lunedì 26 ottobre 2015

I vestiti nuovi dell'installatore


"Il re è nudo" è l'urlo rivelatore della realtà nascosta che solo l'occhio disincantato e scevro da pregiudizio può scorgere laddove perbenismo, sudditanza e conformismo non riescono ad arrivare. Il ragazzino che denuncia le vergogne esposte del sovrano dovrebbe assomigliarci perché è libero disincantato e temerario. Proprio come oggi siamo abituati a vederci, o meglio, come oggi ci dicono che dovremmo essere. Le addette della pulizia del museo di Bolzano che buttano le bottiglie vuote e l’altra immondizia di contorno di una installazione artistica sono semplicemente ignoranti o gridano consapevolmente che il re è nudo e dunque quella che vedono è solo spazzatura e come tale va gettata? Il re della favola viene salvato dalle vischiose lusinghe dei due truffatori proprio da un esponente del popolo, il ragazzino ignorante, ma pervaso da senso pratico, irriverenza e assenza di timore di fare vergognare il proprio sovrano. Le inservienti del museo dei giorni nostri, immagino esponenti del popolo pure esse, non sono più la garanzia di tutela nei confronti dell’irrazionale, il vero nemico per chi si deve confrontare quotidianamente con la bestia della fame, ma vittime consapevoli della propria ignoranza e insensibilità verso forme alternative di espressione artistica. E per il senso comune imperante questo non è tollerabile. L’episodio di Bolzano mette in luce, con un’evidenza narrativa esattamente contraria alla fiaba dei vestiti dell’imperatore che tutto è concesso, o per contro, censurato, nel nome di una supposta o invocata creatività a tutti i costi. Io sto con le inservienti. Vedo in loro lo stesso slancio di denuncia del ragazzetto della favola. E chi le taccia di ignoranza sono quelli che lusingavano il re per paura di perderne i favori. E le due artiste se proprio ci tenevano alla loro opera potevo scrivercelo sopra che quella era arte. In fondo Piero Manzoni ce lo scriveva sulle sue scatolette merda d’artista. 

giovedì 15 ottobre 2015

Fuori dal mondo

Può esistere un fondamento etico nella scelta di un uomo che ha deciso di scrollarsi di dosso gravose responsabilità e di vivere fuori dal mondo? Difficile rispondere, anzi sarebbe meglio dire, inutile. Dato che si tratta di una scelta compiuta da un uomo, deliberatamente nel pieno delle proprie facoltà a nessuno è dato giudicare l'operato altrui allorché non leda interessi di altri. Ma c'è una perfezione mistica nello stile di vita del papa rassegnato Benedetto XVI. Innanzitutto spirituale: egli è un prete per sempre votato a Dio nella sua interezza fisica mentale. Non deve confrontarsi con i peccati del mondo, con le paludi della fede che si scontra con la mondanità, ma solo con la costante intimità di un pensiero di fede e dolcezza verso l'essenza del Creatore al quale può solo tributare riconoscenza e ammirazione. Mai è stato così prima per lui e mai lo sarà per chi ha fatto la sua scelta, ma la croce la deve portare davvero attraverso un mondo meno agiato e più disperato E' anche una perfezione di vita che sublima le bruttezze che accadono nella sua immediata prossimità fisica: aldilà delle Mura Vaticane, al di fuori del giardino della passeggiata quotidiana e forse, anche nella camera di fianco alla sua, quella di colui che veglia sulle sue necessità, Niente può turbare la sua santa serenità. E' una perfezione di vita che consola chi non gode di questo status eccezionale, cioè noi tutti. Sapere che in un piccolo salotto modestamente arredato in un angolo nascosto di una una piccola residenza protetta dal verde un piccolo uomo vestito di bianco suona al piano l'amatissimo Bach mentre con gli occhi socchiusi si volta a guardare il mondo fuori dalla finestra intorno a lui, aiuta. Anche perché da quella finestra non entra nulla, ma ne esce solo la luce della perfezione.   

