martedì 24 agosto 2010

Compro oro (e anche la dignità)


Una delle manifestazioni più palesi del periodo di crisi che prende per il collo le famiglie italiane è il proliferare di piccoli negozietti che ritirano oro e lo pagano in contanti. Subito, sull’unghia, come diceva chi era abituato a fare affari sulle piazze dei paesi.
Dietro a queste attività, molte volte anelli di catene di franchising specializzate, si cela il calcolo bieco e spietato di chi ha concepito un business prendendo come riferimento le esternazioni affettuose di nonni, zii, fidanzati, coniugi in occasione dei riti iniziatici della nostra vita: battesimi, comunioni, cresime, fidanzamenti, anniversari che immancabilmente, in tempi di buona, portavano nei cassetti segreti delle famiglie catenine, medagliette, anelli, ciondoli, orecchini e qualche volta qualche sterlina con l’effige della nobile Elisabetta.
“Se si fa il calcolo della quantità di oro che una famiglia media italiana con due figli ha accumulato” avrà escogitato il perfido “responsabile del business” della catena di negozi che oggi, come le imprese di pompe funebri, si insediano negli spazi commerciali più depressi delle città, “possiamo supporre che sia possibile liquidare un certo gruzzoletto di contanti” che fa sicuramente comodo coi tempi che corrono per pagare rate e bollette, se va bene, oppure da trasformare in un televisore ultra piatto in offerta al centro commerciale, nei casi più disperati.
E liquido torna anche l’oro pagato secondo le quotazioni ufficiali, ma esercitando di fatto un’attività da cacciatore di frodo nelle desolate periferie industriali delle città dove la crisi non ha più aggettivi per essere definita. Il metallo raccolto viene infatti fuso nel crogiuolo, trasformato in lingotti e venduto con altissimi margini a grandi imprese che a loro volta rivenderanno agli operatori del settore orafo. Altissimi margini, certo, perché avere quell’oro non costa nulla: non ci sono i costi e i rischi della miniera, i costi del trasporto, della pulitura, niente: tutto oro di primissima qualità che arriva sul bancone del gioielliere condor senza nessun dispendio di risorse.
Un grande business. Una grande tristezza!
Le medagliette del battesimo con inciso il nome e la data di nascita dei piccoli, magari ancora inconsapevoli di essere defraudati di una parte del loro incipiente patrimonio, diventano mezzo di sussistenza per i genitori. Stessa miserevole fine per le catenine delle comunioni, gli anelli di fidanzamento e anche le fedi nuziali, questa volta non per il bene della Patria, ma per riempire le tasche già gonfie di speculatori senza scrupoli.
Queste attività solo lecite, certamente e sono anche ben organizzate secondo modelli aziendali che riprendono la diffusione delle reti in franchising di agenzie immobiliari degli anni ’90 con responsabili in cravattone, capelli unti, BMW e favella veloce in grado di sciorinare il senso dell’attività imprenditoriali con frasi del tipo “le famiglie italiane hanno un tesoro e non lo sanno” oppure “perché tenere immobilizzato un patrimonio, quando con i liquidi si possono fare molte altre cose?”.
Ribadisco il punto: queste attività sono lecite, ma sono moralmente inaccettabili. Sono indegne perché non rispettano la dignità di chi si trova costretto ad andare in questi posti. Sono miserevoli e abbiette perché mascherano un fabbisogno impellente di denaro in una conveniente opportunità di investimento.
Sarebbe stato meglio riqualificare e attualizzare l’attività del Monte di Pietà che dava comunque la possibilità di riavere l’oggetto dato in pegno.
Oltre che il diritto alla speranza di tempi migliori.

lunedì 23 agosto 2010

L'uomo che vive senza denaro (da "La Stampa del 21 Agosto 2010)




Vi segnalo questo articolo che ho trovato sulla Stampa. La vita di questa persona è un monito a chi non condivide lo spirito che anima questo blog. Non penso che sia vero in senso assoluto, ma sicuramente il ragazzo ha le idee chiare e ce la sta mettendo tutta!

BRISTOL - Mark Boyle, 31 anni, ha smesso di usare i soldi nel novembre 2008. Vive in un caravan parcheggiato in una fattoria alle porte di Bristol, dove fa volontariato tre volte alla settimana. La “casa” gli è stata fornita da Freecycle, un gruppo di “mutuo soccorso” fondato in Inghilterra da persone che si scambiano oggetti gratuitamente. Si nutre delle piante che coltiva, e produce elettricità con un pannello solare. Ha un telefono cellulare che utilizza solo per ricevere chiamate, e un notebook che si alimenta a energia solare.

