martedì 21 giugno 2011

Energie alternative: ora serve una deregulation


Dopo la rivolta silenziosa divampata dall'ultimo esito referendario che ha messo a tacere le velleità di un governo inconcludente, è arrivata l’ora di mettere mano ad un piano energetico che possa sostenere il futuro che ci attende. Futuro è bene dirlo, che non sarà quello delle ingenti produzioni industriali, delle elevate potenze e delle alte velocità come auspicavano le campagne miracolistiche del nostro premier, ma ormai avviato ad un sistema di generale rallentamento e morigeratezza materialistica. Non decrescita, o forse sì, se pensiamo alla perdita di valore del computo della ricchezza nazionale, ma controbilanciata da crescita di altri valori che, sebbene non ancora voci di contabilità nazionale, contribuisco al nostro bilancio personale. E con effetti quasi sempre benefici e positivi.
Il crollo in Borsa dei titoli delle aziende fornitrici di “commodity” legate ai consumi energetici susseguente la vittoria dei “sì” al quesito referendario sulla definitiva dipartita del nucleare dai futuri piani energetici e le positive e lungimiranti analisi degli esperti che hanno raccomandato di investire in energie rinnovabili, ha di fatto indicato la strada da seguire per impostare la nuova politica dei consumi energetici, e cioè la produzione in ambito esclusivamente privato.
Senza la chimera del “conto-energia” enorme pretesto per mantenere legato e sorvegliato l’utente contribuente in cambio dei guadagni derivanti dalla rivendita del surplus produttivo sarà possibile fare nascere una diversa propensione alla spesa da parte degli italiani che replicheranno le stesse dinamiche degli anni del boom della motorizzazione di massa e cioè, allora, l’acquisto di mezzi di trasporto individuale e un graduale abbandono del vettore pubblico e oggi, l’installazione di impianti a basso costo per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Il vero boom della produzione di energie rinnovabile originerà dunque solo nel momento in cui verrà facilitato e non ostacolato, con balzelli, oneri e lungaggini l’abbandono (“staccare il filo e tagliare il tubo”) delle forniture energetiche di luce e gas. Solo quando l’utente potrà fare conto sulla quantità di energia di cui sarà produttore e consumatore nello stesso tempo sarà possibile innescare la coppia virtuosa costituita dalla produzione di energia da fonti rinnovabili controbilanciata da atteggiamenti di effettiva attenzione ai livelli di consumo energetico.
La generalizzata diminuzione dei prezzi per l’acquisto e l’installazione di sistemi di produzione di energie rinnovabili dovrebbe stimolare lo Stato ad impegnarsi a tracciare linee guida per l’emanazione di provvedimenti che favoriscano ed incentivino la propagazione del ricorso a sistemi autonomi di produzione. Il provvedimento più risolutivo dovrebbe essere un contributo a fondo perduto pari al 100% del costo del più opportuno impianto di produzione energetico o combinazione di questi a seconda dei casi. Il beneficio della diminuzione degli oneri sul debito verso l’esterno alla voce "importazione di risorse energetiche fossili", farà rientrare rapidamente l’esborso sostenuto.
Propugno pertanto una deregulation totale nel settore delle energie alternative. Sono convinto che sia l’unica strada che porti il nostro Paese ad affrontare il problema dell’energia in modo serio e risolutivo. Lasciando ampio spazio alla facoltà del singolo e cacciando sempre più nell’angolo le grandi aziende produttrici e dispensatrici di energia che per decenni hanno condizionato le scelte in materia.