Expo fino in fondo

Cibo, cibo sano, alimentazione e diritto universale a mangiare in modo equilibrato. Dunque prevalenza delle biodiversità, diminuzione delle coltivazioni intensive a favore del frazionamento delle culture, accorciamento della filiera. Se ne è parlato all'Expo per settimane intere. Schiere di esperti si sono avvicendati nel corso di convegni, mostre, incontri, tavole rotonde per trovarsi, alla fine, concordi su un unico punto: le risorse per sfamare tutti ci sono, ma bisogna tenersele buone, facendo per prima cosa, un’efficace lotta allo spreco di cibo. Su questo filone si sono innescate molte campagne per sensibilizzare il pubblico su come limitare la quota di alimenti destinati ad essere dispersi: maggiore efficienza da parte delle grandi catene di distribuzione in fase di approvvigionamento, maggiore controllo sull'effettivo numero di pasti prodotti dai grandi operatori della ristorazione collettiva, prevenzione delle speculazioni da parte delle autorità. Anche la possibilità di portarsi a casa il cibo del ristorante, che prima veniva pudicamente spacciato come avanzo per il cane, è una forma diretta di contrasto allo spreco.
Expo avrebbe la possibilità di affermare con maggiore autorevolezza e coerenza quello che ha proposto come tema della rassegna proponendo una giornata in cui a tutti i visitatori viene offerto, per esempio, il cibo avanzato dal giorno prima, oppure attivare iniziative congiunte con supermercati che mettano a disposizione i propri scarti ancora commestibili, ma non adatti alla vendita sugli scaffali. Ancora:sfamare gratuitamente i visitatori con i surplus di produzioni agricole, risorse alimentari risultanti da processi industriali che, benché integri sotto il profilo della freschezza e della commestibilità, non possono essere confezionanti.
Sarebbe anche abbastanza facile farlo oggi, ma perché non è stata pensata un’iniziativa del genere?

Forse perché Expo non produce cibo in eccesso?. Oppure non vuole perdere introiti per decine di migliaia di euro attraverso le catene di società di ristorazione presenti alla manifestazione? O forse, più probabilmente Expo ha perso una buona occasione per essere fedele a se stesso? O a quello che vorrebbe essere. 

giovedì 17 settembre 2015

Le Vie d'Italia che non portano da nessuna parte

Le Vie d'Italia  è stata la prestigiosa rivista mensile edita dal Touring Club Italiano dal 1916 al 1968. Un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di viaggi, escursioni, vacanze (un' élite sicuramente in quel periodo) e non solo: arte, storia, architettura, musica, cinema e tecnologia arricchivano le pagine della rivista con interventi autorevoli di qualificati uomini di arte, lettere, scienza e cultura. 
Emblematicamente, nel 1968, la pubblicazione del "Touring" cambiò nome trasformandosi in una pubblicazione più a passo con i tempi, più in sintonia con un pubblico di utenti accresciuto in numero e interessato alla dimensione ludico ricreativa della vacanza di massa che rimane, per molti versi, simile ad oggi. 
La lettura dei testi della rivista relativi agli anni più intensi del boom economico, grosso modo dal 1956 al 1963, è interessante, ma soprattutto sorprendente. Sorprende, per esempio, che uno dei movimenti d'opinione mosso dall' Associazione riguardasse l'eccessivo squilibrio di risorse destinate allo sviluppo del traffico automobilistico, soprattutto se confrontato con lo stato di agonia mortifera in cui erano sprofondate le ferrovie nazionali che, dal secondo dopo guerra in avanti, non avevano potuto attingere adeguate risorse per dare avvio ad un serio programma di ricostruzione e ammodernamento. Altri temi correlati fatti emergere e criticati con una certa asprezza: la falcidia delle ferrovie locali, che soccombevano di fronte ai numeri deficitari di gestioni svogliate e alla tracotanza dei nuovi autobus di linea, lo stato di carente manutenzione delle strade, la necessità di imporre limiti di velocità su strade e sulle nascenti autostrade (allora non c'era nessun limite alla che reprimesse l'astro nascente del benessere italiano), l'eccessivo, disordinato e scanzonato proliferare di pubblicità e cartellonistica stradale.
La mala bestia è da ricercare nel modernismo che sopraffà incontrastato tutto quello che è bello, artistico e naturale. Il nemico da combattere è il conformismo della nascente classe dirigente del Paese che di prostra davanti a cliché mal interpretati e frettolosamente importati da modelli di civiltà più emancipati. Un esempio su tutti: già nel 1956 venivano messi in luce i limiti strutturali delle città italiane a sostenere l'invasione del traffico a quattroruote ponendo come rimedio, guarda guarda, politiche di incentivazione della bicicletta. Ci sono molti servizi con gli inevitabili e sempre-verdi confronti di percorrenza nel traffico cittadino (del 1956, praticamente inesistente rispetto ad oggi) inesorabilmente vinti dal mezzo a pedali. 
A chi segua un minimo di dibattito sul rischio di collasso di città come Roma e Napoli non suonerebbero inediti i tamburi contro la devastazione paesaggistica e morale di piazze storiche congestionate da automobili parcheggiate selvaggiamente? E i richiami lanciati dalla rivista contro la barbarie della presenza dei simboli dello sviluppo come distributori di benzina, autorimesse, fabbriche e edifici anonimi impiantati senza nessun rispetto della storia, del paesaggio, dell'arte del buon gusto? Segnali di una coscienza civile e critica che rincuora sapere essere presenti già allora su una delle pubblicazioni più autorevoli, colte ed aggiornate dell'epoca. 
Tuttavia, come sempre destinate, oggi come allora, a non essere prese in considerazione. 

