martedì 19 aprile 2011

La ricchezza che viene dal mare


Beate quelle nazioni e quelle genti il giorno che vedranno la ricchezza arrivare dal mare.
Fortunati quegli Stati e quei popoli che scorgeranno la promessa di un futuro di pace e prosperità dalla moltitudine che appare all’orizzonte.
Questa è la profezia inascoltata di oggi; questa è la miopia di chi non sa preoccuparsi del bene del proprio Paese. Le migliaia di profughi che arrivano sulle nostre coste sono il nostro patrimonio di ricchezza per il domani, ma è difficile vederne la ricchezza se chi governa fa già fatica a capire l’oggi.
Pre-occuparsi e pre-vedere: sono semplici e categorici gli imperativi di chi deve traghettare un Paese alla deriva come il nostro se si riesce a dare alle parole il loro immediato significato: impegnarsi in anticipo per occuparsi di ciò che si vede in anticipo.
L’economia della generazione di ricchezza da ridistribuire lungo le direttrici del capitalismo è ormai sommersa dalle macerie delle fabbriche in disuso e le trappole che tende ai pochi malcapitati che ancora ci credono sono molto ben nascoste dai rovi che cominciano a prendere piede un po’ ovunque. Solo gli appassionati di rovine possono guardare a questi modelli con interesse. O gli stolti.
L’universo produttivo di tutto quel mondo “grande” – grande industria, grande finanza, grande distribuzione - si arena nel piccolo e, una volta trovato che quelle sabbie non sono poi così malsane, vi si sofferma e prospera senza traumi, anzi con sorprendente vigore spandendo un’inaspettata aurea di soddisfatto benessere.
Proprio perché il mondo si è moltiplicato a dismisura e le immaginarie reti della globalizzazione, dopo avere sorvolato lungo molteplici rotte i continenti poveri e ricchi, ha acquisito consapevolezza del delirio di un’economia che non è più in grado di fare cadere un centesimo dalle proprie tasche per sfamare almeno quei pochi che si trovano nei paraggi. Ovunque oggi si creano le isole e si spezzano i fili con il mondo circostante come i fondali rinsecchiti del laghi disseccati con le zolle di fango che non vedranno più l’acqua girargli attorno come un tempo. E quelle isole sono vicino a noi, in Italia, con le centinaia se non migliaia di antiche comunità agricole, montane abbandonate in tempi in cui il capitale non aveva ancora braccia e dita così rattrappite ed era ancora in grado di sparpagliare benessere e crescita.
L’America ha accolto milioni di persone in un periodo di pochi decenni. Non poteva esimersi, non ha chiesto l’aiuto di nessuno; si è semplicemente organizzata con centri di raccolta come Ellis Island dove chiunque passava lasciava un pezzo della sua storia che sarebbe diventata poi la grande storia di un grande Paese. E quei chiunque sono andati per il grande Paese a fondare piccole città e minuscole comunità con i nomi delle loro città e dei loro Paesi di origine, a fare mestieri simili a quelli che facevano a casa loro.
In Italia esistono quelle piccole città e quei minuscoli Paesi; sono i loro abitanti che non esistono più. Proprio perché sono andati via a fondarne altre e, se sciagurati sono tornati perché la vita al di la’ del mare era più dura di quella che avevano lasciato, erano troppo soli per farle tornare a vivere. Sono i piccoli borghi della Liguria di Ponente, dell’Appennino emiliano, delle Marche. Sono le masserie abbandonate della Sicilia, i villaggi di pastori della Sardegna. Sono scenografie, molte volte di bellezza inaudita, che aspettano attori e comprimari per riprendere a celebrare i riti di un tempo fatti di fatica per produrre il sostentamento della propria famiglia, di solidarietà e di parsimonia. Questi piccoli paesi aspettano solo chi sappia vivere in piccolo, non per rinuncia al grande, ma in virtù dell’intelligenza e della saggezza della propria storia che, almeno per sofferenze e traversie, vale più della nostra e per questo dobbiamo rispettare.

(Vedi l’articolo di Alessandra Pieracci apparso sulla Stampa il 27 Marzo 2011 “Il paese fantasma salvato dagli immigrati. A Mezzanego sei chiese e una moschea: un abitante su tre è straniero”)

La forza della reazione