venerdì 17 giugno 2011

Il vicesindaco senza amici ciclisti


In un mio precedente post che avevo intitolato “La bicicletta, quanta vergogna su quelle due ruote” avevo cercato di spiegare i motivi che hanno ostato alla diffusione in Italia di questo mezzo fantastico. Escludendo i fattori esogeni quali l’orografia e il tempo meteorologico (la zona più flagellata dal traffico è la pianura Padana per sua natura piatta e con 8 mesi di clima sopportabile all’anno), mi ero concentrato sulla psico-sociologia della bicicletta e i fantasmi di povertà, sofferenze e privazioni della vita contadina e operaia che a noi italiani, per più lungo tempo rispetto agli altri Paesi europei con i quali amiamo rapportarci, hanno significato.
Ma il tempo passa e le ferite e le umiliazioni si affievoliscono, le classi si emancipano e si dovrebbe essere portati a scoprire che se le condizioni di vita di allora erano penose, la bicicletta faceva il possibile per alleviarcele. La libertà, l’indipendenza, la scoperta (a questo proposito vi consiglio di leggere le sensazioni raccontate da Pasolini in Amado mio durante la gita a Caorle) che il mezzo a due ruote ha donato avrebbero dovuto legittimare la bicicletta a riacquistare un posto di rilievo nelle politiche di mobilità dei governi che si sono succeduti negli anni. Invece no, anzi a leggere quello che succede a Brescia sembrerebbe che i fantasmi del passato siamo sempre pronti a farsi vivi. Il vicesindaco della città lombarda, infatti, il leghista Fabio Rolfi, delegato per la mobilità è l’artefice di una ordinanza che prevede che per preservare il decoro urbano (sic) tutte le biciclette che verranno trovate parcheggiate legate al classico palo o alla cancellata, siano rimosse. La norma di per sé è in pieno accordo con il codice della strada, soprattutto se, come sostiene lo zelante amministratore, ci sono rastrelliere per tutti. Sicuramente, ma la questione che hanno sollevato i suoi concittadini che usano la bicicletta e che hanno molte più occasioni di vedere quello che succede sulle strade rispetto a chi consulta i codici, è che auto, furgoni, SUV e scooteroni sono dappertutto (e non solo a Brescia) senza che nessuno si senta nel diritto di gridare all’oltraggio del pubblico decoro.
Che poi, diciamola tutta, non è la bicicletta a dare fastidio. E’l’andare in bicicletta, neppure per sport, ma semplicemente per muoversi che irrita. E’ il fatto di fare una scelta libera, naturale senza i condizionamenti della pubblicità che ci vorrebbe obbligare a comprare una macchina per ogni occasione. E’ l’immunità che il ciclista ha nei riguardi di multe da divieto di sosta (attenzione però a Brescia), è il fatto che arriva prima che è più allegro, più sano.
Ma è sicuro il vicesindaco di Brescia di non avere nessun conoscente che va in bicicletta? Non poteva chiedere prima a lui?
Vi segnalo l’articolo de “La Stampa”.

mercoledì 15 giugno 2011

Dall'Utopia all'idea di marketing: l'auto di domani nasce cosi.


