sabato 27 novembre 2010

Il traffico urbano. Alcuni consigli per ridurlo.


A Milano, un residente su due dichiara di preferire la propria auto per andare a lavorare. E' veramente incredibile che nessuna politica di trasporto pubblico, nessun ecopass e tutte le ammonizioni dell'Unione Europea abbiamo portato la cittadinanza ad avvertire il peso e le conseguenze dei propri comportamenti.
Questo primato rende il capoluogo lombardo una delle città più congestionate ed inquinate al mondo, ma soprattutto evidenzia le manchevolezze dell’amministrazione comunale che brilla per scarsa inquietudine verso il problema e, al di là dei proclami, per totale assenza di idee.
Io invece qualche ideuzza l’avrei. Niente di sofisticato. Niente che apra i cancelli a grandi lavori, grandi appalti e grandi imprese. Solo qualche accorgimento che nasce da un’osservazione, molte volte forzata, di come il traffico posso essere parzialmente eliminato mediante semplici ed economici accorgimenti e provvedimenti.
Ve li illustro scandendo la giornata dell’automobilismo forzato:
La scuola: accompagnare i bambini, soprattutto se ancora piccoli, è la prima incombenza giornaliera del genitore automobilista. Le scuole non hanno parcheggi perché giustamente a scuola vanno bambini e ragazzi che non guidano.
Tuttavia davanti alle scuole di tutta Italia alle 8 si formano degli ingorghi spaventosi di genitori automobilisti che vorrebbero accompagnare i propri figli, non a scuola, di più: al banco se fosse possibile. Normalmente i vigili si aggirano nei paraggi, non per dirimere gli ingorghi, ma per satollarsi di multe durante quei 5/10 minuti di auto malamente parcheggiate per potere accompagnare, a piedi stavolta, i figli a scuola.
Soluzione proposta: alcuni aeroporti e stazioni nordeuropee hanno istituito le “kiss zones” che sono dei parcheggi dove chi accompagna qualcuno che deve prendere un treno o un aereo può fermarsi giusto il tempo di un saluto, un bacio appunto. Esaurite i brevi convenevoli si riparte senza pagare nulla e senza creare ingorghi. Come si può applicare nel caso di una scuola?. Creare una kiss area davanti alla scuola dove i bambini, dopo il bacio a mamma e papà scendono velocemente dalla macchina che altrettanto velocemente disimpegnerà la zona adibita per fare spazio ad altre automobili. I bambini vengono sorvegliati ed inquadrati da un nonno vigile che ad ondate li accompagnerà dentro la scuola. Lo stesso all’uscita da scuola. Costi: disegnare le strisce per terra mettere qualche cartello, formare i nonni vigili che svolgeranno la loro opera in qualità di volontari.
I comuni poi dovrebbero incentivare il “pedibus”, ovvero gruppi di bambini guidati da adulti o ragazzi volontari che percorrono determinati itinerari coinvolgendo nella carovana altri bambini che si aggiungono strada facendo. Questa iniziativa è tanto bella quanto poco utilizzata. Sei comuni incentivassero maggiormente il ricorso al pedibus avremmo bambini più sereni, più sani, più rispettosi dell’ambiente. I genitori sarebbero meno stressati e rassicurati dal fatto che i bambini sono controllati. Il traffico, ovviamente, ne gioverebbe. Come dicevo, malauguratamente, queste iniziative non hanno molto successo e dopo poco tempo cadono nel dimenticatoio. A mio avviso per incrementare il ricorso è necessario coinvolgere gli insegnanti. I presidi di istituto quanto presentano i servizi che la scuola offre ( i cosiddetti “open school”) dovrebbero fare presente che esiste un servizio di accompagnamento sorvegliato dei ragazzi. Gli insegnanti dovrebbero fare comprendere ai genitori che la valutazione generale dell’alunno dipenderà anche dal grado di partecipazione a queste attività.
I motorini: l’Italia vanta una percentuale di minorenni motorizzati unica al mondo. E’ veramente incomprensibile che in un Paese come il nostro dove l’apprensione materna nei confronti dei figli sfiora il patetico si permetta a dei giovani immaturi di scorazzare su piccoli e fragorosi bolidi semplicemente per andare a scuola o effettuare spostamenti che potrebbero essere tranquillamente affrontati a piedi o in bicicletta. L’approccio precoce allo spostamento motorizzato è deleterio per la salute, per il traffico per l’inquinamento. Un ragazzino che corre oggi in motorino, sfreccerà domani su una moto o su una macchina più potente appena avrà l’età per guidarla. Il ricorso al motorino è diseducativo innanzitutto perché è inutile, dispendioso, pericoloso ed inquinante. Le scuole dovrebbero precludere ai motorini l’ingresso all’interno dei cortili e provvedere a fare rimuovere i mezzi parcheggiati in modo irregolare davanti alla scuola. Gli insegnati, anche in questo caso, dovrebbero fare capire ad alunni e genitori che chi preferisce venire a scuola a piedi o in bicicletta è maggiormente apprezzato.