giovedì 16 luglio 2015

I politici e i sogni

Alcuni politici sono diventati grandi con i sogni. Il sogno del popolo di una nazione che voleva restare unita, degli abitanti di una città che non voleva dividersi, il sogno di tutti coloro che non riescono a vedere un confine o un muro davanti al colore della propria pelle o di quella altrui. 
Un bambino che sogna è un libro aperto per chi si propone di guidare una nazione. E se quel bambino i suoi sogni ce li racconta allora non bisogna fare altro che chiudere gli occhi e immaginare come dovrebbe essere il mondo che si aspettano. Quella è la meta alla quale mirare. Realizzarla, anche in piccola parte, vuol dire farsi benvolere e ricordare da generazioni di uomini e donne.
La signora Merkel non è stata in grado di vedere un mondo migliore dietro il sorriso e gli occhi intelligenti di una bambina palestinese che aspirava ad una vita migliore per sé e per la sua famiglia di profughi. La signora Merkel, diligente amministratrice dei diritti patrimoniali della sua nazione, dura e abile negoziatrice, ha commesso il più grave degli errori per un politico e il più grave peccato per un essere umano: scandalizzare un bambino. La sua rigida illustrazione di quelli che sono i doveri e le preclusioni per un profugo che sogna una vita migliore si è interrotta solo quando la piccola è scoppiata a piangere per la delusione. Goffamente le si è avvicinata, ma la ragazzina era inconsolabile. Coraggio piccola, i tuoi occhi meritano di vedere cose più belle della Merkel e la tua intelligenza sarà meglio spenderla per capire cose più importanti delle politiche di accoglienza della Germania.
E una cosa l'hai già capita: chi non legge nei tuoi sogni oggi non merita la tua fiducia domani. 

  

giovedì 9 aprile 2015

Ministro venga a Vercelli

Il neo ministro ai lavori pubblici Delrio ha detto che lui non sarà quello delle grandi opere, ma dei lavori utili. Va bene, ci crediamo anche se risulta un po' azzardato dare per sincere le parole di un membro di un governo che aspetta di celebrare il proprio trionfo inaugurando la più inutile e costosa delle grandi opere: l'Expo. Comunque se proprio vuole passare all'azione consiglierei al ministro di prendere spunto dall'esemplare lezione della provincia di Vercelli che ha appena inaugurato il ponte sul Sesia dopo un lavoro di messa in sicurezza del vecchio manufatto risalente a due secoli fa rifacendolo più sicuro, più moderno, più lungo ma esattamente uguale a come era prima. La vicenda del ponte di Vercelli è una buona pratica anche alla luce di quanto successo in un'altra città piemontese, Alessandria, dove la febbriciattola delle grandi opere aveva intaccato la giunta comunale che aveva allegramente deciso di demolire il vecchio ponte ottocentesco, acciaccato certo, ma ancora valido, per costruirne uno modernissimo, lucentissimo, sicurissimo e soprattutto costosissimo. Anche Sgarbi gridò, più che allo scandalo, alla stupidità della classe politica locale profetizzando che dopo quel ponte, nessun altro ponte avrebbe cavalcato le acque del Tanaro, semplicemente perché non ci sarebbero stati fondi sufficienti. Infatti. Nello stesso periodo la provincia di Vercelli affrontava il problema del ponte in un altro modo: valorizzando quello che già esisteva. Sono state costruite due nuove campate per allungare il ponte e rendere più sicuro il flusso delle acque durante le piene; le campate sono in cemento armato, ma riprendono la forma di quelle antiche e sono state ricoperte di mattoni fatti a mano per rendere l'insieme armonico e coerente con il precedente manufatto; i marciapiedi sono della stessa pietra di Baveno usata due secoli prima e le spalliere, le balaustre e tutti gli elementi architettonici sono stati ripresi e riprodotti sotto la vigilanza della dei Beni Culturali. I lavori sono durati quattro anni, tanti certamente, ma oggi Vercelli ha un ponte nuovo con costi inferiori a quelli dell'abbattimento e della costruzione di uno nuovo. Chi passa sul ponte oggi può assaporare un caso di buona gestione dei soldi pubblici e di rispetto per quello che già esiste. Ministro passi anche lei sul ponte di Vercelli. 

