venerdì 27 gennaio 2012

Simbologia del naufragio

L’immagine della nave da crociera semiaffondata a pochi metri dalla costa ha suscitato non poca morbosa attenzione da parte dei media di tutto il mondo.
Si avverte, infatti, una beffarda e irriverente presenza dell’elemento liquido che sovrasta ormai arredi, suppellettili, tappeti che mai e poi mai si sarebbero immaginati ghermiti dall’acqua marina, di quell’elemento che la moderna epopea dei viaggi per mare, dal Titanic in avanti, ha cercato di dimenticare e di oscurare con cortine di lusso e sfarzo. O di miseria e puzza di sudore (come direbbe De Gregori) se parliamo della terza classe.
Una forte connotazione simbolica della nave ha sempre trovato nella ricerca del lusso e delle comodità, una risposta all’atavico terrore dell’uomo a navigare sulla superficie dell’abisso marino, colmo di misteri e creature mostruose. I crescenti agi che le imbarcazioni hanno riservato nel corso dei secoli ai primi argonauti sino ai facoltosi passeggeri dell’epoca d’oro dei transatlantici, sono state un illusorio paravento al baratro che separa il fasciame del vascello all’oscuro abisso marino. Con l’avvento della navigazione di massa, che ha coinciso con le punte dei flussi migratori oltreoceano di eserciti di persone del tutto ineducate al mare e alla navigazione, le navi si sono gradatamente adeguate alla necessità di nascondere o limitare il più possibile la vista dell’elemento che di per se giustifica il mezzo, e cioè il mare.
L’esplosione, poi, del business delle crociere d’evasione, dove la nave non è più un mezzo di trasporto per raggiungere una meta prefissa, bensì una scusa per potere esercitare stili di vita altrove non possibili, il mare viene addirittura eliminato, oscurato alla vista, dimenticato. E’ soltanto una superficie abbastanza tranquilla per potere fare muovere una costruzione metallica di enormi dimensioni, un “non luogo” galleggiante che contiene tutto quello serve per il divertimento e che non può stare da nessuna altra parte.
A bardo delle crociere si fa di tutto: si mangia, si gioca, ci si trastulla, si fanno conoscenze e si cercano avventure galanti. Tutto tranne ricordarsi che siamo in navigazione e andare per mare racchiude sempre una certa dose di rischio.
Ecco perché l’immagine della nave semiaffondata esercita una fortissima dose di sgomento in chi la guarda che non riesce a capitarsi di come sia stato possibile un affronto del genere alla magnificenza della nave, al suo bianco immacolato, alle sue comode cabine, ai suoi lussuosi saloni, alle divise dell’equipaggio e all'ostentata sicumera di chi le indossava.
Ancor più sconvolgente è l’immagine di quel relitto beffardamente adagiato a pochi metri dalla terraferma che riprende un’altra simbologia del naufragio caro, questa volta, ad un filone di pittori del tardo XVIII secolo che amavano raffigurare il vascello ormai ingovernabile nei pochi istanti che precedevano lo schianto contro la scogliera. La rappresentazione dello scenario di contorno alla nave – le ondate che frangono contro la scogliera, gli alberi sulla costa sferzati dal vento, il lampo che ammanta di bagliore sinistro le vele lacerate della nave - servivano ad enfatizzare la potenza dei fenomeni naturali, che nel loro insieme, offrivano a chi rimirava la pittura, un’idea di maggiore potenza rispetto al naufragio della nave in mezzo al mare.
Non possiamo parlare della simbologia del naufragio senza nominare il naufrago e lo stato di smarrimento che genera nel sopravvissuto l’idea di avere perso parte di se stessi in fondo al mare. Anche oggi, nonostante assicurazioni, risarcimenti e indennizzi, lo stato di depauperamento che si avverte dopo essere scampati ad un naufragio è avvilente. Proprio per questo motivo i marinai portavano l’orecchino d’oro: in caso di naufragio tutti i loro averi li avrebbero sicuramente seguiti nella buona o cattiva sorte. E’ andata bene ai naufragi della Concordia che si sono subito trovati al sicuro, tranne pochi sfortunati, ovviamente.
L’ultimo elemento simbolico del naufragio, la zattera, ovvero l’estremo tentativo di ridare fisionomia al motivo della navigazione intrapresa, mediante mezzi di fortuna e senza la minima possibilità di controllo se non i capricci degli elementi. Ma proprio a causa dell’assoluta mancanza di possibilità fare rotta verso una destinazione voluta, il mito della zattera ha generato meravigliose idee letterarie dove il mistero, l’ignoto e l’indole dell’uomo si dimostrano capaci di creare mondi di assoluta perfezione o baratri di abbruttimento e abiezione come nel caso dei naufragi della fregata francese Meduse, che tanto colpì l’immaginario popolare dell’epoca, per dichiarati episodi di cannibalismo.