Le attività pomeridiane: le attività ricreative, sportive ed educative svolte dai nostri ragazzi il pomeriggio obbligano i genitori a ulteriori sedute al volante per accompagnare ed andare a prendere i ragazzi ai corsi di tennis, nuoto, calcio, musica, danza. Tanto traffico inutile oltre ad essere una delle principali cause di stress dei genitori. La soluzione anche in questo caso potrebbe essere semplice: obbligare gli organizzatori dei corsi a munirsi di adeguati automezzi come pulmini per andare a prelevare a domicilio gli allievi e gli atleti. I maggiori oneri sostenuti dagli organizzatori dei corsi verrebbero ripagati da una piccola quota incrementale per pagare i costi del leasing degli automezzi. Inoltre il tempo di percorrenza dall’abitazione al luogo dove l’attività viene svolta potrà essere impiegato per attività di ripasso, preparazione e rendicontazione della attività svolte. Lo stesso ovviamente al ritorno. I comuni potrebbero fare la loro parte offrendo i propri mezzi come per esempio gli scuolabus inutilizzati nel pomeriggio.
La bicicletta: la bicicletta è il mezzo che è potenzialmente deputato a risolvere il problema del traffico e dell’inquinamento. Tuttavia essa continua ad essere avversata. Non direttamente, ma indirettamente in quanto la generalizzata resistenza delle amministrazioni nel creare contesti favorevoli alla circolazione su due ruote non ne favorisce la diffusione e non contribuisce a sviluppare un atteggiamento benevolo nei suoi confronti.
Alcune amministrazioni hanno investito in piste ciclabili e oggi stanno raccogliendo i frutti di queste politiche lungimiranti. Altre stanno cercando di recuperare il tempo perduto. Molte altre invece, come il Comune di Milano, non hanno ancora deciso cosa fare se non sporadiche iniziative che hanno più un sapore propogandistico piuttosto che tangibili segni di un deciso impegno verso modelli originali di mobilità sostenibile.
Senza considerare le piste ciclabili il cui sviluppo dovrebbe assecondare logiche centripete e non centrifughe – i flussi di pendolari vanno dalla periferia al centro città e pertanto non serve costruire piste ciclabili solo in centro, possono coesistere altri strumenti per facilitare la dissuasione all’uso dell’auto. Per esempio se la rete di percorsi ciclabili è insufficiente o non serve zone ad altra densità di traffico, come scuole, ospedali, uffici e tribunali si possono studiare itinerari stradali che in determinati orari della giornata risulteranno essere completamente chiusi al traffico motorizzato. Se la conformazione orografica della città presentasse rilievi di una certa entità (per esempio Roma) tali da rendere impegnativa la percorrenza in bicicletta da parte di persone poco allenate, autobus urbani in disuso opportunamente adattati e resi conformi alle normative sulle emissioni, potrebbero essere rimessi in strada per svolger servizio navetta traghettando bici e ciclisti fin sulla sommità del pendio.
Il connubio treno-bicicletta è un’altra frontiera verso la quale le amministrazioni si avventurano con un certo timore. Eppure se si riuscisse a riversare sulla rotaia solo un quarto del traffico veicolare in entrata in una città come Milano, i problemi di traffico e inquinamento potrebbero essere visti sotto una luce diversa. La possibilità di trasportare la bici al seguito è un’opportunità interessante che non viene adeguatamente promossa e sfruttata. I comuni che ricevono consistenti flussi di pendolari dovrebbero attivarsi lavorando di concerto con le aziende e con le ferrovie per favorire il ricorso da parte dei pendolari al treno fino a offrire a condizioni particolarmente vantaggiose abbonamenti ferroviari mensili abbinati alla possibilità di trasporto della bicicletta. Le ferrovie, per contro, dovranno impegnarsi a sostenere l’onere delle municipalità per lo sviluppo della rete di piste ciclabili. Questa auspicabile collaborazione tra aziende ferroviarie, amministrazioni locali e aziende potrebbe portare alla creazione di consorzi finalizzati alla progettazione e realizzazione di sistemi integrati di viabilità sostenibile.
