mercoledì 26 dicembre 2012

Viaggiare e scrivere l'America


L’America è un paese molto grande. Con la fortuna di avere tante strade. Comode, ben tenute e con tante stazioni di servizio. Con una qualsiasi automobile in grado di macinare chilometri, nel giro di qualche ora si può passare dall’inverno all’estate, semplicemente guidando avendo solo l’accortezza di diminuire il riscaldamento man mano che si scende verso sud. Questo è un particolare non da poco dato che non ci sono molti altri posti dove questo è possibile. Ecco perché in questo Paese la letteratura "on the road" è proliferata suscitando tanto entusiasmo  presso intere generazioni. Intraprendere un viaggio Oltreoceano con o senza una meta prefissata non è stato, beninteso, appannaggio solo delle recenti generazioni motorizzate. Il viaggio di scoperta era iniziato molto prima. Sicuramente uno dei più celebrati (e citati) è stato quello di Alexis de Tocqueville che nel pieno del XIX secolo partì alla scoperta degli Stati Uniti prendendo spunto da una sua personale curiosità sul sistema carcerario di quel Paese, forse presagendo che il tumultuoso sviluppo del Paese grazie al contributo delle orde di milioni di immigrati destinati a sbarcare nel giro di qualche decennio non sarebbe stato possibile senza un rigido sistema punitivo. Ed è sempre un altro francese, un filosofo questa volta che, a distanza di qualche decennio,  decide di ripercorrere le orme del connazionale andando a rivisitare i più agghiaccianti luoghi di detenzione Americani per sottolineare l’enorme differenza di pensiero che incide sul sistema giudiziario di questo Paese che tollera l’agonia del braccio della morte rispetto a quello dei Paesi europei occidentali. Del libro di Bernard-Henri-Lévy abbiamo già parlato in questo blog. Per rimanere sul tema degli Europei che hanno scoperto l’America prima dell’era dell’automobile è giusto ricordare anche Giacomo Agostino Beltrami,  bergamasco , che a seguito di , a suo dire, una profonda delusione amorosa, ma più probabilmente per un profondo animo intriso di avventura, decide di partire per il grande continente americano trovandosi, praticamente senza volerlo a scoprire le fonti del Mississippi, anche se in seguito si scopri che proprio le fonti principali non sono. Ma pur sempre una bell’impresa per un bergamasco deluso. E non solo. E’ opera sua il primo dizionario scritto per la comprensione dell’idioma delle popolazioni indiane che popolavano il grande fiume americano. Nessuno prima di lui e pochi altri dopo di lui. E pensare che in patria, dove è tornato da vecchio per morire, sono in pochi a conoscerlo. Un altro italiano, contemporaneo nostro questa volta, Mario Maffi, ci racconterà del grande fiume. Ovviamente non tralascerà di raccontarci dei meriti del nostro conterraneo, ma ci accompagnerà in un viaggio lungo e disperato alle ricerca delle immagini di un’America che ancora, ostinatamente, continua a sognare lungo questo fiume che più che favorire l’avverarsi dei desideri, molto spesso li trasforma in incubi. Nel biennio 1952/53 uno scrittore italiano, Guido Piovene raccontò l’America all’Italietta che usciva dalla guerra e che gli americani ce li aveva ancora in casa. Il De America è un libro che andrebbe letto e riletto (e ristampato visto che è adesso introvabile) perché parla dell’America senza nessun timore reverenziale, con la curiosità dello scettico che vuole vedere fino a che punto si può spingere un popolo  che non da credito alla cultura, se non a quella fattiva delle grandi imprese della tecnica e della scienza. E’ in quegli anni di progressi la scienza ne stava facendo tanti, soprattutto negli Stati Uniti . Nel libro di Piovene i neri sono ancora i “negri”, ma alcune riflessioni sui problemi dell’integrazione  avrebbero potuto tranquillamente fare prevedere l’elezione, un giorno, di un presidente nero. Se agli europei piace il viaggio per