Può un'utopia diventare un’idea di marketing vincente? A giudicare dalla storia del Maggiolino Volkswagen sembrerebbe proprio di si. Il disegno della “macchina del popolo” lanciata in un momento di lucida riflessione di una mente delirante di un dittatore folle ha totalizzato una serie di record numerici di cui solamente la decima parte potrebbe fare gola alle case automobilistiche dei tempi nostri all’affannosa ricerca di nuove soluzioni per competere sul mercato. Eppure alla base di tutto c’è una sola regola: semplicità
E pensare che all’inizio non si chiamava neppure “auto del popolo”. A chiamare Volkswagen l’entità aziendale raffazzonata che intraprese la produzione dei primi esemplari di Maggiolino sulle rovine ancora fumanti dello stabilimento di Wolfsburg furono gli Alleati decisi, da un lato, a forzare la ripresa della Germania, dall’altro attratti dalle potenzialità e dalla versatilità del progetto di Ferdinand Porsche, il quale, per beffa della sorte, stava scontando alcuni anni di carcere in Francia per collaborazione con il passato regime. Il Maggiolino avrebbe dovuto chiamarsi “Kraft durch Freude-Wagen” ovvero l’automobile della forza attraverso la gioia (KdF-Wagen). Pare che sia stato Hitler di persona ad affibbiare questo nome dalle forti suggestioni Shilleriane, ma poco attraente per un prodotto destinato a fare epoca.
Semplicità dunque, che permise la riattivazione delle linee di montaggio che con la drammatica scarsità di materie prime del dopoguerra tedesco non avrebbero potuto produrre altro che una macchina dal progetto così minimale come i Maggiolini delle primissime serie. Semplicità che permise di tenere i prezzi alla portata delle effettive possibilità di acquisto della classe operaia di mezza Europa in forte ascesa politica e sociale. E poi ancora semplicità di una meccanica affidabile e ridotta ai minimi termini che consentì alla Casa, nel frattempo tornata in salde mani tedesche, di esportare la vettura in quasi tutte le zone disagiate del pianeta: Africa, Australia, Sud America e Nord America: le temperature torride, la polvere le distanze infinite non imbarazzavano per nulla la tenuta del piccolo motore a 4 cilindri raffreddato ad aria che ha equipaggiato la macchina dal suo esordio all’esemplare numero 21.529.464 uscito per ultimo dagli stabilimenti messicani nel luglio del 2003.
I record, dunque: più di ventuno milioni di auto prodotte, un quarto in più della produzione dell’auto di massa dell’American Standard of Living, la Ford T che nonostante l’ampia scelta di colori (neri), totalizzò “solo” 15 milioni di unità prodotte; la copertura di tutti i 5 continenti con numeri di vendita da record per molti Paesi come il Brasile, l’Australia e il Messico, una longevità unica nella storia dell’automobile se si pensa che il progetto affonda le sue radici nella metà degli anni ’30 e ha garantito vendite e profitti alla casa tedesca fino al 2003, senza considerare, ovviamente, il ritorno di fiamma della rivisitazione moderna del "New Beetle" in commercio da una dozzina d’anni ormai. Inoltre, come la “Settimana Enigmistica”, il “Kaefer” vanta il maggior tentativo di imitazioni se si pensa che molti modelli che ebbero un notevole successo di vendite a cavallo degli anni ’50 e ’60 replicarono lo schema del progetto di Porsche; tra questi rientra sicuramente anche la Fiat 600 e la “500” anche se va detto che il genio di Giacosa riuscì ad abbinare alla semplicità progettuale il valore di un’abitabilità eccezionale in misure di gran lunga inferiori al Maggiolino.
Nel corso degli anni il Maggiolino è indubbiamente cambiato: le esigenze dettate dall’aumento del traffico, dalla sicurezza, dal contrasto alle emissioni nocive, i ritocchi stilistici e gli adattamenti locali hanno richiesto assidui adeguamenti senza però apportare alcun stravolgimento all’impianto progettuale dell’”Auto del Popolo” che è rimasta fedele a se stessa per più di 60 anni. E per chi produce automobili potere fare affidamento sulla bontà dei propri modelli in commercio senza mettere mano ad investimenti per svilupparne di nuovi significa solo un mucchio di risorse finanziare risparmiate.
Oggi le case automobilistiche perseguono obiettivi di rinnovo della gamma dei modelli in commercio molto ravvicinati con conseguenti obblighi verso investimenti in progettazione, sperimentazione, collaudi e azioni di marketing e promozione che rischiano di compromettere i ricavi futuri. La concorrenza oggi assume sempre più caratteristiche di preferenze verso i mercati piuttosto che di effettiva corrispondenza alle esigenze dei consumatori. Le case che possiedono risorse sufficienti per competere sui mercati profittevoli e elastici continuano ad investire in innovazione e lancio di nuovi modelli. Quelle che non hanno la forza di investire rivendono il proprio know-how su mercati emergenti, più poveri e meno sensibili agli aspetti ambientali. Tuttavia nessuna casa sembra prendere in seria considerazione l’esperienza dell’Auto del Popolo, riproponendo l’utopia di un mezzo di trasporto individuale a bassissimo impatto, l’auto elettrica del popolo, per intenderci, che nasca da un progetto semplice, economico, replicabile ed esportabile.
I tempi sono maturi, su, coraggio!

Per un approfondimento sulla storia del Maggiolino: Alessandro SANNIA (2007), Maggiolino, Gribaudo

La forza della reazione