Sempre dalla ferrovia potrebbe arrivare un grandioso aiuto a quei capoluoghi di provincia o di regione di medie dimensioni che soffrono di problemi di traffico ormai peggiori delle metropoli. Mi riferisco alla possibilità di adibire i tratti sub-urbani delle linee ferroviarie di terzo livello (ce ne sono tantissime in Italia, ancora efficienti, benché sottoutilizzate) a metropolitane leggere con l’intento di offrire una valida alternativa al mezzo privato per raggiungere il centro. I convogli adibiti al servizio, inoltre, dovrebbero disporre di un carro merci per il trasporto di merci destinate alle attività commerciali del centro, liberando le città dal traffico di veicoli commerciali che risulta essere sempre più intenso, inquinante, pericoloso. Quest’ultima possibilità permetterebbe il recupero dei suggestivi scali merci che per anni hanno sostenuto i traffici di merci del nostro Paese e ora giacciono in desolato abbandono.
Limitazione all’uso del mezzo privato: anni fa venne introdotto in azienda la figura del mobility manager, un ruolo aziendale che attraverso convenzioni con le amministrazioni locali, le aziende di trasporto e i sindacati avrebbe dovuto armonizzare ed ottimizzare gli spostamenti dei dipendenti e collaboratori con l’intento di diminuire il ricorso al mezzo privato. La totale mancanza di esempi virtuosi di applicazione di queste direttive mi porta a pensare che l’esperimento sia stato abbastanza deludente. Questo per la semplice ragione che l’adesione avviene su basi volontarie e il distacco degli italiani dal proprio mezzo motorizzato e dalla supposta sensazione di indipendenza che procura continua ad essere molto difficile. A mio avviso il problema della mobilità potrà essere risolto solo con efficaci provvedimenti che limitino sostanzialmente la facoltà di avvalersi dell’auto propria come alternativa al mezzo pubblico. A sostegno di quanto affermo, ripropongo il dato riscontrato a Milano, dove esiste un sistema di mezzi pubblici tutto sommato valido e efficiente, una persona su due preferisce la propria auto per andare a lavorare. Fino a che esisterà la possibilità di scegliere il problema non potrà essere risolto: a Londra se voglio andare in centro sono costretto ad andare coi mezzi, a piedi o in bicicletta o essere uno sceicco saudita. A Milano posso andare in centro pagando un controvalore tutto sommato abbordabile. Sempre in Gran Bretagna la possibilità di andare allo stadio in macchina è preclusa, semplicemente perché gli stadi non hanno più i parcheggi, ma solo servizi pubblici efficienti.
La propensione all’uso del mezzo proprio è un aspetto culturale: educando le nuove generazioni ad una visione più rispettosa dell’ambiente sarà più facile mettere in pratica politiche di mobilità collettiva e sostenibile senza pericolo che queste vengano avversate. L’educazione dovrebbe partire dalla scuola insegnando a bambini e ragazzi che una crescita incontrollata della mobilità individuale non è più sostenibile. Sarebbe inoltre opportuno innalzare l’età per permettere ai ragazzi di guidare motorini o altri mezzi a motore o di limitare gli spostamenti motorizzati solo in determinate circostanze o a fronte di particolari necessità. Un provvedimento doveroso anche per la salvaguardia dei giovanissimi dalle spaventose conseguenze degli incidenti in motocicletta che evidenzino ormai una quota preponderante rispetto alle automobili. Doverso, ma molto difficile visto lo strapotere dei costruttori italiani di veicoli a due ruote.
Le amministrazioni dovrebbero assumersi la totale responsabilità nel valutare l’impatto di traffico in ogni tipo di iniziativa che intendeno intraprendere e applicare politiche di mobilità collettiva orientate al contenimento del traffico privato: dalla concessione di un permesso per un centro commerciale, all’insediamento di un nuovo ospedale, dalle manifestazioni culturali agli spettacoli. Nel caso dei centri commerciali, per esempio, i gestori delle attività dovranno farsi carico di mettere in pratica sistemi gratuiti di trasporto pubblico (navette, pulmini) per il trasporto dei clienti e la consegna a domicilio delle merci acquistate. In occasione di spettacoli, concerti, partite o altri eventi capaci di attirare un pubblico numeroso dovranno anche essere impartite le disposizioni per permettere il raggiungimento del luogo della manifestazioni, facendo presente che l’accesso con mezzi propri è vietato. E se proprio non si vuole vietare, farlo pagare uno sproposito.