la scoperta della differenza, delle ricerca dell’esorbitante e dell’anomalo, per porsi poi sempre con l’atteggiamento derisorio di chi pensa che la cultura sia un altro tipo di cosa, per gli americani la scoperta del proprio Paese ha molto di esistenziale. Il viaggio porta allo svelamento delle debolezze del proprio essere, alla scoperta dei propri fallimenti. Che inevitabilmente contribuiscono a porsi molte domande sul perché il mondo continui a consideralo il migliore modello di sviluppo. Significativo, a questo proposito il libro di Richard Grant che ha seguito i flussi dei nomadi americani per scoprire l’essenza del loro peregrinare su mezzi di fortuna scoprendo che magari un barbone americano viaggia per duemila chilometri approfittando di treni e camion solo perché a Seattle il mercoledì un determinato bar offre un caffè caldo ai disperati. È un libro molto forte scritto da chi ha dovuto calarsi nella parte per evitare di cadere nel pietismo verso un fenomeno che negli Stati Uniti ha dimensioni enormi. Un altro scrittore, americano, Bill Bryson ci porta invece alla scoperta dell’America Perduta, un viaggio alla ricerca delle reliquie dell’intraprendenza americana e dei suoi fallimenti. Che veri fallimenti non sono mai. I parchi di divertimento abbandonati alla ruggine, i grandi alberghi del Vermont e del New Hampshire inghiottiti dalla foreste, le miniere di antracite che bruciano senza sosta, centri di ricerca e basi aeronautiche abbandonate a se stesse sono lo specchio di una concezione di impresa che contempla solo il successo e il profitto fino al momento in cui un’altra possibilità, più ricca, più nuova e più profittevole soppianterà quella in corso. Esemplare, a questo proposito, quello che ci racconta Jonathan Raban un giornalista scrittore inglese, trapiantato nello stato di Washington che scopre la grande truffa di cui furono vittime molti agricoltori del fertile mid-west i quali, attratti dal miraggio della proprietà terriera si riversarono nel lontano Montana, terra maledetta, arida e ingenerosa che fu prodiga solo con pochi resistenti e tenaci, lasciando nell’oblio migliaia di disperati. Bad Land è un racconto di speranze e di miserie, che prende spunto da vicende vere, simili a quelle raccontate da Steinbeck in Furore, per molti anni dimenticate come le case cadenti abbandonate in mezzo alla polvere delle praterie. Ma è Il viaggio per il viaggio, alla Kerouac, per intenderci, quello che stimola maggiormente l’irrefrenabile voglia di scrivere e di non fermarsi mai. Come William Least-Heat Moon che scoprendo di avere perso il lavoro praticamente nello stesso giorno in cui viene abbandonato dalla moglie decide di caricare un sacco a pelo sul suo malconcio furgone partire alla ricerca dell’America delle strade secondarie, le strade che sulle cartine stradali di una volta venivano segnate in blu. Strade blu è la vita di un disperato che si snoda per l’America delle periferie, dei paesi fantasma che pullulano di anime tormentate ed insoddisfatte. Un viaggio circolare che tocca tutte le principali aree demografiche dell’America (Centro, il Sud, le Montagne Rocciose e le grandi pianure) raccontato in un libro di grande impatto emotivo che ci riporta all’America comunque confortevole e conciliante degli anni antecedenti alla liberalizzazione di Reagan. Più inquietante e con un lieto fine mancato è invece il racconto di Jon Krakauer che ci racconta per interposta persona il peregrinare di un adolescente che di fronte ad un avvenire di sicuro successo decide, alle soglie della maturità di girare da vagabondo per gli Stati Uniti vivendo di stenti e di espedienti per assaporare la libertà assoluta che il suo animo tormentato desiderava. Per andare incontro ad una misera e triste fine all’inizio della madre delle sue avventure, la scoperta e la conquista dell’Alaska, l’ultima frontiera della grande avventura dell’America.  