giovedì 19 marzo 2015

Perchè Expo deve essere un insuccesso


Expo deve essere un insuccesso. Lo sarà quasi sicuramente, ma è importante che ognuno di noi si impegni affinché di questo trionfo di regime rimanga solo il ricordo di un'enorme pagliacciata. Nessun compri biglietti, nessuno lo visiti, nessuno ne parli. Questo è giusto e doveroso da parte di cittadini che hanno idee diverse su come vadano spesi i soldi pubblici, che concepiscono la cultura in  un modo diverso e che sono liberi di pensare fuori dagli schemi prefissati dalla propaganda. Expo deve essere un fallimento perché tanto a nessuno interesserà più sapere se la gente è venuta, ha visto, ha imparato e si ricorderà dell'Italia. Deve essere un fallimento perché chi deve controllare non controlla più niente visto che quello che c'era da prendere è stato preso e che quello che restava da prendere è stato messo sotto chiave all'ultimo momento, Expo deve essere ricordato come una misera messinscena perché Milano non è una città internazionale, ma un buco di periferia mondiale dove nessuno conosce l'inglese e dove a nessuno interessa conoscere l'inglese; dove a nessuno frega niente dell'alimentazione sana e il concetto di universo da sfamare si ferma al mondo delle quattro mura familiari. Soprattutto Expo non è l'immagine di un'Italia dove milioni di persone lottano per sopravvivere, combattono gli sprechi e rifuggono alla sciatteria; non è l'immagine di quel manifesto sgrammaticato opera di qualcuno che resterà, al solito, impunito. Expo deve essere boicottato, ma non illudiamoci di passare essere ricordati per la nobiltà dei nostri propositi o dei nostri ideali. Che vada bene o che vada male, di Expo a nessuno interessa più nulla.  

martedì 17 marzo 2015

Servitori dello Stato

Qual'è la spinta che porta un carabiniere in pensione a mettere in gioco la propria vita per fermare una rapina accaduta a danni di altri sotto i suoi occhi? L'istinto ad essere sempre dalla parte della legge, In altre parole, essere carabiniere sempre anche dopo che la divisa rimane solo una parte dei ricordi di una vita di lavoro (e di sacrifici). Come nel caso del carabiniere di Alessandria da poco ritiratosi, morto d'infarto mentre cercava di impedire con mezzi improvvisati la fuga di due balordi. Ma chi sa spiegare che cosa spinge un boiardo di Stato a occupare uno scranno di potere per coordinare appalti e affari fino alla veneranda età di settant'anni, insomma fino a quell'età dove i lavori pubblici dovrebbero essere perlopiù dei riempitivi per passare la giornata? Non ci sono molte spiegazioni se non le più ovvie e scontate: servire lo Stato per senso del dovere è una virtù e gli uomini virtuosi, si sa, sono pochi. Servirsi dello Stato per arricchirsi è una turpe pratica che accomuna persone con molti vizi. Tutte permangono salde nelle proprie posizioni per amor proprio e del proprio benessere,sacrificando riposo, nipoti e passeggiare ai giardinetti. E poi: perché il fedele servitore dello Stato non indugia a mettersi in gioco mentre un ministro compromesso non si decide a lasciare? Chi è il più coraggioso e il più attaccato al dovere? E per finire: che tipo di persone ha bisogno l'Italia per essere un Paese migliore: quelli come il carabiniere di Alessandria o quelli come il ministro Lupi? In verità nessuno dei due dato che presto entrambi saranno dimenticati. 

venerdì 27 febbraio 2015

Olangans

Se si volesse a tutti i costi tirare una conclusione a corollario dei fatti di Roma, gli hooligans olandesi che hanno vandalizzato la città, quella che meglio calza è che nessuno paese e abbastanza civile ed evoluto da stroncare le intemperanze di un gruppuscolo di imbecilli, invasati ed irresponsabili. L’altra conclusione, meno scontata, è che il calcio ha una sua retorica che è uguale ovunque: violenza, dissennatezza, oltranzismo e odio. E così è in tutte quelle manifestazioni dove ci sia una bandiera intorno alla quale raccogliersi per sentirsi più forti, per nascondere le insicurezze e la propria vigliaccheria.  