Boyle, che è vegetariano da sei anni, nel 2007 ha fondato la Freeconomy, una comunità online che promuove la condivisione di abilità e proprietà, e che a oggi conta 17.000 iscritti. Ha anche pubblicato un libro, “The Moneyless Man: A Year of Freeconomic Living”.

«E’ iniziato tutto in un pub», ha dichiarato l'uomo in un'intervista rilasciata al Telegraph: «Ero con un amico e stavamo parlando dei vari problemi del mondo, come lo sfruttamento del lavoro, la distruzione ambientale, i test sugli animali, le guerre, l’impoverimento delle risorse energetiche. Ho capito che tutte queste piaghe erano in qualche modo connesse con il denaro. Così ho deciso di inizare a farne a meno. Ho venduto la mia casa a Bristol e ho lasciato il mio lavoro in un’azienda che produce cibo biologico. Poi - prosegue - ho steso una lista di tutte le cose che generalmente acquistavo e mi sono sforzato di trovare una via alternativa per procurarmi ciò di cui avevo bisogno. Al posto del dentifricio ad esempio uso un misto di ossi di seppia e semi di finocchio. Altre cose, come l’iPod, sono state semplicemente depennate: gli uccelli che vivono sugli alberi vicino al mio caravan sono diventati il mio nuovo iPod».

Naturalmente questo nuovo stile di vita richiede più tempo e maggiore sforzo per fare qualunque cosa: «Per lavare i miei vestiti a mano nell’acqua fredda, usando il detersivo che ricavo bollendo sulla stufa la frutta secca, arrivo a impiegare anche due ore, mentre con una normale lavatrice il bucato è fatto in non più di mezz’ora».


martedì 17 agosto 2010

La bicicletta e le incongruenze delle Amministrazioni.


Sappiamo che molte amministrazioni territorialmente competenti vanno proclamando da tempo le proprie intenzioni di fare della bicicletta il più diffuso mezzo di trasporto incentivandone l’utilizzo attraverso la creazione di reti di piste ciclabili e l’estensione di quelle esistenti.
E’ ormai appurato, infatti che l’unico modo per combattere la ritrosia di chi non ha ancora accettato di rinunciare all’auto è quello di suggestionarlo con l’idea che la bicicletta permette di raggiungere luoghi altrimenti preclusi ad altri mezzi come centri storici, località turistiche e attrazioni paesaggistiche.
Per raggiungere questo risultato è necessario implementare un sistema di viabilità pensato per la bicicletta, dove il mezzo a due ruote ha un ruolo preminente rispetto all’automobile e non marginale o alternativo ad essa.
Alcune amministrazioni, per esempio la provincia di Trento, stanno dando un forte impulso a queste politiche e si cominciano a vedere i primi sistemi di viabilità che mirano a ghettizzare l’automobile, rosicchiando consistenti fette dello spazio viario fino a prima "risorsa" di esclusiva pertinenza della quattro ruote.
Non sembrerebbe però che lo stesso accada in Liguria per la precisione nella Liguria di Levante in quel tratto di costa che va da Riva Trigoso a Moneglia dove le due belle cittadine sono collegate attraverso le gallerie un tempo facenti parte del dismesso tracciato ferroviario e traslocato da alcuni decenni più all’interno per renderlo più spedito e meno soggetto all’azione devastante del mare.
Una comodissima alternativa alla statale, l’Aurelia,che si inerpica nell’entroterra con una serie di tornanti prima di riprendere la via della costa con un’altra serie di curve e controcurve. Un diversivo anche all’autostrada che obbliga ad un giro ancora più ridondante o al treno, direttissimo, ma soggetto agli orari e poco pratico per la famiglia in vacanza. Tenuto conto che, a causa delle ridotte dimensioni in larghezza dei tunnel (d’altra parte ci doveva passare un solo convoglio alla volta), il flusso dei veicoli è regolato da un semaforo che obbliga ad attese relativamente lunghe, il traffico di veicoli è sempre sostenuto ed inteso, soprattutto durante il periodo estivo.
Tutto normale si direbbe, ma ecco che salta l’incongruenza: il traffico è vietato alle biciclette. Strano, ma verissimo. Possono passare tutti, ma le biciclette, le uniche che avrebbero diritto (o perlomeno più diritto)ad utilizzare il percorso, ne sono escluse. L’unico modo per andare a Moneglia in bici è quello di farsi l’Aurelia, una pedalata niente male per chi ha gambe e passione, ma sicuramente scoraggiante per chi non è così attratto dalla bici il quale ovviamente non si fa nessuno scrupolo nel prendere l’automobile. Una bella incongruenza, quasi un paradosso storico: quando in molti i Paesi si recuperano i vecchi tracciati ferroviari per renderli transitabili alle biciclette, magari anche in considerazione dell’elevata qualità paesaggistica del territorio attraversato, in Italia questo viene fatto per la auto.
Motivazioni? Provo a farmi un po’ di ragioni a questa assurdità: forse le amministrazioni preposte avranno pensato che i ciclisti una volta arrivati a Moneglia non possono più andare avanti. O forse perché le gallerie non sono illuminate, forse perché fa freddo e i ciclisti sono sempre così poco vestiti? Altro non saprei. Avrei però un’idea: se proprio non si può precludere alle auto di usare il tunnel e si deve continuare a tenere il divieto per le biciclette perché non organizzare un servizio di trasporto per ciclisti con bici al seguito usando autobus, anche non ultimo modello, appositamente attrezzati? In questo caso (incredibile dictu) sarei anche disposto a pagare!