mercoledì 17 novembre 2010

La finanziaria su quattroruote


Tutto quello che è deteriore e negativo in un’automobile è fonte di reddito per Stato, Regioni e Comuni. Fateci caso:
L’auto è ingombrante (sempre più ingombrante) e occupa spazio: per parcheggiarla bisogna pagare una tariffa per lo spazio che si impegna. Giusto. Magari così si incentiva la gente a lasciare la macchina e uscire a piedi. Ma allora perché le amministrazioni comunali sono sempre alla ricerca di spazi per costruire nuovi parcheggi?
L’auto inquina e sporca l’aria. E’ vero che insudicia meno di una volta, ma è altrettanto vero che la si usa molto di più che in passato. Alcuni Comuni fanno pagare per entrare in città, come se fuori dalle città le automobile si astenessero dall’essere nocive. Il famoso Ecopass di Milano non è servito ad abbattere i livelli di inquinamento, ma ha generato proventi molto elevati verso le casse del Municipio per i permessi rilasciati, ma anche sulle infrazioni commesse dagli utenti alle prese con procedure e sistemi non sempre comprensibili ed agibili.
L’auto va forte, e quindi viene multata dall’autovelox, ma se non la si ferma prima ferisce e uccide chi la guida e chi ne viene travolto. E’ giusto pagare per potere coprire le spese di risarcimento delle persone che vengono ferite o ai familiari delle vittime. Ma perché devo corrispondere allo stato una tassa del 12,5% per una polizza RCAuto che risulta essere una delle più care d’Europa?
Parliamo poi della pessima abitudine delle automobili di bruciare benzina che è ancora gravata da accise dovute a catastrofi risalenti alla notte dei tempi. Questo è uno dei capitoli più seccanti della politica economica degli anni ‘70, la vera, unica ed originale politica delle “mani in tasca agli italiani” che qualcuno ama oggi ripetere.
L’elenco potrebbe continuare: il contributo per l’olio esausto, per lo smaltimento dei pneumatici e altre parti pericolose quali le batterie che agli italiani piace tanto abbandonare sui campi o nei boschetti.
Non mi si fraintenda: è giusto fare pagare l’accesso a chi vuole andare in centro, addossare parte degli oneri per lo smaltimento di sostanze dannose a chi le ha usate e pagare dei premi assicurativi per cautelare se stesse e le potenziali vittime della strada.
La domanda piuttosto è: ma siamo così sicuri che le istituzioni si impegnino veramente per ridurre il traffico automobilistico se sono consapevoli che dal momento che ci sono meno auto circolanti, diminuisce anche il flusso finanziario a loro favore?
Quali alternative potrebbe offrire una bicicletta che non inquina, che non genera scorie e rifiuti se non gli esili copertoncini che normalmente si tengono fino a quando si vede la tela, non va forte e quindi non può essere multata, non consuma nulla che costi molto in estrazione, trasporto, raffinazione e distribuzione con tutti gli oneri fiscali che si accumulano da un passaggio all’altro, che non occupa spazio anche se molti ancora non le vogliono vedere nei cortili (vedi il mio post "quanta vergogna su quelle due ruote"). Insomma che cosa si può cavare da un ciclista se non tendergli un agguato per multarlo perché andava sul marciapiede? Almeno quello. Ecco forse spiegato il motivo perché in Italia non si costruiscono le piste ciclabili.