Per una lettura su pittura e naufragio  Esperanza Guillén (2004), Naufragi, immagini romantiche della disperazione, Bollati Boringhieri – ISBN 978-88-339-1999-7

mercoledì 11 gennaio 2012

La montagna che si ribellò alla globalizzazione

Nel 1996, nel mese di maggio, a pochi metri dalla vetta dell’Everest si consumò una delle più assurde e drammatiche tragedie dell’alpinismo moderno. Nove persone di differenti nazionalità lasciarono la vita sulla montagna più alta del mondo a seguito di un improvviso peggioramento delle condizioni metrologiche che colse di sorpresa gli alpinisti impreparati ad affrontare l’addiaccio a quelle altitudini.
Questa sciagura coincise anche con l’apice delle cosiddette spedizioni commerciali, comitive di alpinisti volenterosi e poco addestrati che per parecchie migliaia di dollari potevano coronare l’ambizione di ogni escursionista della domenica: scalare l’Everest e tornare in ufficio a raccontarlo ai colleghi.
In quegli anni fiorirono moltissime società specializzate in spedizioni in alta quota comandate da alpinisti di vasta esperienza e discreto buon senso, ma estremamente affaccendati ad accaparrarsi i clienti più in vista e prestigiosi che in cambio della loro ascesa in vetta non si sarebbero risparmiati in commenti entusiasti - magari in occasione di qualche talk-show televisivo - nei confronti della società artefice dell’impresa. Alimentando, però, un business che portò quel giorno del maggio del 1996 alla perdite di molte vite umane.
I fatti, le speculazioni sul prima e sul dopo, sono ben descritti dal famoso best seller di Jon Krakauer  “Aria Sottile” che fece da apripista ad altre pubblicazioni a cura di altri protagonisti di quegli eventi ognuno con un pezzo di storia in più da raccontare o qualche elemento a propria discolpa.
Ed è a questo libro che vi rimando se vi interessa approfondire i dettagli della storia e dei personaggi.
Lo spunto della mia riflessione va invece a toccare un altro aspetto che mi è parso di percepire da questa vicenda la quale, se proprio vogliamo a vedere i fatti da un punto di vista statistico non aggiunge granché alla contabilità di tributi di vite umane che la montagna richiama ogni anno visto che il rapporto di morti sacrificati per persone che hanno calpestato la vetta è di 1 a 4 e questo valore non cambia da decenni.
E’ piuttosto una riflessione di come la storia di questo microcosmo montano riprenda per moltissimi versi le dinamiche cha hanno attraversato il più grande cosmo dove ci troviamo a vivere e come la tragedia immane sia pronta a colpire chi non vede i pericoli che la natura sfruttata, svilita e banalizzata, possa, con l’istinto dell’animale braccato, sferrare la zampata letale.
Già l’origine del nome affibbiato alla  montagna mi sembra abbastanza sintomatica: Everest era il cognome di un cartografo inglese in forza al servizio di rilevamenti geodetici in India, attivo nella prima metà dell’800. Il nome vero della montagna è un altro, anzi tanti altri, a seconda che lo si guardi da sud o da nord. Infatti i Tibetani la chiamano Jomolungma (Dea del Mondo) mentre per i nepalesi che vivono sul versante sud della montagna è Sagarmata (Dea del Cielo). Nomi sicuramente più aulici di un oscuro funzionario inglese al servizio delle mire colonialistiche britanniche. Per tutti era comunque una montagna sacra e di conseguenza inviolabile. Gli sherpa, etnia oriunda proveniente dalle steppe del nord e fortificata dall’altitudine si sono però ben prestati a fornire la manovalanza al diletto degli occidentali. E la sacralità è stata dileggiata a suon di dollari. L’avvicendarsi di tentativi di scalate, alcune di successo, molte fallimentari, altre finite in tragedia ha contribuito a lasciare sulle pendici della montagna tonnellate di rifiuti praticamente impossibili da rimuovere: migliaia di bombole di ossigeno vuote, brandelli di tende sfilacciate dal vento, rifiuti di bivacchi e l’impatto che i campi base posti a più di 5.000 metri di altitudine e che arrivano ad ospitare anche qualche migliaio di persone tutte in una volta, ha sull’ecosistema della montagna.
Per continuare con le similitudini delle brutture che hanno caratterizzato la permanenza in alcuni luoghi degli uomini cosiddetti civilizzati e che hanno contribuito al loro decadimento riflettiamo sull’ultimo atto della tragedia: lo sfruttamento dell’immagine dell’Everest per irretire gli avventurosi della domenica in imprese oggettivamente difficili, ma trasformate in permanenze e attività diversive da resort esclusivo grazie a perfette operazioni di promozione e di marketing che hanno contribuito all’errata percezione che una guida ben pagata possa rendere immune anche gli inesperti dai pericoli.
Quindici anni fa la Montagna sacra si è ribellata e si è scossa di dosso un bel po’ di presenze a suo giudizio divenute troppo invadenti. Da allora le spedizioni commerciali si sono rarefatte e anche il riconoscimento dell’impresa tende ad essere più selettiva di prima attribuendo il primato solo a chi arriva in vetta senza l’ausilio della maschera di ossigeno. Le spedizioni con finalità commerciali sono riprese, ma stavolta non si prefiggono di portare decine di persona in vetta in una giornata, ma tonnellate di rifiuti a valle per ripulire la montagna sacra.
Nella breve parabola di un centinaio d’anni questa zona ha attraversato tutte le epoche che hanno contraddistinto la nostra storia degli ultimi tre secoli – il colonialismo, lo sfruttamento, la logica della produzione intensiva, la globalizzazione - e precorre le soluzioni che vanamente qualcuno raccomanda per evitare il disastro finale ovvero il ritorno a ritmi più naturali e una maggiore sintonia con i ritmi di crescita e rigenerazione dell’ambiente che ci circonda.
Jon Krakauer (1998), Aria Sottile, Casa Editrice Corbaccio - ISBN 88-7972-268-9

