giovedì 28 luglio 2011

Elogio della Provincia: il caso di Ikea a La Loggia.


Dovrebbe fare riflettere la vicenda riportata recentemente da “La Stampa” (vedi articolo di Raphael Zanotti del 27 luglio) sull’etica imprenditoriale del gruppo svedese Ikea, il colosso dell’arredamento che con i suoi messaggi pubblicitari minimalisti diffonde consumi responsabili e attenti alle risorse ambientali. Dovrebbe fare riflettere i milioni di consumatori così attratti dalle ambientazioni che strizzano l’occhio ai fanatici dei materiali naturali, agli avversari del componente di sintesi e ai cultori del riciclo e della raccolta differenziata.
Di fronte alle logiche del profitto cadono anche i più intimi paraventi atti ad esibire una coscienza ecologica e di rispetto verso l’ambiente e, soprattutto, di chi ci vive.
La provincia di Torino ha posto il veto alla realizzazione del secondo centro di vendita del gruppo svedese con la motivazione che l’insediamento avrebbe fatto razzia di una fetta considerevole di territorio non ancora edificato, scatenando così le ire dei responsabili italiani della società che adesso minacciano il disimpegno dal territorio rischiando di compromettere alcune centinaia di posti di lavoro.
E pare che non sia successo solo in Piemonte; anche in Veneto e in Toscana la realizzazione dei mega complessi espositivi ha incontrato ingombranti e fastidiosi dinieghi da parte di piccole rappresentanze di interessi locali che hanno perlopiù apprezzato il valore del territorio incontaminato rispetto agli interessi economici diretti o indotti dalla presenza di un grande centro commerciale.
I vertici di Ikea accusano la frammentazione degli enti di riferimento che li hanno obbligati a dipanare il filo delle trattative attraverso i molteplici corpuscoli di interessi locali sostenendo, al lordo dei mancati introiti, un milione di euro di spese senza arrivare a nessun risultato concreto. Ma se i valori che vengono propugnati dai chi si oppone, in questo caso la Provincia di Torino, sono la conservazione delle quote di territorio non ancora digerite dalla speculazione immobiliare degli ultimi anni, ben vengano le Provincie, questi enti tanto bistrattati e così invisi alla pubblica opinione. Guai a che le tocca, direi a questo punto. Sono l’emanazione di un germe di rivolta che parte dal basso che ha compreso che lo sviluppo, il benessere e il lavoro passa anche da altre strade che non sono i mega svincoli per accedere ai parcheggi dei centri commerciali, o per dirla tutta, attraverso i tunnel dell’Alta Velocità verso la Francia.
Ikea vuole costruire usando terreno libero perché costa meno rispetto al riutilizzo di aree di precedente edificazione. Il gruppo ha già completato un mega centro di vendita a Rivoli che ha rimpiazzato il precedente punto vendita ubicato a Torino in Corso Allamano che adesso sta facendo compagnia agli immobili vuoti e dismessi della periferia della città. Ikea persegue una logica che antepone gli interessi del capitale al bene comune. Aree agricole che vengono cementificate mortificano il paesaggio contribuendo a fare sfumare il panorama delle periferie urbane nella dimensione imprecisata di non luoghi fatti di sterminate distese di contenitori di merci in vendita intervallati da edifici industriali in rovina. Senza contare l’ulteriore incremento di superficie cementificata che è una delle principali cause dei danni causati dall’intensificarsi di temporali di matrice tropicale ormai fenomeni assai frequenti anche alle nostre latitudini.