Bibliografia: 
Luigi GRASSIA (2002), Un Italiano tra Napoleone e i Sioux. Giacomo Agostino Beltrami, il patriota, l'esploratore, il letterato, Il Minotauro - ISBN 88-8073-069-X;
Mario MAFFI (2004), Mississipi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell'America, Rizzoli - ISBN 88-17-87174-5;
Guido PIOVENE (1953), De America, Garzanti;
Richard GRANT (2003), Senza mai fermarsi. Viaggio con i nomadi americani, Neri Pozza - ISBN 88-7305-937-6;
Bill BRYSON (2002), America perduta. In viaggio attraverso gli Usa, Feltrinelli - ISBN 88-87-108100-7;
Jonathan RABAN (1998),Bad  Land. Una favola americana, Einaudi - ISBN 88-06-14572-X;
William LEAST-HEAT MOON (1989), Strade Blu, Einaudi - ISBN 88-06-11606-1;
Jon KRAKAUER (2008), Nelle terre estreme. Un viaggio nella natura alla ricerca della libertà assoluta. Una storia vera, Corbaccio - ISBN 88-7972-925-3

giovedì 20 dicembre 2012

Le rinunce oculate

L''ultimo rapporto Censis sui consumi ha messo in evidenza le nuove tendenze in atto nella società italiana per quanto riguarda le scelte di acquisto. Su tutte una cosa è certa: i bei tempi delle spese d'impulso, del bene voluttuario che primeggia su tutto, insomma, dello shopping fine a se stesso, è finito. Si mettano il cuore in pace i soloni che continuano ad auspicare il ritorno dell'ottimismo e della fiducia dei consumatori per uscire dalle spirali della crisi. Qualcosa si è rotto, meglio sarebbe dire, si è finalmente aggiustato: nuovi modelli di vita si stanno affermando e inevitabilmente si fanno promotori di nuovi modelli di comportamento.E per una volta non è  la moda ad affermarsi, quella parola magica che ha fatto la fortuna dell'effimero (e anche dell'Italia, con i risultati che sappiamo), ma sono i modi a prendere il sopravvento: nuovi modi di viaggiare, di spostarsi, di divertirsi, di pensare al futuro proprio e dei propri figli. Giuseppe De Rita, lo storico direttore del Censis parla di arbitraggio dei consumi, ovvero la maggiore consapevolezza di spendere per ottenere il giusto necessario per vivere bene. Oggi non si rinuncia certo a vivere e mangiare, ma si fa a meno all'abbigliamento di marca in quanto non richiama più il benessere. Così è per le vacanze, gli spostamenti, le scelte per i figli. La fine del marketing? No, non esageriamo. Piuttosto un'opportunità per farsi una nuova. vita. 

mercoledì 19 dicembre 2012

Ritardi ed emergenze


E’ possibile che il sistema ferroviario locale di una regione come la Lombardia collassi per colpa di un software che non funziona come dovrebbe? Si è possibile. Anche se non dovrebbe mai accadere l’evento non è per nulla scongiurabile.
Quello che non dovrebbe succedere è che i malfunzionamenti e i disagi cagionati dal guasto si protraggano per giorni e giorni prima che la normalità venga ristabilita. Chi viaggia in treno in questi giorni avrà vissuto una delle più bizzarre situazioni di caos ferroviario mai sperimentate in anni di vita da pendolare: treni che sparivano letteralmente dai cartelloni elettronici, manco fossero transitati vicino al triangolo delle Bermuda, ritardi scellerati, annunci contrastanti e assoluta inettitudine del personale a gestire la situazione.
Per colpa di un software, nuovo fra l’altro,  che improvvisamente non funziona più.
Perché deve colpire la nostra immaginazione il fatto che non si sappia gestire una serie di anomalie causate da un software che, a quanto pare, funziona egregiamente in tutta Europa? In primo luogo perché un black-out nei trasporti come quello che ha rischiato di paralizzare per più di una settimana buona parte della Lombardia è un delitto di gravità inaudita e come sempre stenterà a trovare dei colpevoli, ma anche perché mette in luce una grave lacuna delle modalità di gestione di un servizio critico come i trasporti pubblici: la capacità di gestire in modo razionale e programmato un’emergenza.
All’avvicinarsi della fatidica scadenza dell’anno 2000 aziende, enti, istituzioni e governi impegnarono risorse elevatissime per scongiurare un blocco dei sistemi informativi e relativi servizi annessi qualora i software non riconoscessero un anno con tre zeri. Si parlò allora, anche in Italia di contingency plan e recovery plan. Che fecero la fortuna di molti consulenti d’azienda che scovarono il modo di pompare una sensazione di precarietà e guadagnare con piani di intervento per gestire i supposti cataclismi di sistemi telefonici che si sarebbero potuti ammutolire, comunicazioni radio disattivate, porte blindate collegate ad allarmi che improvvisamente si sarebbero spalancate e altri nequizie del genere. Ovviamente nulla di tutto questo successe, neppure a livello del semplice computer di casa. Però fu una bella esperienza. Soprattutto in Italia. Molte aziende multinazionali attivarono piani di intervento presso le proprie sussidiarie sparse per il mondo richiedendo al management locale di redigere due documenti fondamentali, l’ossatura portante di qualsiasi situazione di crisi: il contingency plan, ovvero che cosa fare per gestire un’emergenza come la mancanza di energia elettrica, l’interruzione di un flusso di informazioni, il crollo di un ponte, un terremoto, un avvicendamento di governo poco favorevole e via dicendo e che cosa fare per tornare ad una situazione di normalità, il recovery plan. Per noi italiani fu una significativa esperienza scoprire che con una certa percentuale di pragmatismo anglosassone, una buona dose di capacità di analisi teutonica e una valida base organizzativa di stampo francese avremmo potuto ottenere una tenore di sicurezza lievemente maggiore dello strofinamento del cornetto. Peccato che fu un esercizio che non generò buoni frutti. Almeno presso le tre aziende che gestiscono il traffico pendolare in Lombardia: Trenitalia, Ferrovie Nord e Trenord, neonata dal connubio delle prime due che vuole crescere senza tenere conto delle tare ereditate dai genitori.
Ai fini pratici una situazione simile a quella vissuta dai pendolari lombardi si sarebbe dovuta gestire ripristinando in tempi brevissimi il vecchio software e ripristinare il nuovo in un conteso protetto, senza fare patire ulteriori disagi ai viaggiatori. Parrebbe invece che ci si sia accaniti per cercare di fare ripartire il nuovo senza contare i disagi che avrebbe causato. Tanto nessuno paga. E a proposito di pagare, un inciso sugli stipendi spesso giudicati esagerati dei manager delle aziende di trasporto di interesse pubblico: se tra i compiti rientra anche la gestione di situazioni di emergenza anche lo stipendio più alto è da considerarsi un giusto indennizzo per la responsabilità assunta. Altrimenti sono immeritati o si è riposta fiducia su persone, scusate, incapaci.

