mercoledì 30 ottobre 2013

Le cacche del berlusconismo

Pensate che vent'anni di Berlusconi, ormai avviato ad un meritato tramonto, passino così, senza colpo ferire? Credete che una volta eliminato il tarlo si possa ricompattare la consistenza infracidita del nostro senso civico? Una mosca è in grado di depositare migliaia di uova che schiuderanno altrettante larve favorite anche dal contesto corrotto in cui si trovano. A chi auspica una ripresa di un confronto moderato, onesto e costruttivo nelle aule parlamentari va fatto presente che i liquami maleodoranti del malcostume hanno iniziato a contagiare molteplici aspetti della nostra esistenza. Lasciando da parte la politica, ormai diventata il tiro al bersaglio dell'indignazione e della repulsione, trascurando la cultura, l'etica e la morale che tendono sempre più a restringersi ad argomento di discussione per circoli con pochi iscritti, soffermiamoci sul mondo dell'economia e sugli strani fenomeni di visione imprenditoriale a cui, in molti casi, è possibile assistere. E non sempre è un bel vedere, soprattutto per chi non è della partita e queste nuove imprese, le deve suo malgrado, solo subire. Parliamo dei nuovi settori "trainanti" come il gioco d'azzardo, i "vendo oro", le società che si occupano di spettacoli e "casting" e che reclutano disgraziate da avviare ad altri generi di intrattenimento, le finanziarie che brucano sui protesti di imprenditori in difficoltà e gli impresari che propongono facili titoli di studio e onorificenze a chi di successo ne ha avuto troppo. Chi sono le persone che stanno dietro, nell'ufficio con la scrivania nera comprata all'Ikea, i poster dei simboli del potere alle pareti e la BMW parcheggiata in cortile? In che cosa credono? Che idea hanno dei soldi e del successo? Che cosa fanno, soprattutto, dei soldi che guadagnano? Non ci vuole molto a rispondere: fanno esattamente quello fa Berlusconi, l'unica immagine di vincente che ha imbevuto le loro esistenze. Emblematica, a questo proposito, è la figura di Mirko Rosa, cresciuto, consolidato e arricchitosi grazie ad una ramificata rete di negozi specializzati in "ritiro oro" come vengono chiamati quei negozi ormai presenti in ogni città che, dato che i tempi della corsa all'oro sono finiti da un pezzo, commutano anellini, collanine, braccialetti e spille per poche centinaia di euro. Altro che pagliuzze d'oro! Chi abita dalle parti del basso varesotto lo conosce per via delle affissioni di volgari cartelloni pubblicitari con donne discinte rivestite solo da scaglie d'oro, per le macchine di lusso cafone sfacciatamente parcheggiate davanti ai suoi negozi, cartelloni autocelebrativi dei suoi facoltosi possedimenti e dei suoi libertinaggi, con atteggiamenti offensivi e spregiudicati nei confronti di personalità religiose e politiche. Una ricchezza sbandierata, ostentata con il chiaro intento di convincere che quello che sta facendo è nell'interesse di tutti. Questo spiega il suo "impegno nel sociale" che comunica mediante offerte di improbabili taglie per facilitare la cattura di autori di fattacci di cronaca o attraverso clamorose denunce contro la giustizia rea di perseguire coloro che sono nel giusto, come lo stesso Mirko Rosa, per esempio, già oggetto di attenzioni giudiziarie per svolgimento di attività non pienamente in regola, mentre negri, extracomunitari,sbandati, gli "altri", insomma, continuano indisturbati a delinquere. "Chi vi ricorda" verrebbe da dire, parafrasando il celebre indovinello periodico della Settimana Enigmistica? E che cosa vi porta a pensare che personaggi come Mirko Rosa non generino stirpe di cotanti epigoni della sua specie? Il sistema sociale quali benefici potrà trarre da un'imprenditoria sfacciatamente portata a succhiare energie e risorse per un accumulo finalizzato solo al compiacimento personale? Pare che un comune del circondario abbia pensato di premiare l'imprenditore Mirko Rosa per via delle sue eccelse qualità di innovatore. E lui con l'immancabile bandana da pirata si è puntualmente presentato a ritirarlo. D'altra parte che Elisabetta Prima che ha fatto diventare grande l'Inghilterra si era fidata di un pirata per regnare incontrastata sui mari e di un avventuriero sciupafemmine per estendere i propri territori nel Nuovo Mondo. Mirko Rosa come Nelson eroe di Trafalgar o insignito della carica di Baronetto come Walter Relaigh? Tutto può essere. Le cacche lasciate dal berlusconismo sono come quelle di piccione. Ovunque. 


