafono della comunicazione che, ormai disabituata alla anormalità, persegue con stupore le mosse irrituali di un attore che sembra avere scordato la sua parte. Tra poco la sua forza si sfogherà all’interno delle mura ben cintate della invalicabile fortezza vaticana e solo allora potremo misurare gli effetti della sua forza.
Nel frattempo il nuovo Francesco strabilia con il suo essere prete tra la gente, ma colpisce l’immaginazione solo di chi la Chiesa la conosce e la pratica poco. Solo chi preferisce ingaggiare con la Chiesa Cattolica il dibattito sui temi pelosi dell’omosessualità, dell’aborto, della contraccezione trova eccezionale il nuovo Papa. Certo non si sorprende colui che conosce la vita dei sacerdoti di tutti i giorni.
Il nome del nuovo Papa darà ragione al gesto di quel pellegrino sotto la pioggia. Non è solo fanatismo. Francesco non è una sorpresa per chi è credente.

mercoledì 6 marzo 2013

La rivolta dei panciapiena

C'è un bizzarro contrasto tra la voce di protesta che si leva dal coro dei cosiddetti "grillini" e una genuina volontà di fare politica. Un contrasto che chi ha vissuto la stagione dei forti scontri ideologici difficilmente riesce a spiegare se non attraverso una lettura dei tempi e dell’immane senso di individualismo che ne permea. Anche negli anni della contestazione esisteva una forte componente nichilista rivolta verso il mondo delle istituzioni politiche, religiose e accademiche. La forza emergente di aggregazioni giovanili in grado di compattarsi, anche fisicamente, al cospetto della reazione ha generato una consapevolezza che poi ha avuto, in molti fortunati casi, esiti costruttivi, ma anche nefandi e scellerati che ancora oggi attagliano le coscienze di molti. C’erano soprattutto due cose che assommate hanno generato una coppia di forza motrice, la cui combinazione fortunata riesce poche volte nel corso della storia: il bisogno materiale ed emotivo di una vita migliore e un’ideologia in cui credere.
Chi scende in campo con il movimento di Beppe Grillo ha intrapreso un’azione politica al seguito di un’idea, non di una ideologia, ha intessuto dinamiche di gruppo spinte dal mezzo virtuale con uno scarso peso relazionale e un basso coinvolgimento emotivo, non concepisce l’acculturamento come uno strumento di levatura e di sviluppo e soprattutto, non ne sente il bisogno. E’ un esercito di esseri satolli di consumismo e di tecnologia da esibire, che non ha mai sperimentato stati o situazioni di precarietà o di annebbiamento delle proprie prospettive. E’, in ultima analisi, un mondo di persone che non ha fame. Un esercito di panciapiena. Sono impiegati, dipendenti pubblici, pensionati con buon reddito, imprenditori che hanno saputo ritagliarsi una nicchia nel generale stato di crisi, persone che hanno avuto esistenze semplici, non segnate da traversie o momenti di buio. Persone che non si sono misurate con i meandri della macchina dello Stato e che non hanno mai avuto modo di apprezzarne i meccanismi diabolici e deleteri, che non conoscono la Costituzione e che riducono gli equilibri di una negoziazione ad una più spiccia e fragorosa attività denigratoria della controparte. Non matureranno mai una coscienza politica perché hanno una vaga sensazione della coscienza civile e non sono in grado di comprendere che quello che siamo oggi, nel bene e nel male, è solo merito o colpa di quelli che sono venuti prima di loro. Sono quelli che ti suonano il clacson per rimproverarti di qualche manovra maldestra e quando ti superano guardano dritto davanti a loro per non incrociare lo sguardo. Sono persone che mirano ad un beneficio immediato dalle proprie azioni. Che cercano stimoli nuovi per smuovere la propria esistenza agiata e intorpidita verso nuovi traguardi ed esperienze. Con la determinazione del principiante. Come chi compra la bicicletta o l’attrezzatura da sci per poi chiuderla in garage dopo pochi mesi. Vantano una fedina penale immacolata, semplicemente perché la loro ignavia o la loro limitatezza non li ha mai portati a misurarsi con situazioni di complessità che andassero oltre la compilazione della richiesta degli assegni familiari senza discernere che esiste una grado di valore diverso tra un imprenditore di successo che non ha mai frodato il fisco o uno statista che non ha mai rubato e un semplice cittadino che amministra il proprio stipendio e basta. Si presentano per quelli che sono, apparentemente anime candide le cui pecche linguistiche e culturali possono essere sminuite dal loro entusiasmo. Credono in una guida che di fatto non conoscono che idolatrano con malcelata invidia, e che non vedono l’ora di abbandonare al suo destino per potersi ritirare in un angolo a contare il bottino. Si sforzano di essere originali di rompere gli schemi della comunicazione e della dialettica semplicemente perché non sono in grado di reggere un contraddittorio  Sono privi di ironia. Recitano slogan orecchiati qua e la senza capire che quello che dicono oggi è in contrasto con quello sostenuto ieri. E’ la pancia piena che li fa muovere in uno stato di intorpidimento mentale. Difficilmente si ridesteranno. A meno che non si accorgano di avere l’acqua alle caviglie. E allora anche i loro stomaci inizieranno a gorgogliare. 

La forza della reazione