giovedì 12 agosto 2010

Patagonia in bicicletta seguendo le opere di regime


Un nuovo passaggio verso terre lontane, sempre viaggiando in prima "pagina". Questa volta andiamo in Patagonia. In bicicletta!

E' possibile scrivere un diario di viaggio tenendo ben distinte le due anime fondamentali che lo compongono ovvero ciò che si vede e ciò che si sente? Sembrerebbe che Max Mauro, giornalista e blogger friulano, ci sia riuscito in modo abbastanza efficace raccontandoci la sua lunga discesa in bicicletta attraverso il Cile percorrendo il Camino Austral, un'opera ciclopica, costosa e utile solo a poche decine di migliaia di abitanti perché il regime dei militari di Pinochet non aveva bisogno di opere per celebrare i propri fasti. Facevano quello che pensavano che servisse e basta. Quanto osservato e riportato da questo ciclista un po' improvvisato e per nulla calato nella parte del fanatico macinatore di chilometri, è interessante, anche se per chi ha un minimo di esperienza letteraria di quelle latitudini nulla appare veramente nuovo e sconvolgente. Cita anche Padre De Agostini che definisce un "frate" salesiano. Le sue osservazioni sono argute e intelligenti e spesso lasciano il segno come le riflessioni fatte nella piccola capanna rifugio, precario, ma ospitale ostello per una delle ultime notti prima dell'apparire dello Stretto di Magellano. I resoconti dell'umore e dell'indole dei suoi ospiti sudamericani il loro disincantato interesse per le faccende altrui e la scontata visione di un mondo che per noi e rimane straordinario sono veramente degni di nota. Max Mauro sa intrattenere il lettore con sferzanti commenti sui vari personaggi con i quali si è casualmente incontrato come i tecnologici ciclisti nordeuropei o con i quali ha dovuto, suo malgrado, battersi per ottenere ovvietà burocratiche tipo i doganieri argentini per entrare in Terra del Fuoco. In definitiva: un buon esempio su come cimentarsi nel raccontare le proprie avventure senza tediare malcapitati lettori. Io non mi sono annoiato, anzi ritengo che Max Mauro mi risulti molto simpatico e penso che potremmo scambiarci molte idee (tramite il suo blog maxmauro.wordpress.com che ho messo tra i preferiti).

Max MAURO (2006), Patagonia controvento. Viaggio a pedali lungo il Camino Austral e la Terra del Fuoco, Ediciclo ISBN: 978-88-88829-24-5

martedì 10 agosto 2010

Tempo di partenze intelligenti. Ma l'intelligenza è altrove.