mercoledì 28 novembre 2012

L'Uomo Nuovo e la politica delle piccole egregie cose



Per chi ha studiato l’economia classica il  concetto è consolidato: dalle azioni volte al profitto e al benessere personale di milioni di individui nasce il benessere delle Nazioni. Per il semplice e scontato fatto che l’uomo opera con il fine di trarre beneficio dalle proprie azioni. Sappiamo che non è vero. O meglio, non sempre è vero. Spesso il benessere delle nazioni scaturisce dagli interventi di chi li governa. E anche in quest’ultima evenienza non sempre le cose sembrano funzionare a dovere. Anzi.
E’ però interessante l’idea che si possa traslare il buon operato di una moltitudine di individui che, nel loro piccolo rispettano le leggi, perseguono fini leciti  e contano solo sui propri mezzi e meriti, per fare scaturire la grande società civile del futuro. Sulla carta potrebbe essere possibile anche se bisogna capire quali potranno essere i correttivi. In ogni caso c’è chi ci crede e ha addirittura fondato un movimento: Arturo Artom è il fondatore e promotore di Rinascimento Italiano, un movimento nato da poco al quale possono aderire tutti coloro che ritengono di avere (o di essere) in ragione solo dei propri meriti.
C’è molto dell’etica calvinista in questo, quell’etica entro la quale Max Weber individuava i germi dello sviluppo capitalistico di stampo mitteleuropeo. Un modello solido, robusto, destinato a prosperare nei secoli. Forse potrebbe essere valido anche da noi abituati da secoli a ravvedere nelle sole componenti morali ed umanistiche dei rappresentanti delle istituzioni le uniche attribuzioni di merito.
Artom parte invece dall’uomo e da quello che fa. Se lo fa bene senza infrangere le leggi, senza prevaricare e senza facili sotterfugi è uomo degno. Al di là di quella che è la sua levatura a livello di censo e di stato.  E’ un Rinascimento, quello di Artom, non tanto legato al periodo storico, ma alla volontà di fare nascere un nuovo uomo politico, atipico, senza colori e senza partiture.
Per il momento l’”Uomo Degno” di Artom può solo ambire ad aderire a Rinascimento Italiano che è un movimento che sfrutta le modalità bottom-up tipiche delle aggregazioni spontanee nate sulla Rete, ma anche grazie all’esperienza di una persona che ha sfruttato i propri meriti per raggiungere importanti risultati. Adesso si sta facendo la conta per vedere quanti sono quelli che aderiscono al manifesto. Poi, come spesso accade per i movimenti nati da idee sane, bisognerà vedere come e se supererà i rigidi i rigori delle lotte intestine e le secche dell’inesperienza politica.
Max Weber vedeva solo nella Grande Politica la possibilità di indirizzare i destini degli stati. La sua antinomia, la piccola politica, non sarebbe altro che il sottofondo di piccole e furtive negoziazioni per la sopravvivenza dei propri adepti. Forse oggi è il caso di ribaltare la valenza di questi concetti. Se la piccola politica, quella dei limitati successi quotidiani,  fosse virtuosa la grande politica non sarebbe da meno.  In questo Artom oggi ci crede e insieme a lui le migliaia di persone che ogni giorno vivono solo contando sulle proprie forze e i propri meriti.
Buona fortuna Uomo Nuovo!