giovedì 10 ottobre 2013

Sbagliando non si impara

Ho fatto bene a leggere "Il Libro Nero della Democrazia" scritto da Furio Colombo e Antonio Padellaro uscito nel 2002. Ho fatto bene perché dovevo rafforzare in me la convinzione che non vivo affatto in un paese normale. Il libro scritto dai due giornalisti, allora in forza all'Unità, mi ha aiutato a rispolverare i piccoli grandi disastri della politica di governo berlusconiana: le sue malefatte, i soprusi e le figuracce barbine di un periodo disgraziato della nostra vita politica. In un paese normale, appunto, una persona così dopo averne combinate solo la metà di Berlusconi, sarebbe sparito dalla circolazione senza tanti complimenti. Invece - ecco perché non siamo un paese normale - ha continuato a rimanere un auge, governare (peggio di prima) per quasi altri cinque anni e influenzare negativamente la già difficoltosa ripresa dalla deriva qualunquista imperante in Italia. Tralascio anche il fatto che il periodo preso in esame da Colombo e Padellaro non coincideva con l'esordio politico di Berlusconi, dato che era già entrato in politica da almeno sei anni riuscendo pure a governare per pochi mesi. Le pessime figure a livello di politica internazionale, i tentativi di banalizzare con riforme imperniate sulla visione aziendalistica la dignità di ministri, ambasciatori e parlamentari, il fallimento morale del G8 di Genova, la protervia usata per sconfiggere e togliere di mezzo chi lo criticava a partire dai giornalisti non inquadrati tutto questo sarebbe stato comunque accettabile in un paese normale perché sbagliare, ogni tanto è possibile. Ma non nel nostro caso.  

Furio COLOMBO, Antonio PADELLARO (2002), Il Libro Nero Della Democrazia - Vivere sotto il governo Berlusconi - Baldini & Castoldi - ISBN 88-8490-263-0