lunedì 2 gennaio 2012

Tutela del territorio: difendere le aree vulnerabili

Un consiglio che mi sento di dare a chi amministra le città è quello di dedicarsi con maggiore impegno alla sorveglianza e alla cura di quelle porzioni di territorio che attorniano l’area urbana del comune. Boschi, brughiere, rive dei fiumi, campagne sono porzioni di territorio facile preda di chi, in enorme spregio al rispetto della cosa comune, scarica tranquillamente rifiuti, a volte anche pericolosi, godendo di una relativa certezza di farla franca.
Le aree agricole, boschive e fluviali che costituiscono la prevalente quota di territorio dei comuni italiani sono zone vulnerabili che vanno tutelate con maggiore impegno. Non sempre le amministrazioni sono disposte ad attuare provvedimenti dissuasivi, forse perché preferiscono spendere in più ambiziosi programmi di fiere, feste, notti bianche e palchi danzanti più facili far pesare nel momento del tornaconto elettorale.
Dalla tipologia di rifiuti che capita sovente di vedere abbandonati lungo strade di campagna, brughiere, rive di fiumi è facile comprendere che si tratti di residui che piccoli imprenditori edili, artigiani, titolari di officine gettatano via per non dovere incorrere negli oneri amministrativi ed economici dello smaltimento fatto secondo le regole. E’ vero che si tratta molto spesso di materiali inerti come macerie di demolizioni, fili e cavi elettrici, gomme di automobili, ma capita anche di trovare lastre di eternit, latte di solventi e vernici o peggio. Senza considerare ovviamente l'obbrobrioso e avvilente spettacolo di discariche disseminate in luoghi votati e ben altre attività.
Eppure un’ efficace opera di prevenzione può essere fatta. Con strumenti relativamente semplici, ma soprattutto tramite una forte determinazione da parte delle amministrazioni a proteggere l’integrità del proprio territorio.
Innanzitutto precludendo la facoltà di accesso alle zone predilette degli sversatori abusivi come i viottoli di campagna, le strade che portano agli alvei dei fiumi e i sentieri che si perdono nella brughiera. Se per motivi di transito questo accorgimento non è attuabile, si possono posizionare delle telecamere in grado di riprendere ingressi ed uscite.
Un ulteriore provvedimento è quello di facilitare lo smaltimento di rifiuti industriali agendo il Comune in concorrenza con le società appaltatrici di servizio di raccolta di rifiuti, fornendo luoghi di raccolta a prezzi più bassi, magari in ragione che l’interessato ha la possibilità di conferire con mezzi propri i rifiuti risparmiando sui costi di ritiro.
In ultimo, attuare iniziative che portino i luoghi che diventano scariche abusive a essere meno isolati, trasformandoli in aree destinate alle escursioni e alla scoperta dell’ambiente circostante l’ambito cittadino. 
Lungo il Tanaro in prossimità di Asti. Rifugio di uccelli e pneumatici abbandonati
Rifiuti abbandonati lungo gli argini del Tanaro
La recinzione abbattuta della Oasi del WWF. A pochi metri rifiuti e spazzatura

La forza della reazione