mercoledì 14 novembre 2012

Se cinque anni vi sembrano troppi

Angela Merkel deve avere raggelato il sangue a molti con le sue affermazioni circa l’attardarsi della ripresa che per molti sarebbe dietro l’angolo. La cancelliera tedesca prefigura almeno altri cinque anni prima che tutti si possano dire al riparo della crisi.
Esagera? Per molti certamente, soprattutto per i tromboni che fanno di tutto per convincerci che i segnali della ripresa ci sono, eccome se ci sono. Dimenticano costoro che gli indicatori dell’economia reale, quali l’aumento degli ordinativi all’industria, la ripresa dei consumi, la controtendenza nel tasso di disoccupazione, e l’assestamento dei parametri dei mercati finanziari, sono sempre stati oggetto di oscillazioni periodiche, cicliche e che un momentaneo trend positivo non implica necessariamente avere imboccato la felice strada della salvezza.
La Merkel è una persona realista e molto concreta. Vede le cose per quello che sono. Ma stavolta forse neppure lei ha afferrato il senso della propria affermazione. Cinque anni sono tanti, ma sono anche un periodo ragionevolmente breve per potere attuare quelle riforme che ci porteranno veramente fuori dalla crisi.
Il problema è che le riforme che i Paesi occidentali, soprattutto quelli europei, stanno andando in senso esattamente opposto a quanto si dovrebbe fare. E sembra che nessuno se ne stia accorgendo. La locomotiva è instradata sul binario morto, ma nessuno ha voglia di fermarla. O per usare una parafrasi più simpatica e attuale, gli Schettini sulla tolda di comando dei Paesi in crisi profonda tergiversano davanti all’impellente necessità di invitare equipaggio e passeggeri ad abbandonare la nave o all’incapacità di valutare la reale portata del danno. In ogni caso sempre comportamento criminale e’.
Non è  infatti la strada delle riforme costate lacrime e sangue ai cittadini di mezzo mondo e il depauperamento dei nostri sistemi di welfare, istruzione e servizi che potranno prevenire il crollo definitivo del sistema economico attuale che arranca a fatica. Fate due conti: la crisi è iniziata a palesarsi per la sua portata da almeno quattro anni. La strada del rigore nei conti degli stati è stata da subito indicata come la soluzione da intraprendere. Tuttavia, nonostante il tempo passato le cose vanno di male in peggio. Indipendentemente da quanto efficaci e solerti siano stati gli apparati di controllo ad attuarle (in Italia, certo non abbiamo brillato) nessuno Stato può dirsi veramente rilassato. Eppure si continua a perseverare in strade che saranno sempre più impervie cercando, inevitabilmente, di convincere cittadini sempre più recalcitranti a percorrerle.
Fate una riflessione: che cosa è cambiato veramente durante questa crisi? A parte il nostro impoverimento, se è vero che crisi significa momento di passaggio e cambiamento che cosa è originato di veramente positivo e propizio in questi anni?
Poco o niente. Nulla che possa delineare uno scenario migliore per il domani. Nessuna politica che possa fondare i modelli  economici dei prossimi anni.  E, vi invito ancora a pensare, si continua a parlare di finanza, pubblica certamente, quasi fosse il traino dell’economia e non viceversa come dovrebbe essere.
Dove sono quegli uomini politici (e mettiamolo l’attributo uomo davanti a politico), i visionari che riusciranno a prefigurare i nuovi paradigmi della produzione di benessere nei prossimi anni? E soprattutto quali sono i terreni sui quali dovranno misurarsi coloro che rivendicano il diritto di guidare il proprio Paese - e non solo il proprio - fuori dalla crisi? A mio giudizio, lasciando ad altri il parere sugli uomini o donne più degni ad intraprendere il ruolo di futuri leader, i cardini sui quali dovranno girare i provvedimenti più opportuni a rinforzare l'economia mondiale per sopravvivere alla crisi, sono essenzialmente tre: produzione, distribuzione e bene comune.
Cominciamo dalla produzione: bisogna ridare alla produzione il senso più vero del termine, cioè l’impiego di risorse per produrre beni destinati ad un’utilità per noi e per altri. La produzione per troppo tempo è stata rinchiusa negli opifici, poi nelle fabbriche e ultimamente negli uffici. Beni e servizi, si suole dire, per intendere un qualche cosa che posso comprare a fronte di una contropartita che alimenterà un sistema che in ultima istanza andrà ad arricchire un ristretto circolo di individui assai facili alla speculazione, ovvero alla finanza. Nella realtà ci sono altri ambiti della produzione che non sono stati trattati con altrettanta deferenza, soprattutto in Italia. La produzione di istruzione, di cultura, di senso civico, di identità nazionale non ha raggiunto gli stessi livelli di qualità di alcuni prodotti (sempre meno in verità) che ci rendono merito nel mondo. L’impiego delle risorse non è stato messo a frutto adeguatamente. Chi ha amministrato queste risorse non ha saputo capire che la vera produzione di ricchezza parte dalle scuole, dalle università, dai consessi civili dove gli individui vivono e si relazionano. Chi amministra oggi non può fare altro che tagliare queste risorse, recidendo in tal modo ogni futura speranza che sapere, abilità, competenze, sensibilità si trasformino nel benessere di domani. Guardate le piazze e i giovani che le occupano. Alla loro età non avevate di meglio da fare?
Distribuzione: sono convinto che nei grandi numeri si nasconda la virtù: questo per una legge molto semplice, seppure difficile da comprendere: la legge del caos. Tante risorse nelle mani di poche persone non rendono come poche risorse nelle mani di tante persone. Se non altro per incidenza statistica. In Italia abbiamo avuto distretti di eccellenza perché questo assioma ha funzionato. Ma non parlo solo dei distretti produttivi. Parlo del volontariato, delle associazioni senza fini di lucro, delle parrocchie e dei preti di periferia: tante persone con poche risorse che fanno cose importanti per il bene di tanti. Come sappiamo la distribuzione è regolata da leggi assurde che destinano risorse verso operatori pubblici o privati che il più delle volte non danno prova di saggia ed equa amministrazione. Il sistema fiscale drena risorse che andranno a sostenere una moloch che a breve non elargirà più i servizi sui quali poggia il nostro benessere – istruzione, salute, assistenza, ma si vanterà solo di avere prolungato di un altro anno un’inevitabile agonia. Nel frattempo lo speculatore privato avrà aumentato ancora di divario tra la sua ricchezza e il nostro benessere.
Bene comune: non è solo l’acqua per la quale si è giustamente combattuto, ma anche la possibilità di riappropriarsi di un territorio per decenni rimasto senza leggi. La cementificazione degli ultimi trent’anni ha lasciato una distesa di ruderi industriali che nessuno abbatterà. Lo sviluppo incontrollato del trasporto privato impedisce oggi la fruizione del territorio da parte di chi cerca di riappropriarsene per scoprirne l’intima bellezza. Eppure anche in questo caso, quando un regime di austerità faciliterebbe una più convinta adesione da parte della cittadinanza a modelli di vita meno dispendiosi (trasporti, mobilità, consumi, riutilizzo di risorse, recupero del territorio e delle campagne) nessun provvedimento serio ed efficace è stato intrapreso per facilitarne una rapida diffusione.
Allora, vi sembrano ancora troppi cinque anni?

