mercoledì 14 novembre 2012

Se cinque anni vi sembrano troppi

Angela Merkel deve avere raggelato il sangue a molti con le sue affermazioni circa l’attardarsi della ripresa che per molti sarebbe dietro l’angolo. La cancelliera tedesca prefigura almeno altri cinque anni prima che tutti si possano dire al riparo della crisi.
Esagera? Per molti certamente, soprattutto per i tromboni che fanno di tutto per convincerci che i segnali della ripresa ci sono, eccome se ci sono. Dimenticano costoro che gli indicatori dell’economia reale, quali l’aumento degli ordinativi all’industria, la ripresa dei consumi, la controtendenza nel tasso di disoccupazione, e l’assestamento dei parametri dei mercati finanziari, sono sempre stati oggetto di oscillazioni periodiche, cicliche e che un momentaneo trend positivo non implica necessariamente avere imboccato la felice strada della salvezza.
La Merkel è una persona realista e molto concreta. Vede le cose per quello che sono. Ma stavolta forse neppure lei ha afferrato il senso della propria affermazione. Cinque anni sono tanti, ma sono anche un periodo ragionevolmente breve per potere attuare quelle riforme che ci porteranno veramente fuori dalla crisi.
Il problema è che le riforme che i Paesi occidentali, soprattutto quelli europei, stanno andando in senso esattamente opposto a quanto si dovrebbe fare. E sembra che nessuno se ne stia accorgendo. La locomotiva è instradata sul binario morto, ma nessuno ha voglia di fermarla. O per usare una parafrasi più simpatica e attuale, gli Schettini sulla tolda di comando dei Paesi in crisi profonda tergiversano davanti all’impellente necessità di invitare equipaggio e passeggeri ad abbandonare la nave o all’incapacità di valutare la reale portata del danno. In ogni caso sempre comportamento criminale e’.
Non è  infatti la strada delle riforme costate lacrime e sangue ai cittadini di mezzo mondo e il depauperamento dei nostri sistemi di welfare, istruzione e servizi che potranno prevenire il crollo definitivo del sistema economico attuale che arranca a fatica. Fate due conti: la crisi è iniziata a palesarsi per la sua portata da almeno quattro anni. La strada del rigore nei conti degli stati è stata da subito indicata come la soluzione da intraprendere. Tuttavia, nonostante il tempo passato le cose vanno di male in peggio. Indipendentemente da quanto efficaci e solerti siano stati gli apparati di controllo ad attuarle (in Italia, certo non abbiamo brillato) nessuno Stato può dirsi veramente rilassato. Eppure si continua a perseverare in strade che saranno sempre più impervie cercando, inevitabilmente, di convincere cittadini sempre più recalcitranti a percorrerle.
Fate una riflessione: che cosa è cambiato veramente durante questa crisi? A parte il nostro impoverimento, se è vero che crisi significa momento di passaggio e cambiamento che cosa è originato di veramente positivo e propizio in questi anni?
Poco o niente. Nulla che possa delineare uno scenario migliore per il domani. Nessuna politica che possa fondare i modelli  economici dei prossimi anni.  E, vi invito ancora a pensare, si continua a parlare di finanza, pubblica certamente, quasi fosse il traino dell’economia e non viceversa come dovrebbe essere.
Dove sono quegli uomini politici (e mettiamolo l’attributo uomo davanti a politico), i visionari che riusciranno a prefigurare i nuovi paradigmi della produzione di benessere nei prossimi anni? E soprattutto quali sono i terreni sui quali dovranno misurarsi coloro che rivendicano il diritto di guidare il proprio Paese - e non solo il proprio - fuori dalla crisi? A mio giudizio, lasciando ad altri il parere sugli uomini o donne più degni ad intraprendere il ruolo di futuri leader, i cardini sui quali dovranno girare i provvedimenti più opportuni a rinforzare l'economia mondiale per sopravvivere alla crisi, sono essenzialmente tre: produzione, distribuzione e bene comune.
Cominciamo dalla produzione: bisogna ridare alla produzione il senso più vero del termine, cioè l’impiego di risorse per produrre beni destinati ad un’utilità per noi e per altri. La produzione per troppo tempo è stata rinchiusa negli opifici, poi nelle fabbriche e ultimamente negli uffici. Beni e servizi, si suole dire, per intendere un qualche cosa che posso comprare a fronte di una contropartita che alimenterà un sistema che in ultima istanza andrà ad arricchire un ristretto circolo di individui assai facili alla speculazione, ovvero alla finanza. Nella realtà ci sono altri ambiti della produzione che non sono stati trattati con altrettanta deferenza, soprattutto in Italia. La produzione di istruzione, di cultura, di senso civico, di identità nazionale non ha raggiunto gli stessi livelli di qualità di alcuni prodotti (sempre meno in verità) che ci rendono merito nel mondo. L’impiego delle risorse non è stato messo a frutto adeguatamente. Chi ha amministrato queste risorse non ha saputo capire che la vera produzione di ricchezza parte dalle scuole, dalle università, dai consessi civili dove gli individui vivono e si relazionano. Chi amministra oggi non può fare altro che tagliare queste risorse, recidendo in tal modo ogni futura speranza che sapere, abilità, competenze, sensibilità si trasformino nel benessere di domani. Guardate le piazze e i giovani che le occupano. Alla loro età non avevate di meglio da fare?
Distribuzione: sono convinto che nei grandi numeri si nasconda la virtù: questo per una legge molto semplice, seppure difficile da comprendere: la legge del caos. Tante risorse nelle mani di poche persone non rendono come poche risorse nelle mani di tante persone. Se non altro per incidenza statistica. In Italia abbiamo avuto distretti di eccellenza perché questo assioma ha funzionato. Ma non parlo solo dei distretti produttivi. Parlo del volontariato, delle associazioni senza fini di lucro, delle parrocchie e dei preti di periferia: tante persone con poche risorse che fanno cose importanti per il bene di tanti. Come sappiamo la distribuzione è regolata da leggi assurde che destinano risorse verso operatori pubblici o privati che il più delle volte non danno prova di saggia ed equa amministrazione. Il sistema fiscale drena risorse che andranno a sostenere una moloch che a breve non elargirà più i servizi sui quali poggia il nostro benessere – istruzione, salute, assistenza, ma si vanterà solo di avere prolungato di un altro anno un’inevitabile agonia. Nel frattempo lo speculatore privato avrà aumentato ancora di divario tra la sua ricchezza e il nostro benessere.
Bene comune: non è solo l’acqua per la quale si è giustamente combattuto, ma anche la possibilità di riappropriarsi di un territorio per decenni rimasto senza leggi. La cementificazione degli ultimi trent’anni ha lasciato una distesa di ruderi industriali che nessuno abbatterà. Lo sviluppo incontrollato del trasporto privato impedisce oggi la fruizione del territorio da parte di chi cerca di riappropriarsene per scoprirne l’intima bellezza. Eppure anche in questo caso, quando un regime di austerità faciliterebbe una più convinta adesione da parte della cittadinanza a modelli di vita meno dispendiosi (trasporti, mobilità, consumi, riutilizzo di risorse, recupero del territorio e delle campagne) nessun provvedimento serio ed efficace è stato intrapreso per facilitarne una rapida diffusione.
Allora, vi sembrano ancora troppi cinque anni?

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