La rivendicazione di Ikea di potere costruire su terreno vergine per evitare i maggiori costi della riedificazione di terreno già utilizzato pone, ancora una volta, la questione di quanto le logiche della salvaguardia dell’iniziativa economica si scontrino con il bene comune, concettualmente più elevato almeno a parole, del profitto. Se negli anni dello sviluppo economico la crescita imponeva il sacrificio di fiumi, laghi e mari diventati scarichi disponibili ovunque e gratuiti per le migliaia di imprese che hanno prosperato, oggi ci si inchina al marchio globale di turno che promette benessere e minaccia di andarsene appena viene osteggiato. Il bene comune, le commonalities secondo la definizione data dagli economisti della decrescita, per anni è stato terreno di scambio e saccheggio, anche grazie al tacito e colpevole assenso degli enti preposti alla regolamentazione che hanno preferito raccogliere parte dei succhi della spremitura, piuttosto che pensare a fare si che i frutti da spremere durassero più a lungo possibile. E senza andare tanto indietro nel tempo, proprio Torino dovrebbe ricordare che un altro gruppo industriale, straniero anche in questo caso, in ossequio alla logica del profitto, oltraggiando elementari precauzioni di sicurezza, ha causato una delle più atroci tragedie sul lavoro dei nostri tempi. Oggi il bene comune torna ad essere se non proprio al centro, certamente alla periferia del nostro agire sociale: il caso dell’Ikea, ma anche l’esito del referendum sull’acqua sono episodi coerenti con questo atteggiamento.
La provincia di Torino, presieduta da Antonio Saitta, esercitando il suo veto, non ha rubato il futuro della comunità di La Loggia sede papabile del secondo mega insediamento di Ikea, come va tuonando il parroco, ma ha dimostrato di avere una visione del futuro più illuminata e a più lunga gittata. Un terreno intonso è un patrimonio per tutti e domani potrebbe tornare a soddisfare i bisogni della comunità. Un centro commerciale, una fabbrica, un impianto abbandonato ai rovi non serve a nessuno. E nelle nostre periferie, lungo le autostrade ne vediamo tutti i giorni i più squallidi esempi.
Alcuni mesi fa avevo proposto su questo blog un post che raccontava l’esperienza di un’azienda della provincia di Varese che ha commissionato la costruzione della nuova sede che è oggi il più grande immobile industriale interamente in legno mai realizzato in Europa; l’altra particolarità è che l’immobile è sorto su un terreno dove sorgeva un edificio industriale in forte degrado. Non un centimetro quadrato di terreno è stato sacrificato per quest’opera unica. Ikea, nata in Svezia, patria dei boschi e del legno, fabbricante di mobili e sostenitrice del vivere minimalista, non ci hai mai pensato?