mercoledì 31 ottobre 2012

L'insostenibile peso delle merci



Un mondo invaso dalle merci non sarà mai un mondo libero e sicuro. Le merci invadono le nostre strade, le nostre case, il nostro futuro.
Pensiamo di essere liberi da vincoli, ma non riusciamo a liberarci dall’assillo di avere oggetti, di cambiarli, di portarli con noi. Anche se non ci servono. Ogni vent’anni guadagniamo un oggetto in più la cui dimenticanza di rende la vita difficile: negli ultimi due decenni abbiamo completato la simbiosi con il telefonino, prima erano le chiavi della macchina, prima ancora l’orologio. Non avvertiamo mai il bisogno di abbandonarne qualcuno e sono sempre di più.
Siamo nati e cresciuti in un mondo che ha sempre preferito la materia plasmata alla materia prima. Abbiamo perso il significato del lavoro che trasforma e modella; lasciamo che qualcuno lo faccia per noi e siamo disposti a pagarlo se su quell’oggetto risaltano quei piccoli segni che danno valore: un’etichetta, un marchio, un segno, una sigla, un “graffio”. Come se nessuno sapesse più fare un paio di scarpe o un vestito. Con la conseguenza che le nostre mani sanno solo prendere da uno scaffale, ma non hanno più capacità. Oggi si riscopre il gusto di fare, di assemblare cose più alla portata perché così facendo risparmiamo l’energia necessaria a unirle per poi trasformarle. Il  concetto “chilometri zero” sembra un espediente inventato da un genio del marketing, ma era regola sottaciuta fino a pochi decenni fa.
Le merci sono oggi solo vettrici di valore aggiunto: per la firma che portano, per la confezione, per il contesto di presentazione, per le moine che ci fa il commesso. Il valore di quello che ci teniamo in casa al netto della gratificazione dell’acquisto, imballi, confezioni, libretti d’istruzione e altri annessi e connessi è veramente poca cosa. Eppure non sappiamo resistere all’impulso dando così continui pretesti a chi produce di trovare nuovi espedienti per indurre il consumo. Anche ricorrendo anche alla mistica religiosa che porta a creare santuari pagani per celebrare riti collettivi.
La produzione e la distribuzione di merci, una volta dispensatrici di benessere e crescita sociale, oggi non garantiscono più la stabilità. Se un tempo la classe operaia poteva riscattarsi acquistando a prezzi abbordabili il prodotto delle sue fatiche in fabbrica mettendo così in moto i volani dei modelli di crescita virtuosa che hanno attraversato quasi tutto il XX secolo, oggi il fabbisogno di risorse economiche per rendere disponibili una sempre più elevata quantità di merci crea squilibri, sperperi e saccheggio di risorse. E il numero dei fruitori dei beni prodotti secondo le logiche della catena globale - produci per poco, vendi per tanto - sta continuamente assottigliandosi. Attaccato ad ogni borsa di gran marca esposta a prezzi esorbitanti nei negozi del centro c’è il bandolo finale di una matassa di filo che conduce nei luoghi di produzione dislocati a migliaia di chilometri di distanza che riparte per le zone di produzione delle materie prime e che si sfilaccia negli interminabili sentieri percorsi tra mille pericoli dai disperati disposti a lavorare per pochi spiccioli.
Ma non sono solo i beni voluttuari che invadono la nostra vita. Diamo un’occhiata in giro mentre percorriamo un’autostrada in un normale giorno lavorativo: mezzi che trasportano cibo, latte, acqua, automobili, benzina, ossigeno, cemento, gelati, pane, biscotti. Mezzi che distribuiscono merci presso punti che a loro volta distribuiranno a chi compra e porta a casa. Mettendo nuovamente in circolo merci. Le economie occidentali girano perché le merci girano, si dice. Ma adesso che si comincia a produrre di meno, le merci girano di meno. Qualcuno si è accorto che l’economia può crescere se si propongono modelli di consumo contenuti, al limite della frugalità. Allora si parla di baratto, di autoproduzione, di condivisione, di recupero. La produzione di beni necessari alla sussistenza e alla soddisfazione dei bisogni dell’uomo può avvenire in un ambito locale. Lo stesso dicasi per la loro distribuzione. Siti produttivi dislocati in luoghi lontani dai mercati di destinazione e la crescente concentrazione di entità dedicate alla distribuzione sono un pretesto per garantire profitti senza richiedere investimenti finalizzati ad una migliore efficienza. La depressione dei consumi, il principale accusato per la crisi economica di questi anni, e il loro rilancio come più volte auspicato da parte imprenditoriale è un pretesto per rimettere in moto vetusti modelli economici che difficilmente torneranno a produrre utili come in passato.  Ma fra un po’ sarà Natale. E sono in molti a sperare nell’occasione di riscatto delle merci.