venerdì 12 novembre 2010

Gioco responsabile, Stato irresponsabile

Un tempo il gioco era appannaggio della facoltosa borghesia che ricercava nelle fastose sale di Casinò rinomati e prestigiosi il brivido dell’azzardo, piacere ormai svanito e svilito dall’affermarsi dei canoni omologati del benessere: la posizione, il potere, la famiglia e la reputazione.
La possibilità di affermare il proprio potere e la solidità delle posizioni patrimoniali e finanziarie assumendo la decisione di affidare alla sorte l’accrescimento o il depauperamento della propria fortuna diventa un emblema di ricchezza e sfrontatezza che solo chi non ha obblighi nei confronti di alcuno può assumere. L’”extrema ratio” dell’atto di puntare al gioco diventa la sfrontata sfida nei confronti di chi da quel mondo era escluso, una sfida che declamava: sono così ricco che posso decidere di diventare un misero straccione nel giro di una serata!
Oggi le cose sono cambiate: le grandi fortune molte volte si perdono nelle non sempre illuminate vie dei paradisi fiscali, delle attività all’estero, dei finanziamenti occulti. Attività azzardate, rischiose da altri punti di vista.
Oggi il gioco d’azzardo è una piaga sociale. Se un tempo i repentini crolli finanziari di benestanti viveur diventavano il soggetto di romanzi d’appendice o feuilleton popolari, oggi una famiglia che scopre di avere un componente affetto da ludopatia, quando e se lo scopre, è ormai sull’orlo della rovina. Una persona affetta da mania compulsiva del gioco comincia ad intaccare il reddito, il patrimonio, a minare i presupposti di stabilità finanziaria della sua famiglia. Quando questo avviene, avviene in silenzio perché chi mette la mano sulla bocca del povero disgraziato e gli impedisce di urlare la sua disperazione è il miraggio della grande vincita che metterà tutto a posto. Ma la vincita non arriverà mai e le cose a posto, le metteranno parenti, familiari ed amici. Se mai ci riusciranno.
Le occasioni per diventare un dipendente dal gioco sono tante: si gioca per strada, al bar, alla stazione, negli autogrill, al computer. Insomma non c’è più bisogno di nascondersi nelle bische clandestine per sfidare la sorte e neppure il casinò, con il suoi scialbi cerimoniali da belle epoque. Oggi c’è la concorrenza di quegli squallidi capannoni periferici stipati di macchinette e gente che si rovina le giornate a buttare via quattrini su quattrini per avere nulla in cambio.
Chi invece ha molto in cambio è lo Stato che è riuscito a creare un sistema di riscossione immediata collegato a tutti i punti reali e virtuali della scommessa legale. Un investimento di milioni di euro per creare un’infrastruttura informatica deputata alla contabilizzazione delle giocate,delle vincite, dei proventi destinati a se stesso , degli aggi da devolvere ai gestori. Quando si dice che lo stato punta all’informatizzazione. Peccato che quando la fa seriamente, lo faccia solo per il proprio tornaconto.
Nella provincia di Milano le slot machines da sole inghiottono ogni giorno un milione e seicentomila euro. Una cascata di un milione e seicentomila monetine che ogni giorno allagano bar e altri locali pubblici. Senza contare lotterie, tagliandi da grattare, scommesse e poker on line, l’altra frontiera dell’azzardo dove la tua sconfitta e l’inizio della rovina non è neppure accompagnato dal ghigno beffardo e compito del croupier.
Un mondo di derelitti che si aggirano tra tabaccherie, sale scommesse, bar e autogrill attirati dai nuovi pescecani dell’azzardo, tipi untuosi che hanno riproposto le proprie competenze di biscazzieri clandestini in attività lecite quali giochi di carte on line, sale di scommesse, piccoli casinò suburbani in partnership con un socio che tutti vorremmo avere: lo Stato