Arriva. l’estate, arriva il tempo delle vacanze e arrivano puntuali le raccomandazioni e gli ammonimenti dei famigerati “bollini neri” funesti indicatori di disgrazie autostradali quali le interminabili code ai caselli e gli inestricabili intasamenti agli svincoli, gli agognati portali oltrepassati i quali ci sentiamo veramente in vacanza.
Le cosiddette partenze intelligenti, il vero, purtroppo immutabile, tormentone di ogni estate sono, senza tanto spreco di ingegno e di arrovellamenti cerebrali, i consigli forniti dalla Società Autostrade che ci aiutano a pianificare la data e l’orario del nostro esodo vacanziero per evitare quei periodi particolari in cui si presume che si concentri la fiumana di auto dirette verso i luoghi della villeggiatura.
Perché tanta apprensione nei nostri confronti? Ovviamente il flusso ininterrotto di famiglie che si trasferiscono in vacanze a bordo della proprio auto (mezzo ormai irrinunciabile per il trasporto di quintali di bagagli e delle inutili attrezzature sportive che non utilizzeremo mai) fa gola ai bilanci delle società che gestiscono le autostrade. Per nessun motivo queste rinuncerebbero ai proventi della spensierata schiera di gitanti al punto da bombardarci con una serie di volantini, comunicati, trasmissioni per invitarci a scegliere la nostra personale partenza, senza però essere così cortesi da darci l’unico consiglio intelligente, cioè quello di partire e NON prendere l’autostrada.
Se tutte le estati milioni di automobilisti iniziano a ribollire lungo l’asfalto traslucido e drenante delle autostrade, ci sono migliaia di chilometri di strade normali, magari con l’asfalto non perfettamente livellato, ma completamente sgombre che non aspettano altro che ospitare qualche malcapitato per dimostrargli che al prezzo di qualche mezz’oretta in più, qualche “fattoria” o “positano” in meno, a destinazione si arriva lo stesso.
Certo, un minimo di buon senso lo si deve comunque usare almeno per evitare di partire durante le ore più calde ovvero dopo avere mangiato quattro bistecche alla milanese (cotte nel burro, mi raccomando) e essersi scolati due birre gelate, ma la scelta più intelligente è quella di tracciare la propria rotta evitando le autostrade e optando per quel patrimonio di storia, bellezza, cultura, curiosità e sorprese che sono le strade normali.
Libere, poco trafficate e, soprattutto, gratis.
Questo alle autostrade non va giù. Ci vogliano fare credere che non sia possibile partire per le vacanze senza rinunciare ai riti collettivi dell’autogrill, della coda e dei sodalizi improvvisati nati tra automobilisti che a portiera aperta e piede sul predellino commentano l’ennesimo disservizio del gestore. Ormai fa parte del rito perché nell’immaginario degli italiani è l’autostrada che conduce a lontane evasioni forse per via dell’ufficialità “dell’ora di entrata e dell’ora di uscita”, forse in ragione del pedaggio, il tributo da pagare per potere dichiarare al mondo di essere veramente liberi, o in ragione della condivisione dei patimenti collettivi che uniscono e creano spirito di corpo, le amicizie che nascono tra i sorrisi in coda e ai banconi degli autogrill…
O forse è il fatto di trovarsi in un “non luogo” indefinibile nella sua localizzazione geografica e paesaggistica che ci trasla verso i lidi delle vacanze senza la volontà di percezione del movimento spazio temporale, quasi a volere soprassedere gli interstizi di luoghi, genti, città che si frappongono tra noi e la nostra meta finale.
Come gli astronauti dei film di fantascienza che devono ibernarsi per sopravvivere ad anni di viaggi negli spazi siderali.
La strada statale è come la ferrovia, come la bicicletta, come il portapacchi sul tetto della macchina: evocano l’esistenza più modesta e impersonale dalla quale proveniamo e con la quale non vorremo mai più misurarci. L’autostrada è la velocità, è l’anonimato luccicante e ripetitivo dei viadotti e la fantastica luce all’orizzonte di un’area di sosta che occhieggia e ci invita a fermarci per prolungare ancora quel primo assaggio di vacanza. E’, infine, il cartello indicatore che ci segnala la nostra uscita, che finalmente ha un senso, perlomeno geografico. Le altre erano semplicemente pietre miliari da superare.
Personalmente, (e chi lo dubitava) cerco di non usare mai l’autostrada. Opto per le strade statali anche per trasferte di lavoro o per motivi non strettamente connessi alle vacanze. In media il risparmio di tempo è insignificante. La minore velocità a cui mi obbligano i limiti delle statali comporta un minor consumo di carburante e meno rischi.
Inoltre, la disponibilità di un dispositivo di navigazione satellitare impostato sul calcolo di tragitti che escludano autostrade e altre strade a pagamento permettono di raffinare di volta in volta il percorso per arrivare a dei veri e propri virtuosismi in termini di risparmio di chilometri, incroci, semafori e amenità paesaggistiche.
Nei prossimi post, sparsi qua e la, qualche suggerimento di strade alternative, utili per togliersi dagli impacci nei giorni del rientro.
Concludo con una domanda, che forse dovevo pormi prima: ma che senso ha correre per arrivare in vacanza quando il viaggio può essere parte della vacanza? Penso con orrore se Kerouac, Chatwin, Lapierre e tutti gli altri scrittori che hanno saputo dare un senso letterario ai propri trasferimenti fossero vissuti ai tempi della autostrade: un romanzo di viaggio ambientato in tangenziale non interesserebbe a nessuno.

