Nel 1996, nel mese di maggio, a pochi metri dalla vetta dell’Everest si consumò una delle più assurde e drammatiche tragedie dell’alpinismo moderno. Nove persone di differenti nazionalità lasciarono la vita sulla montagna più alta del mondo a seguito di un improvviso peggioramento delle condizioni metrologiche che colse di sorpresa gli alpinisti impreparati ad affrontare l’addiaccio a quelle altitudini.
Questa sciagura coincise anche con l’apice delle cosiddette spedizioni commerciali, comitive di alpinisti volenterosi e poco addestrati che per parecchie migliaia di dollari potevano coronare l’ambizione di ogni escursionista della domenica: scalare l’Everest e tornare in ufficio a raccontarlo ai colleghi.
In quegli anni fiorirono moltissime società specializzate in spedizioni in alta quota comandate da alpinisti di vasta esperienza e discreto buon senso, ma estremamente affaccendati ad accaparrarsi i clienti più in vista e prestigiosi che in cambio della loro ascesa in vetta non si sarebbero risparmiati in commenti entusiasti - magari in occasione di qualche talk-show televisivo - nei confronti della società artefice dell’impresa. Alimentando, però, un business che portò quel giorno del maggio del 1996 alla perdite di molte vite umane.
I fatti, le speculazioni sul prima e sul dopo, sono ben descritti dal famoso best seller di Jon Krakauer “Aria Sottile” che fece da apripista ad altre pubblicazioni a cura di altri protagonisti di quegli eventi ognuno con un pezzo di storia in più da raccontare o qualche elemento a propria discolpa.
Ed è a questo libro che vi rimando se vi interessa approfondire i dettagli della storia e dei personaggi.
Lo spunto della mia riflessione va invece a toccare un altro aspetto che mi è parso di percepire da questa vicenda la quale, se proprio vogliamo a vedere i fatti da un punto di vista statistico non aggiunge granché alla contabilità di tributi di vite umane che la montagna richiama ogni anno visto che il rapporto di morti sacrificati per persone che hanno calpestato la vetta è di 1 a 4 e questo valore non cambia da decenni.
E’ piuttosto una riflessione di come la storia di questo microcosmo montano riprenda per moltissimi versi le dinamiche cha hanno attraversato il più grande cosmo dove ci troviamo a vivere e come la tragedia immane sia pronta a colpire chi non vede i pericoli che la natura sfruttata, svilita e banalizzata, possa, con l’istinto dell’animale braccato, sferrare la zampata letale.
Già l’origine del nome affibbiato alla montagna mi sembra abbastanza sintomatica: Everest era il cognome di un cartografo inglese in forza al servizio di rilevamenti geodetici in India, attivo nella prima metà dell’800. Il nome vero della montagna è un altro, anzi tanti altri, a seconda che lo si guardi da sud o da nord. Infatti i Tibetani la chiamano Jomolungma (Dea del Mondo) mentre per i nepalesi che vivono sul versante sud della montagna è Sagarmata (Dea del Cielo). Nomi sicuramente più aulici di un oscuro funzionario inglese al servizio delle mire colonialistiche britanniche. Per tutti era comunque una montagna sacra e di conseguenza inviolabile. Gli sherpa, etnia oriunda proveniente dalle steppe del nord e fortificata dall’altitudine si sono però ben prestati a fornire la manovalanza al diletto degli occidentali. E la sacralità è stata dileggiata a suon di dollari. L’avvicendarsi di tentativi di scalate, alcune di successo, molte fallimentari, altre finite in tragedia ha contribuito a lasciare sulle pendici della montagna tonnellate di rifiuti praticamente impossibili da rimuovere: migliaia di bombole di ossigeno vuote, brandelli di tende sfilacciate dal vento, rifiuti di bivacchi e l’impatto che i campi base posti a più di 5.000 metri di altitudine e che arrivano ad ospitare anche qualche migliaio di persone tutte in una volta, ha sull’ecosistema della montagna.
Per continuare con le similitudini delle brutture che hanno caratterizzato la permanenza in alcuni luoghi degli uomini cosiddetti civilizzati e che hanno contribuito al loro decadimento riflettiamo sull’ultimo atto della tragedia: lo sfruttamento dell’immagine dell’Everest per irretire gli avventurosi della domenica in imprese oggettivamente difficili, ma trasformate in permanenze e attività diversive da resort esclusivo grazie a perfette operazioni di promozione e di marketing che hanno contribuito all’errata percezione che una guida ben pagata possa rendere immune anche gli inesperti dai pericoli.
Quindici anni fa la Montagna sacra si è ribellata e si è scossa di dosso un bel po’ di presenze a suo giudizio divenute troppo invadenti. Da allora le spedizioni commerciali si sono rarefatte e anche il riconoscimento dell’impresa tende ad essere più selettiva di prima attribuendo il primato solo a chi arriva in vetta senza l’ausilio della maschera di ossigeno. Le spedizioni con finalità commerciali sono riprese, ma stavolta non si prefiggono di portare decine di persona in vetta in una giornata, ma tonnellate di rifiuti a valle per ripulire la montagna sacra.
Nella breve parabola di un centinaio d’anni questa zona ha attraversato tutte le epoche che hanno contraddistinto la nostra storia degli ultimi tre secoli – il colonialismo, lo sfruttamento, la logica della produzione intensiva, la globalizzazione - e precorre le soluzioni che vanamente qualcuno raccomanda per evitare il disastro finale ovvero il ritorno a ritmi più naturali e una maggiore sintonia con i ritmi di crescita e rigenerazione dell’ambiente che ci circonda.
Jon Krakauer (1998), Aria Sottile, Casa Editrice Corbaccio - ISBN 88-7972-268-9
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