mercoledì 24 ottobre 2012

L'uomo eco-mune

I mezzi di informazione stanno cavalcando l’onda ambientalista, dedicando ampi spazi a testimonianze di persone famose che professano l’amore per l’ambiente e la scoperta della felicità in modelli di vita semplice e frugale. Mi sembra che si ecceda un po’ troppo nell’aprire i propri spazi a cantanti, attori, imprenditori, calciatori, star e starlette  che saranno anche convinte di quello che fanno, ma che non risultano credibili se si mettono sull’altro piatto della bilancia il loro oneroso stile di vita fatto di "tempo libero dedicato allo shopping", viaggi e seguiti annessi, residenze energivore sparse ovunque, vacanze esotiche per non parlare di qualche interessenza in attività economiche che di “ekos” hanno ben poco. Mi domando: perchè non si parla mai delle persone comuni? Sono loro in fin dei conti che contribuiscono, loro malgrado e più con le omissioni che con le opere, a migliorare la salute del pianeta. Sono le migliaia di tonnellate di carburante che non bruceranno durante i weekend perché ormai troppo costosi, le merci non acquistate che non andranno a sostituire oggetti destinati alla discarica, le migliaia di capi di animali da macello che verranno risparmiati perché la carne si mangia solo ogni tanto, le vacanze che evitano mete lontane e dispendiose, i guardaroba che non cambiano da una stagione all’altra. Perchè non si parla dell'uomo eco-mune?