venerdì 22 luglio 2011

L'hotel in vetrina.

La moria di piccole attività commerciali nei centri delle città sta assumendo le dimensioni di un vero e proprio flagello economico e sociale.
Sono ormai frequentissimi i negozi di recente costruzione che hanno mostrato per più tempo il cartello “affittasi” o “vendesi” che un’insegna commerciale. Le storiche botteghe del centro chiudono per impossibilità di sostenere costi ingenti, difficoltà di ricambio generazionale e l'indifferenza delle istituzioni.
Un negozio che chiude difficilmente verrà rimpiazzato. E la vetrina, quella che era una volta lo specchio dove si rifletteva l’orgoglio del titolare, diventa un occhio vuoto che mostra solo polvere, rifiuti e cartacce.
Il circolo ha imboccato decisamente la strada del vizio: la proprietà dell’immobile è assillata da oneri ed è costretta a chiedere aumenti del canone d’affitto mentre l’attività del suo inquilino si dibatte affannosamente contro le amministrazioni cittadine che sembrano essere più sensibili alle logiche faraoniche della grande distribuzione, la grande apportatrice di oneri di urbanizzazione, ICI e altri balzelli per rimpinguare le asfittiche casse comunali. La soluzione è una sola: chiudere prima di dilapidare il capitale accumulato nei periodi di grassa.
Così i centri storici perdono attività tramandate per generazioni e le città perdono anche buona parte della propria essenza perché un’insegna dell’Esselunga o della Lidl non sarà mai parte del patrimonio artistico e neppure elemento imprescindibile della cultura locale, ormai così di moda tra gli esponenti del primo partito a sostegno dell’attuale governo.
Se dunque il negozio, quello tradizionale, sembra avere perso la sua funzione originaria, ovvero accogliere i clienti che fanno la spesa di giorno, di notte potrebbe tornare ad avere una sua utilità, una ritrovata funzione durante le ore tradizionalmente definite di chiusura. Trasformare un negozio sfitto in una stanza d’albergo economica potrebbe essere un’idea vincente e facile da realizzare. E con tante implicazioni positive inaspettate. Provo ad elencarne qualcuna. Innanzitutto si tratta di una formula commerciale appetibile: la possibilità di dormire in centro città in una zona servita da altre attività commerciali come ristoranti, bar e negozi ad un prezzo abbordabile e con modalità di prenotazione veloci per mezzo di una piattaforma web può interessare ad una vasta percentuale di persone che vogliono spendere il meno possibile per passare la notte. Si tratta di un’iniziativa commerciale tipicamente a rete: i proprietari dei negozi si consorziano per lo sviluppo della piattaforma di prenotazione e di gestione dei pagamenti e rimangono titolari della loro micro attività occupandosi personalmente delle pulizie e delle convenzioni con altri esercenti prossimi alla stanza per i pasti e la colazione, che beneficerebbero, fra l’altro, di sensibili incrementi di affari. Volendo potrebbero responsabilizzare “persone senza fissa dimora” abitudinari frequentatori della zona per il presidio di sicurezza dei locali contro atti di vandalismo o di protezione degli ospiti (c’è poco da ridere: un sistema di micro-alberghi ricavati da container in disuso attivo in Olanda prevede un forte coinvolgimento di homeless disposti a collaborare). Una parte dei ricavi dell’attività può, coerentemente, andare a sostegno di iniziative umanitarie a favore di persone che vivono per strada.
Il negozio, quello che ha offerto per decenni il suo ventre molle alla grande distribuzione a causa degli “orari poco compatibili con le esigenze dei consumatori moderni” si riprende la sua rivincita. Avrebbe l’occasione per dire “ Ecco, mi volevate vedere morto perché non riuscivo a superare il crepuscolo con i miei orari da Italietta del dopoguerra? Adesso io vivo di notte e voglio vedere chi mi dice qualche cosa!”
Purtroppo, di fronte ad un’apparizione di questo tipo, chi avrà qualcosa da dire sarà una nutrita schiera di esponenti di innumerevoli categorie: innanzitutto gli albergatori che sosterranno i problemi di sicurezza per gli ospiti – e avrebbero ragione - soprattutto in fase di accesso e uscita dalla stanza che da direttamene sulla strada. Poi i condomini che potrebbero non gradire ospiti sconosciuti all’interno del proprio stabile. Le forze dell’ordine potrebbero non essere contente di non potere facilmente accedere ai registri degli ospiti… Insomma, come ogni cosa, se avrà successo potrebbe trovarsi la strada lastricata di cattivi propositi da parte di terzi. Ma è altrettanto vero che per ogni cosa di può ovviare con una soluzione che accontenti tutti. Per esempio per la sicurezza si potrebbe pensare ad un sistema di chiave a codice che oltre ad permettere l’accesso alla stanza allerti, digitando una sequenza di tasti particolare, la pattuglia di polizia più vicina nel caso in cui fossi oggetto dei turpi desideri di un maniaco che mi vuole trascinare nella stanza ed agire indisturbato.
I capitali iniziali per la conversione sono molto contenuti. Si tratta di oscurare le vetrine, rendere i locali isolati acusticamente, installare gli impianti per la climatizzazione e i sistemi di allarme, sicurezza e arredare il tutto con mobili semplici e funzionali.
Gli alberghi negozio potrebbero nel giro di breve riqualificare i centri delle città offrendo nel contempo un modo nuovo ed inaspettato di concepire il viaggio e la scoperta di una città.
Si tratta solo di partire.