lunedì 2 agosto 2010

Terre cattive, ma un'ottima lettura

Ancora una recensione: questa volta andiamo a Nord, nelle pianure. Queste zone offrono paesaggi sconfinati, natura selvaggia e storie di uomini e ferrovie. Sentite questa.

Uno scrittore inglese che si trasferisce in uno Stato dell'estremo nord degli Stati Uniti per decifrare le reliquie di un futuro di prosperità e ricchezza mai realizzato, causa di destini di sciagura e fallimento per migliaia di contadini e delle loro famiglie. Attirati dal progredire della linea ferroviaria che attraversava gli Stati del Nord, avventurieri senza scrupoli al soldo della Compagnia Ferroviaria irretirono con promesse di prosperità e benessere migliaia di persone residenti negli Stati dell'est convincendoli a colonizzare le lande desolate delle pianure del Montana. Un inganno di siccità, fame e solitudine che lascerà profondi solchi nello sviluppo di questo Stato, per anni contraddistinto come una "Bad Land". Una lettura incredibilmente interessante scritta in modo saltellante da un inglese trapiantato sulla west coast, immancabilmente critico nei confronti dello sfrenato ottimismo inconcludente che furoreggiò nella loro ex colonia.

Jonathan Raban (1998), Bad Land. Una favola americana, Einaudi, ISBN 88-06-14572-X

New York, la storia della città dove non ti porta il taxi


Finalmente le mie recensioni per farvi viaggiare sulla carta. Che ne dite di partire da New York?

Questo libro l'ho letto alcune settimane fa. Un'esperienza unica. Avevo avuto modo di seguire Mario Maffi nella sua lunga navigazione del Missisipi partendo dalle supposte sorgenti di origine dell'immenso fiume individuate dal romantico Giacomo Agostino Beltrami che ai suoi sogni amorosi infranti in Italia, contrappose una poco conosciuta scoperta geografica in terra americana (e questa è un viaggio nel tempo che presto faremo insieme), ma quest'ultima lettura fornisce un'eccellente chiave di interpretazione per comprendere che cosa si intende per viaggio letterario.

"In quei quartieri non ti portano neppure i taxi". Una frase che abbiamo sentito tante volte. Non so quanto sia un luogo comune o una verità da non toccare con mano, ma in "quei quartieri" di New York ci sono entrato grazie alla penna di Mario Maffi, professore di letteratura americana all'Università di Milano con lunghe frequentazioni nella metropoli. In verità, a me New York ha sempre suscitato sgomento a causa dei forti contrasti e dell'apparente indecifrabile amalgama culturale che la popola. Ma la lettura del libro di Maffi, da intendersi come una guida, accompagna con mano sicura il visitatore curioso, ma titubante, nella comprensione delle stratificazioni culturali, razziali e religiose del Lower Est Side (Losiada come dicono i Portoricani). A partire dai primi arrivi degli emigranti europei, asiatici, giamaicani fino al fenomeno di ritorno della “gentrification”, il moto di riflusso e di riqualificazione degli slums da parte dei ceti emergenti newyorkesi, ogni sedimento viene divelto mettendo in luce gli aspetti più inediti, toccanti e densi di umanità della gente che ha scritto un pezzo di storia di questa città. Scritto da chi la città l’ha vissuta veramente, anche a proprie spese e ne ha evitato il vissuto più banale e facile, il libro è una preziosa lezione di cultura minimalista metropolitana compilato a più mani dai rappresentanti del mondo della cultura multirazziale, ultimi veri esponenti di un universo inaspettato che contrasta con orgoglio e fierezza le brutture della globalizzazione.

Mario Maffi (2003), New York, L'Isola delle Colline.I luoghi, la vita e le storie di una metropoli sconosciuta, Feltrinelli, ISBN88-7108-183-8

La forza della reazione