Il mondo del gioco oggi genera cifre pazzesche che contribuiscono alla casse dello Stato in misura molto elevata. Non si tratta di convincere i cittadini di pagare le tasse o di perseguire gli evasori. Un esercito di benevoli pagatori che contribuiscono alle necessità dello Stato con importi superiori all’entità delle imposte che legittimamente sono, o più spesso sarebbero, tenuti a versare. Senza che lo Stato faccia nulla per stanarli o perseguirli con cartelle esattoriali, fiamme gialle o ufficiali giudiziari.
E che cosa fa lo Stato quando si accorge che forse non è così lecito guadagnare sulla dabbenaggine di poveri diavoli? Ci manda in onda lo spot che invita a giocare responsabile.
A giocare responsabile. A giocare, certo, ma responsabile. E che cosa vuol dire? Gioca quel tanto che ti serve per vivere tranquillo. Ma se gioco poco non vinco perché le vincite seguono la legge dei grandi numeri. Per vincere alle lotterie istantanee dovrei giocare per 12 volte al giorno per almeno 10 anni. Giocare responsabile che cosa significa? Che posso giocare solo per un anno? Solo una volta al giorno per 10 anni? Che cosa devo fare per vincere? Spendere una certa somma ogni giorno, uscire senza portafoglio? Dare tutti i miei guadagni a mia moglie?
Il ragionamento peloso del comunicato insinua, in chi lo vede, il significato positivo del gioco, morigerato e responsabile che alla fine premia il buon padre di famiglia con vincite in grado di sollevare il tenore della famiglia. Non è cosi! Le vincite non arrivano e il tenore della famiglia degrada verso livelli di povertà. Oltre a fornire esempi genitoriali abbruttiti dal vizio e isolati dal mondo.
Se lo Stato fosse civile e non irresponsabile limiterebbe con mezzi efficaci la possibilità che un cittadino possa sprecare al gioco i soldi che servono per mandare avanti la famiglia. Ci possono essere molti mezzi. Uno addirittura banale e consiste nel verificare tramite un supporto elettronico, per esempio la carta d’identità di nuovo tipo dotata di microchip, se il giocatore ha totalizzato una certa cifra spesa nell’arco della giornata o della settimana. Tutti i dispositivi atti a ricevere giocate e tutti gli operatori addetti ad accettare scommesse o vendere tagliandi gratta e vinci non potranno rilasciare nessun servizio di gioco se dalla lettura delle carta risultasse che il titolare ha superato il suo plafond. Se si sgarra scattano le sanzioni fino al ritiro delle licenze. Se una vincita viene conseguita oltre il plafond , perché qualcuno ha fatto il furbo, è nulla.
Pensate che questo possa bastare a creare i presupposti del”gioco responsabile”? No, perché nessuno è responsabile davanti al demone del gioco e dell’azzardo, ma almeno non si mandano in bancarotta le famiglie.
Pensate che lo Stato possa implementare un sistema del genere? No perché ci sono “difficoltà insormontabili e costi elevati”. A mio giudizio si spenderebbe un’inezia rispetto agli investimenti fatti per le infrastrutture di controllo delle giocate e di riscossione dei canoni di concessione esistenti.
Se lo Stato fosse responsabile e non irresponsabile costituirebbe un fondo per le famiglie vittime di persone che si sono giocati le mutande perche sono vittime due volte: di un padre, di una madre, un marito, una moglie o un figlio debole e infiacchito da un vizio compulsivo e di uno Stato insensibile e incapace di controllare la propria ingordigia. Esistono fondi che intervengono per le vittime della strada, ai quali tutti contribuiamo con parte del premio dell’assicurazione, fondi per le vittime dell’usura, vittime del racket, ma non un fondo per le vittime del gioco. Eppure ci vorrebbe poco a costituirlo: una minima frazione degli importi delle giocate andrebbe ad incrementare una disponibilità per dare aiuto e sollievo per quelle mogli quei padri che scoprono di avere un congiunto coperto di debiti, inseguito da creditori o peggio e non sanno spiegarsi perché.
L’invito a giocare responsabile continuerà ad essere disatteso almeno fino a quando non diventerà responsabile chi va pontificando senza dare il buon esempio. E lo spot non era neanche tanto bello.