giovedì 14 luglio 2011

Il declino in America. Un secolo e mezzo dopo Toqueville


La vicenda di Strauss Kahn e l’accorata difesa d’ufficio del filosofo francese Bernard-Henri Lévy (pubblicata in Italia dal Corriere delle Sera) che solo all’alba del rilascio del finanziere trovava opportuno denunciare la campagna denigratoria attuata contro l’ex direttore generale del FMI, mi fornisce l’occasione per parlare di uno degli ultimi libri che ho letto: scritto da Bernard-Henri Lévy, appunto. Che ripercorre le orme di Alexis de Tocqueville nel suo viaggio in America, appunto. Per studiare il sistema penitenziario americano e l’amministrazione della giustizia. Appunto!
“American Vertigo” è un viaggio attraverso gli Stati Uniti visti attraverso le lenti di uno dei massimi pensatori europei viventi che si ostina a ricercare i motivi che fanno degli americani persone non necessariamente peggiori degli europei, ma fondamentalmente diverse da questi. Si ostina, sottolineo, perché oggi le differenze che dividono gli abitanti del vecchio e nuovo Mondo sono poca cosa al cospetto del destino che ci accomuna: il declino.
Nella prima parte del diciannovesimo secolo, Alexis de Toqueville, un aristocratico studioso francese viaggiò in alcuni degli Stati della giovane Nazione per trovare le motivazioni della forsennata crescita di un Paese destinato a diventare l’emblema della fortuna e della felicità, non trascurando però di analizzare anche l’immagine allo specchio dell’America, la realtà innegabile di chi non ha saputo approfittare della “democrazia perfetta” violandone le regole e sperimentando un sistema correttivo che non ha mai dimostrato di essere lungimirante almeno tanto quanto i suoi i massimi esponenti della rappresentazione degli interessi e dell’iniziativa privata.
E saranno questi meandri oscuri che, un secolo e mezzo più tardi, detteranno l’itinerario di Lévy il quale aggiungerà alla sua esplorazione – e qui sta l’originalità del suo contributo letterario – le nuove forme di segregazione, volontaria o meno, che segnano la vita del Paese: le “gated community” dei facoltosi pensionati americani che vivono in cittadelle limbo semi-fortificate protette da ogni interferenza esterna e ben attrezzate per far fronte ai bisogni della popolazione con defibrillatori e casse da morto pronte all’uso, ma anche altre comunità, più improvvisate e più vulnerabili agli attacchi esterni come i caravanserragli dei “winter birds” altri pensionati, meno facoltosi, che dagli stati del Nord vengono a svernare nei loro camper in qualche vecchia base militare ai bordi del deserto. Il taglio acuto della lettura dell’America di Lévy scopre anche il velo sulle comunità residue degli Stati Uniti che oggi vivono sempre più chiuse e irriducibilmente destinate a collassare, come i nativi sempre più intrisi di alcol a buon mercato, gli insediamenti Amish, sempre più depresse e bipolarizzate o le caste impenetrabili di Salt Lake City che hanno costituito i bastioni di fortune economiche e finanziarie su un’asettica adesione ai fondamenti della religione mormone.
Dai tempi di Toqueville l’America il sistema penitenziario è certamente cambiato. Le austere fortezze della guerra civile trasformate in carceri sono state quasi tutte chiuse, Alcatraz compresa, ma molte cose restano inspiegabili per gli europei come la coesistenza di tentativi di metodi correzionali basati sull’assunzione di responsabilità del condannato che può vivere una vita quasi normale in un contesto comunque ben definito e i bracci della morte dove decine di prigionieri scontano supplizi psicologici talmente forti da fare maturare, silenziosamente e senza clamori, la vera redenzione. E’ difficile poi credere che alle amministrazioni della giustizia interessi tanto creare nuove opportunità di reinserimento per un criminale quando si scopre che la catena di fast food “Kentucky Fried Chicken” è affidataria della gestione delle carceri comuni di alcuni Stati del centro degli Stati Uniti.
Per ironia della sorte, il viaggio del filosofo francese comincia da Rikers Island, il carcere di massima sicurezza di New York dove qualche anno dopo la visita di Bernard-Henri Lévy (il libro è stato scritto a cavallo tra il 2005 e il 2006) sarebbe dovuto transitare, in veste di detenuto, il potente banchiere mondiale accusato di vergognose manovre sessuali nei confronti di una cameriera di colore. Eppure il trattamento riservato all’illustre "ospite" francese all’interno del carcere americano avrebbe potuto spingere a pensare l’autore del libro che la democrazia, come ai tempi di Toqueville, esiste, perlomeno nelle sue forme esteriori più retrive e deprimenti come l’esposizione delle manette e la “perp walk”, la gogna mediatica che induce a pensare che chiunque, per quanto potente e temuto, non sfugga alle regole che permettono alla democrazia e alla libertà di sopravvivere.
Bernard-Henri Lévy, come la maggior parte degli stizzosi intellettuali europei, non ama l’America, e molte volte fa fatica a nascondere il suo disprezzo, ma ha scritto un libro che offre molte occasioni per conoscere le condizioni di sopravvivenza in cui versa il Paese in questi ultimi anni e dalle quali difficilmente potrà uscire presto. Soprattutto ci racconta l’America delle occasioni perse, quando intervista nello squallore dei loro ultimi ritiri, altri segregati volontari, gli idealisti di stampo culturale europeo protagonisti delle rivendicazioni sociali degli anni ’60 e ‘70 che per uno scorcio di secolo, avrebbero intravisto, almeno in prospettiva, le ombre di una nazione veramente libera e democratica.