lunedì 22 ottobre 2012

Ladri di biciclette 2.0



La bicicletta, non lo sa, ma sta battendo un altro record. E’ uno degli oggetti più desiderati e rubati in Italia. E non solo: è anche l’articolo che si presta meglio di qualsiasi altra cosa ad essere ricettato senza che la legge si scomodi più di tanto. Una vera pacchia per chi vuole fare quattro soldi “quasi” onestamente.
Tutti quelli che vivono nelle grandi città sanno che per ritrovare la bicicletta rubata basta andare in posti fissi e consolidati che si chiamano Porta Portese a Roma, Senigallia a Milano e Balon a Torino e, con un esborso di pochi euro, tornarsene a casa in sella senza tante discussioni. Qualcuno ogni tanto si indigna e cerca di ricorrere alla forza costituita, ma l’unica cosa che ottiene è uno sguardo di compatimento del vigile simile a quello che si rivolge ad uno che entrasse da McDonald è chiedesse se la carne è fresca o surgelata.
Il problema è serio perché una così diffusa pratica di furto ai danni della bicicletta potrebbe compromettere le potenzialità di sviluppo di questo mezzo che, non ne ho mai fatto mistero, è la soluzione alla congestione da traffico delle città che le amministrazioni comunali continuano ostinatamente a non considerare. Le quali, d’altra parte, con altrettanto  fervore, continuano a negare che il traffico sia un problema.
Il fatto è che chi espone la bicicletta per la strada con il rischio di non trovarla più al palo è proprio colui che la usa tutti i giorni per andare a lavorare, sia operaio, magazziniere, professionista o manager. Gli sportivi con mezzi da svariate migliaia di euro la loro bici praticamente se la portano a letto e per nessun motivo la lascerebbero alle mercé del ladruncolo di strada. Il bancario la bici mica se la può legare alla scrivania. Al massimo la tiene sott’occhio attraverso la vetrina (se ha la fortuna di lavorare al pian terreno).
Eppure un rimedio abbastanza drastico per risolvere il problema ci sarebbe. E ancora una volta sarebbe possibile grazie alla Rete. Cerco di descriverlo in estrema sintesi. Tutte le biciclette hanno stampigliato un numero di matricola che si trova normalmente sul fondo del tubo centrale (quello che ospita la sella, per intenderci). Va da sé che limare il numero di matricola della bicicletta è un gioco da ragazzi e nessuno, anche se siete un delinquente incallito, vi arresterà per avere viaggiato su un velocipede con matricola abrasa. Tuttavia esistono modalità molto più evolute per rendere identificabile in modo univoco un oggetto. Per esempio un chip, quella patatina dorata che si trovo ormai su tutte le carte di credito, inserito dentro la bicicletta (e quando dico dentro dico dentro, ovvero infilato in un tubo prima della saldatura) per essere poi codificato da un lettore come uno smartphone dotato di apposito software. Fra l’altro il chip "embedded"  comunicherebbe, oltre al codice assegnato alla bicicletta, altri dati importanti come data di costruzione, il produttore, il  paese di origine, le normative rispettate; tutte informazioni utili anche per evitare l’invasione di prodotti di bassa qualità provenienti dall’Oriente. E’ una volta che ho il mio codice che cosa ne faccio? Quello che siamo ormai abituati a fare per centinaia di altre attivazioni: mi registro ad un sito, che potrebbe essere gestito e certificato dall’associazione dei produttori e distributori di biciclette, e una volta che risulto identificato abbino il mio codice al mio nome. In questo modo il mio nominativo risulterà per sempre avvinghiato alla mia fedele due ruote e quando la ritroverò al mercatino mi basterà rilevare il codice con il mio telefono per sbugiardare il losco trafficante e sferzare il vigile imbelle ad intervenire.
Quando sarà giunto il momento di vendere o regalare la bicicletta all’amico, al figlio o a quello che ha risposto alla nostra inserzione su ebay basterà semplicemente che costui si registri sul sito (se è già registrato tanto meglio) mi faccia pervenire una richiesta di rilascio del codice che gli cederò quando avrò perfezionato il contratto di cessione. Un po’ come avviene per la cessione dei domini della Rete.
Semplice no? Forse anche troppo perché non ho considerato tutte le variabili in gioco e potrebbero essercene di tali da far saltare tutto il sistema. Ma ovviamente se ci fosse qualcuno disposto a parlarne con me sono aperto al confronto. Dimenticavo: scordatevi di rubarmi l’idea e diventare ricchi. Fino a quando la bicicletta sarà un mezzo libero da vincoli, tasse, assicurazioni, revisioni periodiche, controlli, e normative antinquinamento soldi intorno a lei ne gireranno sempre pochini.E meno male!

domenica 21 ottobre 2012

Signore e Signori



Il prefetto di Napoli Andrea De Martino ha malamente interrotto un sacerdote durante la sua esposizione per denunciare l'ennesimo saccheggio del territorio perpetrato da anni dalla camorra con le disinvolte tecniche di smaltimento che tutti conosciamo. La colpa di Don Maurizio Patriciello? Ha dato della "signora" al prefetto di Caserta Carmela Pagano presente all'incontro e il collega napoletano si è sentito in dovere di richiamarlo all'ordine invocando il rispetto delle istituzioni dello Stato e impartendogli la giusta lezione sull'uso corretto degli appellativi per i suoi rappresentanti. Va bene. Peccato che i due prefetti "offesi" rappresentino lo Stato laddove lo Stato e le sue leggi non valgono più niente se non per le poche persone come il sacerdote "sgridato" che ostinatamente, cercano solo di denunciare quello che tutti, altrettanto ostinatamente, continuano a non vedere. Peccato che pochi giorni fa a Napoli un ragazzo sia stato ucciso per sbaglio per una vendetta di camorra e qualcuno ha pensato bene di stigmatizzare l'accaduto dicendo che era nel posto sbagliato al momento sbagliato suscitando, da parte dei genitori della vittima,  una delle più civili ed esemplari lezioni che le istituzioni dovrebbero apprendere: per un ragazzo onesto che amava la vita non esistono posti o orari sbagliati. I due prefetti sono sicuramente degni rappresentanti dello Stato, ma ritenendo di essere stati offesi hanno creato una barriera ancora più insormontabile tra chi, come Don Maurizio, lotta solo a mani nude contro una criminalità che non ha eguali in Europa e le Istituzioni dovrebbero dare strumenti e risorse per combatterla, non lezioni di bon ton. A distanza di 48 ore il prefetto di Napoli ha cercato di stemperare la reazione di un'opinione pubblica abbastanza sconcertata affermando che don Patriciello avrebbe avuto probabilmente la medesima reazione se qualcuno lo avesse chiamato semplicemente signore. Mi piace pensare che Don Maurizio in questo momento abbia cose più importanti da fare che rintuzzare polemiche che non portano da nessuna parte. Ma penso che una persona come don Maurizio non si sarebbe fatto nessun problema se qualcuno non l'avesse apostrofato con i titoli corretti. Avrebbe semplicemente risposto: io sono solo un Uomo. Con la U maiuscola, signor Prefetto, questa ci vuole.


La forza della reazione