mercoledì 10 novembre 2010

Umanità in movimento. Viaggi all'orgine della globalizzazione


Eccoci di nuovo con i nostri viaggi di carta. Questa volta non un luogo, ma tanti luoghi e un viaggio di un giornalista del Corriere della Sera, Federico Fubini. Il contrasto tra l'Occidente in decadenza e l'Oriente in fase di crescita esplosiva, è messo in luce da Fubini con la convincente illustrazione di fatti e persone che spiegano il successo delle economie di alcuni Paesi dell'Asia, ma anche la messa in moto di flussi di immigrazione sbandata e senza adeguati supporti normativi e umanitari. Un libro da leggere, soprattutto da parte di chi viaggia davvero verso quelle parti del mondo.

I sentieri dell'immigrazione sovrapposti ai flussi finanziari che congiuntamente approdano ai luoghi simbolo dell'economia globalizzata; appendici di umanità rigettata da guerre lontane che vengono catapultate in Paesi del tutto estranei ad ogni logica culturale, razziale e linguistica; ventate di imprenditoria Vietnamita e Cambogiana nata sui residui di conflitti e rivoluzioni del passato che mettono al servizio dei propri governi le leve giuste per conciliare le necessità “sporche” dei Paesi occidentali. Il viaggio di Fubini parte dai territori di confine tra Russia e Cina dove i miti del lavoratore maschio sovietico si indebolisce ulteriormente di fronte alla necessità di attrarre donne cinesi; ci porta a camminare sulla sottile linea di demarcazione che separa rigidamente le giurisdizioni del piccolo stato del Qatar dove sussistono ordinamenti legislativi di stampo anglosassone concepiti per favorire il trapianto delle regole del "fair play" affaristico occidentale e confinanti con zone di degrado e sfruttamento di manodopera multietnica. Il giornalista del Corriere con una narrazione precisa e veloce e con abbondante dovizia di informazioni in presa diretta, ci offre un caleidoscopio di Paesi, nazionalità e peregrinazioni che abbraccia tutta tutte le regioni dell'Asia culla del fermento economico del Terzo Millennio, comprese quelle regioni della Penisola Arabica che con metodi pilateschi cercano di sganciarsi dal peso di un'economia costruita esclusivamente sul petrolio. Transita nelle zone più martoriate dell'Africa, il Sudan, dove nell'indifferenza generale si consuma uno dei più efferati e scellerati esempi di colonialismo socialista da parte del Governo cinese. Termina in Albania, alle porte di casa nostra, raccontando la storia assurda di ventidue prigionieri cinesi di etnia uigura che hanno trovato in questa nazione con effimeri trascorsi di collaborazione filocinese, un destino finale poco prevedibile, beffardo e senza speranza. Un libro da leggere per capire che i destini di popoli, nazioni, ricchezze e miserie sono tutt'altro che punti fermi delle nostre conoscenze.

Federico FUBINI (2010), Destini di Frontiera, Da Vladivostok a Khartoum, un viaggio in nove storie, Laterza ISBN 978-88-420-9203-2

martedì 2 novembre 2010

Il risparmio si vede dal buongiorno


Se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, è anche vero che i nostri propositi di preservare le risorse del pianeta possono cominciare ad inizio giornata, magari facendoci la barba. Per esempio usare il pennello e la crema da barba allo stato solido, quella che si prende direttamente dalla ciotolina, evita di impiegare barattoli di acciaio e le energie impiegate per produrlo, riempirlo di aria compressa, etichettarlo e riciclarlo. Il contenitore di sapone da barba è più discreto e poco appariscente perchè non si rivolge al target dei consumatori gaudenti, ma è ancora indirizzato ad un pubblico di consumatori anziani. Anche se rimane sempre un barattolo di plastica. Spennellarsi la faccia con il pennello è più gradevole che passarsi manate di schiuma bianca sulla faccia e, tenuto conto che quella roba è innaturalmente bianca, è anche meno inquietante. Inoltre una confezione di sapone da barba, oltre a costare molto meno della bomboletta spray, dura molto, ma molto di più. E poi me la posso portare anche in aereo. Finito? No. Abbiamo finito di tappezzare la terra di chilometri di rasoi usa e getta? Se tornassimo al vecchio rasoio con la cara (sebbene un po' orripilante) lametta di acciaio ci sarebbe un notevole risparmio di risorse ed energie. Avete mai provato a prendere in mano un rasoio, come quello che avete visto l'ultima volta da piccoli, quando ammiravate vostro padre davanti allo specchio che si radeva con la sigaretta pendula di lato? Adesso fumare è una pratica socialmente sconveniente, ma ripristinare un rasoio di metallo dovrebbe essere incentivato. Provate a prenderlo in mano: è un oggetto pesante, robusto e solido in ragione del fatto che deve essere condotto con mano sicura per evitare tagli o escoriazioni. Un invito alla riflessione mattutina. I modelli più sofisticati hanno anche una ghiera per regolare la profondità di una taglio. Lo si sceglie in un negozio di coltelli, tabaccherie specializzate o ferramenta con ampio assortimento; negozi da uomini comunque, ascoltando i consigli del negoziante come quando si compra l'auto o si cambia la racchetta da temnis. E lo si tiene per tutta la vita.
Infine le lamette. Quei sottili foglietti d'acciaio avviluppati uno ad uno in deliziosa carta velina e racchiuse in minuscole bustine che assomigliano all'avviso del messaggio e-mail in arrivo, non si trovano dappertutto. I centri commerciali non le tengono quasi più. Per trovarle dovete chiedere alla commessa che vi guarderà stralunata pensando solo a due cose: che siete un potenziale suicida o che siete un uomo d'altri tempi.

La forza della reazione