Bernard-Henri LÉVY (2007), American Vertigo, Rizzoli – Codice Iban 88-17-01195-9

venerdì 8 luglio 2011

No Tav: il morto che ancora non si vede.

E’ curioso l’atteggiamento di un Paese che ritrova la volontà di sedersi ad un tavolo e comprendere le ragioni dell’altro solo con un cadavere ancora caldo steso per terra, quasi a invocare le urla di dolore di chi lamenta una morte assurda come un buon auspicio per il buon esito della trattativa.
Così è stato a Genova, così è ogni anno negli stadi e nelle guerriglie di fine partita, ogni week end davanti alle discoteche. E così sarà presto anche in Val di Susa.
Con questo non voglio esimermi dall’esprimere la mia opinione sulla questione: la linea ad Alta Velocità che dovrebbe attraversare le Alpi piemontesi è un’opera costosa, ma soprattutto inutile. Costosa in termini di oneri economici, sociali e ambientali, voluta da una classe politica che non ama il treno, che non lo ha mai amato.
Che cavalca la necessità del trasporto su ferro quando ha sempre dato seguito a politiche inconcludenti e miopi di favori incondizionati al trasporto su gomma generando una costellazione, unica in Europa, di microimprese di cui oggi si pagano le conseguente per disorganicità, costi eccessivi, sfruttamento di manodopera clandestina, incidenti e, soprattutto, il permanere di uno stato di ricatto perenne a fronte delle ennesime rivendicazioni della categoria.
E’ un’opera che ricalca, con piglio di grandeur quella che già esiste che andrebbe rammodernata e attualizzata alla necessità del trasporto intermodale dei tempi correnti. Con positive ricadute in termini di occupazione e opportunità di sviluppo dell’economia locale. Perché ancora non è stato confutato l’assioma che dimostra che tanti piccoli interventi di recupero fanno una grande opera pubblica. Fanno solo molto meno rumore e questo non piace alla politica che cerca solo il fragore dei potenti mezzi da scavo e delle tonnellate di terra da smuovere.
Ma, la questione non è questa. Il punto doloroso è che nessuno è disposto a trovare vie d’accordo e che sembrerebbe che non esista altra via d’uscita se non un immane sacrificio da una delle due parti. O per "mano poliziotta", come diceva Guccini quando elencava i più stupidi modi di morire o con le onorificenze e il cordoglio di circostanza se a cadere è un ragazzo in divisa.
Domenica prossima probabilmente, ci sarà un'altra giornata di scontri. Con nuovi fermi di manifestanti, poliziotti feriti e dichiarazioni di politici che andranno a sostenere le reciproche parti.
E intanto la rabbia cresce.

La forza della reazione