sabato 21 febbraio 2015

Chi divide e chi unisce

Il mondo contemporaneo è orfano di figure che sanno unire. Lincoln, Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela hanno vissuto affinché il mondo fosse più unito, più uguale. Non ci sono pienamente riusciti, ma hanno pensato in questi termini. E il loro pensiero è quanto oggi li fa ricordare e rimpiangere. Molti di costoro non disponevano neppure di potere. Solo con il carisma e la perseveranza hanno riunito milioni di persone in un ideale di lotta che ha portato la parola uguaglianza e libertà su un gradino un po’ più alto che in precedenza.
 Il nostro tempo è il tempo delle persone che agiscono per dividere. Creano fratture e divisioni e dove non ci sono tensioni scavano una piccola buca che qualcuno poi riempirà di esplosivo per aprire il divario.
Queste persone molto spesso agiscono in ragione di un mandato, ovvero hanno il potere, ma la loro forza e la loro autorità viene spesa per creare odio, frustrazione, rabbia e paura. Poi queste persone condannano il terrorismo e chi ammazza in nome di una religione o, peggio ancora, di un Dio. Ma non sono sincere perché le condizioni affinché l’odio esplodesse sono state create anche da loro.
Nessuno può dire con sicurezza che sia più conveniente avere persone che usano la propria forza e la propria intelligenza per unire o per dividere. Sognatori, idealisti, eroi e grandi uomini di stato si trovano da entrambe le parti. Ognuno con un inevitabile fardello di meriti e colpe. E quasi tutti con una fine tragica. Ma un mondo che segue una persona con una grande idea di giustizia e di democrazia è senza dubbio un mondo che in cui vale la pena vivere.
Nessuna figura che sappia unire perché non c’è più niente da unire, potrebbe obiettare qualcuno. E qui sta il punto: un ideale non si inventa dal mattino alla sera. L’ideale universale di non violenza, di uguaglianza di pari dignità e di pari diritti erano solo un sogno, ma qualcuno ha saputo tramutarli in un movimento fatto da milioni di persone che correvano da una parte all'altra di Paesi sconfinati.

Quello che manca oggi non sono le persone che sappiano unire, ma le idee per le quali grandi figure di uomini decidano di muoversi e sacrificarsi.

lunedì 9 febbraio 2015

Perdono tardivo

Salvini chiede perdono al Sud. Fa ammenda dei suoi strali contro la razza meridionale parassita, lassista e incapace. Riconosce che troppe parole (parolacce) in libertà possono aver causato qualche problema di popolarità presso le latitudini più estreme della Penisola. Peccato che il suo senso di colpa sia esploso proprio in Sicilia dove la parole valgono molto e se vengono dette, quando vengono dette, hanno un'efficacia micidiale. I siciliani le parole le sanno usare molto bene non tanto perché abbiamo maggiori capacità di comprenderne il significato, ma perché ne soppesano saggiamente il valore. Come i soldi: una volta spesi non tornano più. Per questo, spesso le parole sono superflue. Basta un'occhiata per intendersi. Salvini ha già parlato troppo. 

Da che parte sta Dio?

Se la religione è vita, dio sempre più vuol dire morte.
Sia che si tratti di riti sacrificali, sante crociate, eccidi di piazza in nome della Reazione, conflitti nel nome di Dio, Patria e Famiglia, tiranni sterminatori idolatrati o guerre jihadiste nessuno di questi orrori è stato orfano del proprio dio. Dio che non ha mai trovato un fiero nemico. Il dio che uccide sta sempre da una parte. Non ha importanza se giusta o sbagliata; nessun fiero antagonista si mette contro di lui. Perché o si è con lui o si è traditori. Il risultato sono i milioni di morti la cui conta non è ancora finita.
E' facile trovare nel proprio dio la ragione per andare ad uccidere, farsi uccidere o morire insieme agli infedeli. La monoliticità del proprio credo è la certezza che può dare la forza per compiere gesti scellerati dal farsi saltare con una cintura di tritolo a minacciare lo sterminio di un popolo.
Dio è certezza, un valore assoluto, non come la religione che e cosa di uomini e come tale può cambiare come è giusto che cambi il mondo. Ben vengano allora lo studio delle religioni, l'ecumenismo, il favorire la nascita di luoghi di culto in altri Paesi per uno scambio di saluti e di benedizioni in tutte le lingue del mondo. Perché dio è uno solo e non può fare la guerra contro se stesso.  


La forza della reazione