La diga squarciata di Malpasset |
Cade oggi, 9 ottobre 2013, l’anniversario
rotondo di una delle più sciagurate tragedie industriali che hanno colpito il
nostro Paese. Cinquant’anni fa esattamente, un piccolo paese insieme ad alcuni
borghi di montagna furono spazzati da una gigantesca ondata causata dal crollo
di un pezzo di montagna che precipitò dentro un lago artificiale. Da allora
tante parole sono state spese, ma ancora troppo poco è stato fatto per rendere
giustizia a chi perse tutto in pochi secondi. Vite e resti umani faticosamente
ricomposti nel corso di decenni, uomini e donne che ostinatamente, non vogliono
fare perdere al Paese il senso del loro sacrificio. Ben vengano le celebrazioni
per il 50° della tragedia, ma solo se servirà a non tradire la speranza.
Perché ci vuole molto poco a
perdere la speranza, se il ricordo non è adeguatamente alimentato dal disagio e
dallo sdegno di chi vuole troppo presto dimenticare. Ci sono stati altri Vajont
in tempi e in luoghi non molto lontani da Longarone, ma sembrerebbe che per questi casi, la
coscienza collettiva sia stata più abile e furba a nascondersi i dietro l’oblio.
E riuscire a farla franca.
Nella valli delle montagne del
Bergamasco, nel dicembre dei 1923, trent’anni esatti prima del Vajont, ma anche
negli anni in cui si fanno i primi studi di fattibilità della sua diga, uno
sbarramento sul fiume Gleno crolla causando la morte di 356 persone, mal
contate perché è costume in questi casi, nascondere il vero conteggio di vite
perdute. I motivi? Lavori di costruzione mal eseguiti con materiali scadenti
(calcina al posto del cemento), varianti di progetto senza approvazione,
fondamenta non adeguate, in alcuni tratti inesistenti. Eppure anche allora c’era
chi denunciò la leggerezza di un’impresa che svolgeva i lavori in economia. Si
fecero i controlli, ma tutto si appianò. E la diga iniziò a funzionare finché
uno squarcio di 80 metri liberò 6 milioni di metri cubi d’acqua che
cancellarono i paesi a valle.
Nel 1935 ci fu il disastro di
Molare. Una diga costruita per irreggimentare le acque del fiume Orba che passa
nella parte bassa dell’Alessandrino non riuscì a trattenere l’improvviso
ingrossarsi del lago artificiale cresciuto di livello a causa di forti improvvise
piogge. L’onda seguita alla tracimazione causò 111 morti e enormi danni a
ponti, strade e ferrovia. Il regime minimizzò e cercò di nascondere la reale
entità del disastro, ma qualcuno si impuntò è portò tecnici ed ingegneri a
processo. Risultato? Tutti assolti in quanto l’evento disastroso fu imputato
all'eccezionalità delle precipitazioni.
Frejus, nella Valle di Vara,
dicembre del 1959, pochissimi anni prima del Vajont. Un’altra diga collassa e provoca 421 morti. Un intero abitato, Malpasset,
completamente cancellato. Le ragioni del crollo furono oggetto di un
dibattimento sottile, sul filo della logica ingegneristica e il calcolo delle
probabilità. Una forte dose di casualità, ma anche un progetto ambizioso che
avrebbe dovuto mettere in luce le competenze e l’abilità dell’ideatore finirono
sul banco degli imputati. Comunque, anche allora, di fronte ad un’immane
tragedia, ci furono solo piccole responsabilità.
Gleno, Molare, Frejus, Vajont
sono quattro tragiche storie di acqua, fango e distruzione. Ognuna con le
proprie colpe, nate da diverse ambizioni e da un legittimo bisogno di
sicurezza: la disponibilità di forza motrice per mandare avanti le industrie a
valle, l’acqua per irrigare i campi, l’acqua da bere. Ma troppo spesso, quattro
volte nel volgere di quarant’anni, la
bramosia ha sopraffatto il bisogno, l’interesse personale è sopravanzato alla
tutela della comunità, l’esercizio del controllo si è inchinato all’interesse
economico. E la giustizia non ha mai fatto il suo corso fino in fondo, sicura
che gli anni avrebbero reso lieve il dolore e lo sgomento. Forse per il Vajont
non sarà cosi.
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