martedì 14 ottobre 2014

La barca sull'autostrada

Era una bella barca. Progetto originale inglese, scafo e ponte in teak, armata yawl come imponeva la moda in voga all'epoca. Certo che chi l'avesse vista con quello squarcio a dritta e quel poco di bianco rimasto sull'opera morta, i listelli di teak quasi del tutto sollevati... Eppure qualcuno aveva saputo che nella rada di La Spezia era stata affondata dai tedeschi una delle più belle barche a vela di quegli anni. Affondata per ripicca, dicevano.  Si voleva impedire l'ingresso dei siluranti inglesi, ma uno scafo così sottile, esile e affusolato, quasi una matita appuntita dal temperino di resistenza ne avrebbe offerta ben poco. Chi si voleva affondare era l'ostinata resistenza del suo primo armatore, nonché esperto committente del progetto, il capitano Raineri della Regia Marina, passato sotto le file degli Alleati con compiti di intelligenza sulle azioni offensive del nemico. Il capitano era un ottimo elemento. Inglese fluido, atletico, bella presenza e modi impeccabili. Ormai però la sua Orsa era un relitto in fondo al mare e le puntate sul Tino con il maestrale della tarda primavera erano solo un ricordo di un passato che non tornerà. Dopo la guerra i suoi nuovi incarichi a Washington non lo porteranno più a La Spezia se non per brevi puntate occasionali all'Arsenale della Marina. E lì, da qualche punto dove è possibile dominare il golfo proverà a cercare le crocette della sua barca sperando ingenuamente di vederle spuntare da qualche parte. Ma la sua Orsa, come la ricordava lui, non esisteva più.
Il palombaro aveva faticato non poco a portare a galla la barca. Ancorare tutti quei palloni per portare su un relitto che non andava neppure bene per il falò di primavera. Ci voleva proprio quell'industriale che dice di essere ligure, ma che in verità è della peggiore razza di lombardo a tirare in ballo la storia dell'Orsa. Tanti soldi a che cosa servono se alla fine ti vai ad incapricciare per una barca in fondo al mare che non serve neppure per coltivare i muscoli? Dicono che voglia portarla in un cantiere di Chiavari e farla armare da un suo amico che si intende di barche. Pare addirittura che voglia armarla Marconi, come si dice adesso, un albero solo, ma alto molto alto, troppo alto per una barca così sottile. Ma quando il palombaro, invitato al varo, l'ha vista ha avuto una scossa di orgoglio per il suo lavoro e di gratitudine per chi glielo aveva commissionato. La Kea era la barca più bella del mondo. L'opera morta era blu adesso che la rendeva ancora più snella e filante, i candelieri e tutte le manovre mobili erano in ottone lucidissimo, la barra del timone saltava fuori dal pozzetto come un delfino in amore e quell'albero altissimo con tre crocette. Come farà quando sarà sotto vento con tutta quella vela? Ma hai visto l'armatore? con quei figli viziati e la moglie che non ha la minima idea di cosa voglia dire muoversi su una barca. E infatti per l'armatore il problema di come fare non esisteva più. Aveva recuperato un relitto in fondo al mare, forse più che altro per esorcizzare una guerra che non voleva, l'aveva plasmata a suo piacimento, l'aveva sfoggiata ormeggiandola nel punto più in vista del porto di Santa Margherita. Non c'era il diletto della navigazione, il gusto della scoperta, il piacere della crociera. Questo sarebbe toccato ai figli, ai due maschi maggiori con tanti amici e amiche anche quelle milanesi che si mettevano in fila per un'uscita in barca. I più fortunati potevano sperare anche in una crociera: la costa Azzurra rampante ed esclusiva riviera di Hollywood, la Corsica, ancora aspra e selvaggia, le isole dell'arcipelago Toscano che scoprivano il turismo e la navigazione da diporto. E la Kea la si notava sempre. Per quella linea sottile che sembrava sfidare le leggi della fisica, per il suo albero altissimo, per l'aria di girovaga che trasmetteva a chi la guardava
. Tanti ammiratori e tanti estimatori. Anche qualcuno che avrebbe voluto averla. Tutta per lui. E alla fine fu così. Un vero industrialotto brianzolo, la vede, la cura e se ne innamora. La vuole redimere dallo stato di semi abbandono al quale l'avevano relegata i suoi proprietari. La compra e la fa armare a suo gusto: abbassa l'albero che non sarà più di legno, ma di metallo, rialza la tuga e potenzia il motore sostituendo il vecchio Fiat che era servito più che altro per le manovre in porto. La terrà per tantissimi anni, amandola più di ogni altra cosa al mondo. Anche se non era più la più bella barca del mondo per lui era un rifugio, un modo di vivere e di pensare: era il suo Samadhi. Quando ormai vecchio e con la mente completamente annebbiata dalle brume della demenza, quando ormai la sua azienda, la sua famiglia e i suoi soldi non avevano più alcun valore per lui, costretto a finire i suoi giorni in una stanza di una clinica della periferia di Monza, in un rarissimo momento di lucidità ordina: "portatemi qui la mia Samadhi". E qui voleva dire nel cortile della sua azienda, lungo l'autostrada a disposizione del suo fedele amante. 
E questa e la storia della barca che tutti i giorni noterete passando sull'autostrada all'interno del cortile di quei capannoni. Non è li perché lì le costruiscono e non è neppure lì per essere demolita. E' solo ormeggiata ad uno dei fantastici moli sul fantastico mare che solo il suo armatore riesce a vedere. 

La forza della reazione