mercoledì 9 ottobre 2013

Gli altri Vajont

La diga squarciata di Malpasset
Cade oggi, 9 ottobre 2013, l’anniversario rotondo di una delle più sciagurate tragedie industriali che hanno colpito il nostro Paese. Cinquant’anni fa esattamente, un piccolo paese insieme ad alcuni borghi di montagna furono spazzati da una gigantesca ondata causata dal crollo di un pezzo di montagna che precipitò dentro un lago artificiale. Da allora tante parole sono state spese, ma ancora troppo poco è stato fatto per rendere giustizia a chi perse tutto in pochi secondi. Vite e resti umani faticosamente ricomposti nel corso di decenni, uomini e donne che ostinatamente, non vogliono fare perdere al Paese il senso del loro sacrificio. Ben vengano le celebrazioni per il 50° della tragedia, ma solo se servirà a non tradire la speranza. 
Perché ci vuole molto poco a perdere la speranza, se il ricordo non è adeguatamente alimentato dal disagio e dallo sdegno di chi vuole troppo presto dimenticare. Ci sono stati altri Vajont in tempi e in luoghi non molto lontani da Longarone, ma sembrerebbe che per questi casi,  la coscienza collettiva sia stata più abile e furba a nascondersi i dietro l’oblio. E riuscire  a farla franca.
Nella valli delle montagne del Bergamasco, nel dicembre dei 1923, trent’anni esatti prima del Vajont, ma anche negli anni in cui si fanno i primi studi di fattibilità della sua diga, uno sbarramento sul fiume Gleno crolla causando la morte di 356 persone, mal contate perché è costume in questi casi, nascondere il vero conteggio di vite perdute. I motivi? Lavori di costruzione mal eseguiti con materiali scadenti (calcina al posto del cemento), varianti di progetto senza approvazione, fondamenta non adeguate, in alcuni tratti inesistenti. Eppure anche allora c’era chi denunciò la leggerezza di un’impresa che svolgeva i lavori in economia. Si fecero i controlli, ma tutto si appianò. E la diga iniziò a funzionare finché uno squarcio di 80 metri liberò 6 milioni di metri cubi d’acqua che cancellarono i paesi a valle.
Nel 1935 ci fu il disastro di Molare. Una diga costruita per irreggimentare le acque del fiume Orba che passa nella parte bassa dell’Alessandrino non riuscì a trattenere l’improvviso ingrossarsi del lago artificiale cresciuto di livello a causa di forti improvvise piogge. L’onda seguita alla tracimazione causò 111 morti e enormi danni a ponti, strade e ferrovia. Il regime minimizzò e cercò di nascondere la reale entità del disastro, ma qualcuno si impuntò è portò tecnici ed ingegneri a processo. Risultato? Tutti assolti in quanto l’evento disastroso fu imputato all'eccezionalità delle precipitazioni.
Frejus, nella Valle di Vara, dicembre del 1959, pochissimi anni prima del Vajont.  Un’altra diga collassa e provoca  421 morti. Un intero abitato, Malpasset, completamente cancellato. Le ragioni del crollo furono oggetto di un dibattimento sottile, sul filo della logica ingegneristica e il calcolo delle probabilità. Una forte dose di casualità, ma anche un progetto ambizioso che avrebbe dovuto mettere in luce le competenze e l’abilità dell’ideatore finirono sul banco degli imputati. Comunque, anche allora, di fronte ad un’immane tragedia, ci furono solo piccole responsabilità.

Gleno, Molare, Frejus, Vajont sono quattro tragiche storie di acqua, fango e distruzione. Ognuna con le proprie colpe, nate da diverse ambizioni e da un legittimo bisogno di sicurezza: la disponibilità di forza motrice per mandare avanti le industrie a valle, l’acqua per irrigare i campi, l’acqua da bere. Ma troppo spesso, quattro volte nel volgere di  quarant’anni, la bramosia ha sopraffatto il bisogno, l’interesse personale è sopravanzato alla tutela della comunità, l’esercizio del controllo si è inchinato all’interesse economico. E la giustizia non ha mai fatto il suo corso fino in fondo, sicura che gli anni avrebbero reso lieve il dolore e lo sgomento. Forse per il Vajont non sarà cosi.   
Per approfondimenti: 





martedì 1 ottobre 2013

Ladies and gentlemen captain speaking

Guardate la faccia di quest'uomo. Guardate la sua faccia e ditemi se non vi ricorda un etrusco o un senatore dell'antica Roma. Uno così potrebbe essere stato un compagno di Enea, coraggioso e scaltro, valoroso guerriero animato da un imperioso istinto di sopravvivenza. Aveva sicuramente i suoi lineamenti il luogotenente più affidabile di Giulio Cesare, l'illustre sconosciuto artefice delle sue vittoriose campagne militari. Ma poteva essere un tenace console in Dacia, un soldato di ventura, un temerario comandante di una nave della flotta pisana, un visionario architetto rinascimentale. Perché quest'uomo rappresenta l'Italia e tutto quello che abbiamo di buono e di valore. Questa volta la faccia dell'uomo della Magna Grecia si è trasfigurato nel pilota dell'Alitalia che ha portato a terra un aereo zoppo di un carrello senza scalfire un'unghia ad alcuno. Potete essere certi che quanto in Italia si fa qualche cosa di buono, c'e sicuramente uno con la faccia del comandante Bruno D'Agata.

La forza della reazione