Un mondo invaso dalle merci non sarà mai un mondo libero e
sicuro. Le merci invadono le nostre strade, le nostre case, il nostro futuro.
Pensiamo di essere liberi da vincoli, ma non riusciamo a
liberarci dall’assillo di avere oggetti, di cambiarli, di portarli con noi.
Anche se non ci servono. Ogni vent’anni guadagniamo un oggetto in più la cui
dimenticanza di rende la vita difficile: negli ultimi due decenni abbiamo
completato la simbiosi con il telefonino, prima erano le chiavi della macchina,
prima ancora l’orologio. Non avvertiamo mai il bisogno di abbandonarne qualcuno
e sono sempre di più.
Siamo nati e cresciuti in un mondo che ha sempre preferito
la materia plasmata alla materia prima. Abbiamo perso il significato del lavoro
che trasforma e modella; lasciamo che qualcuno lo faccia per noi e siamo
disposti a pagarlo se su quell’oggetto risaltano quei piccoli segni che danno
valore: un’etichetta, un marchio, un segno, una sigla, un “graffio”. Come se
nessuno sapesse più fare un paio di scarpe o un vestito. Con la conseguenza che
le nostre mani sanno solo prendere da uno scaffale, ma non hanno più capacità. Oggi
si riscopre il gusto di fare, di assemblare cose più alla portata perché così
facendo risparmiamo l’energia necessaria a unirle per poi trasformarle. Il concetto “chilometri zero” sembra un
espediente inventato da un genio del marketing, ma era regola sottaciuta fino a
pochi decenni fa.
Le merci sono oggi solo vettrici di valore aggiunto: per la
firma che portano, per la confezione, per il contesto di presentazione, per le
moine che ci fa il commesso. Il valore di quello che ci teniamo in casa al
netto della gratificazione dell’acquisto, imballi, confezioni, libretti
d’istruzione e altri annessi e connessi è veramente poca cosa. Eppure non
sappiamo resistere all’impulso dando così continui pretesti a chi produce di trovare
nuovi espedienti per indurre il consumo. Anche ricorrendo anche alla mistica
religiosa che porta a creare santuari pagani per celebrare riti collettivi.
La produzione e la distribuzione di merci, una volta
dispensatrici di benessere e crescita sociale, oggi non garantiscono più la
stabilità. Se un tempo la classe operaia poteva riscattarsi acquistando a
prezzi abbordabili il prodotto delle sue fatiche in fabbrica mettendo così in
moto i volani dei modelli di crescita virtuosa che hanno attraversato quasi
tutto il XX secolo, oggi il fabbisogno di risorse economiche per rendere
disponibili una sempre più elevata quantità di merci crea squilibri, sperperi e
saccheggio di risorse. E il numero dei fruitori dei beni prodotti secondo le
logiche della catena globale - produci per poco, vendi per tanto - sta
continuamente assottigliandosi. Attaccato ad ogni borsa di gran marca esposta a
prezzi esorbitanti nei negozi del centro c’è il bandolo finale di una matassa
di filo che conduce nei luoghi di produzione dislocati a migliaia di chilometri
di distanza che riparte per le zone di produzione delle materie prime e che si
sfilaccia negli interminabili sentieri percorsi tra mille pericoli dai
disperati disposti a lavorare per pochi spiccioli.
Ma non sono solo i beni voluttuari che invadono la nostra
vita. Diamo un’occhiata in giro mentre percorriamo un’autostrada in un normale
giorno lavorativo: mezzi che trasportano cibo, latte, acqua, automobili,
benzina, ossigeno, cemento, gelati, pane, biscotti. Mezzi che distribuiscono
merci presso punti che a loro volta distribuiranno a chi compra e porta a casa.
Mettendo nuovamente in circolo merci. Le economie occidentali girano perché le
merci girano, si dice. Ma adesso che si comincia a produrre di meno, le merci
girano di meno. Qualcuno si è accorto che l’economia può crescere se si propongono
modelli di consumo contenuti, al limite della frugalità. Allora si parla di
baratto, di autoproduzione, di condivisione, di recupero. La produzione di beni
necessari alla sussistenza e alla soddisfazione dei bisogni dell’uomo può
avvenire in un ambito locale. Lo stesso dicasi per la loro distribuzione. Siti
produttivi dislocati in luoghi lontani dai mercati di destinazione e la
crescente concentrazione di entità dedicate alla distribuzione sono un pretesto
per garantire profitti senza richiedere investimenti finalizzati ad una
migliore efficienza. La depressione dei consumi, il principale accusato per la
crisi economica di questi anni, e il loro rilancio come più volte auspicato da
parte imprenditoriale è un pretesto per rimettere in moto vetusti modelli
economici che difficilmente torneranno a produrre utili come in passato. Ma fra un po’ sarà Natale. E sono in molti a
sperare nell’occasione di riscatto delle merci.
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