mercoledì 9 ottobre 2013

Gli altri Vajont

La diga squarciata di Malpasset
Cade oggi, 9 ottobre 2013, l’anniversario rotondo di una delle più sciagurate tragedie industriali che hanno colpito il nostro Paese. Cinquant’anni fa esattamente, un piccolo paese insieme ad alcuni borghi di montagna furono spazzati da una gigantesca ondata causata dal crollo di un pezzo di montagna che precipitò dentro un lago artificiale. Da allora tante parole sono state spese, ma ancora troppo poco è stato fatto per rendere giustizia a chi perse tutto in pochi secondi. Vite e resti umani faticosamente ricomposti nel corso di decenni, uomini e donne che ostinatamente, non vogliono fare perdere al Paese il senso del loro sacrificio. Ben vengano le celebrazioni per il 50° della tragedia, ma solo se servirà a non tradire la speranza. 
Perché ci vuole molto poco a perdere la speranza, se il ricordo non è adeguatamente alimentato dal disagio e dallo sdegno di chi vuole troppo presto dimenticare. Ci sono stati altri Vajont in tempi e in luoghi non molto lontani da Longarone, ma sembrerebbe che per questi casi,  la coscienza collettiva sia stata più abile e furba a nascondersi i dietro l’oblio. E riuscire  a farla franca.
Nella valli delle montagne del Bergamasco, nel dicembre dei 1923, trent’anni esatti prima del Vajont, ma anche negli anni in cui si fanno i primi studi di fattibilità della sua diga, uno sbarramento sul fiume Gleno crolla causando la morte di 356 persone, mal contate perché è costume in questi casi, nascondere il vero conteggio di vite perdute. I motivi? Lavori di costruzione mal eseguiti con materiali scadenti (calcina al posto del cemento), varianti di progetto senza approvazione, fondamenta non adeguate, in alcuni tratti inesistenti. Eppure anche allora c’era chi denunciò la leggerezza di un’impresa che svolgeva i lavori in economia. Si fecero i controlli, ma tutto si appianò. E la diga iniziò a funzionare finché uno squarcio di 80 metri liberò 6 milioni di metri cubi d’acqua che cancellarono i paesi a valle.
Nel 1935 ci fu il disastro di Molare. Una diga costruita per irreggimentare le acque del fiume Orba che passa nella parte bassa dell’Alessandrino non riuscì a trattenere l’improvviso ingrossarsi del lago artificiale cresciuto di livello a causa di forti improvvise piogge. L’onda seguita alla tracimazione causò 111 morti e enormi danni a ponti, strade e ferrovia. Il regime minimizzò e cercò di nascondere la reale entità del disastro, ma qualcuno si impuntò è portò tecnici ed ingegneri a processo. Risultato? Tutti assolti in quanto l’evento disastroso fu imputato all'eccezionalità delle precipitazioni.
Frejus, nella Valle di Vara, dicembre del 1959, pochissimi anni prima del Vajont.  Un’altra diga collassa e provoca  421 morti. Un intero abitato, Malpasset, completamente cancellato. Le ragioni del crollo furono oggetto di un dibattimento sottile, sul filo della logica ingegneristica e il calcolo delle probabilità. Una forte dose di casualità, ma anche un progetto ambizioso che avrebbe dovuto mettere in luce le competenze e l’abilità dell’ideatore finirono sul banco degli imputati. Comunque, anche allora, di fronte ad un’immane tragedia, ci furono solo piccole responsabilità.

Gleno, Molare, Frejus, Vajont sono quattro tragiche storie di acqua, fango e distruzione. Ognuna con le proprie colpe, nate da diverse ambizioni e da un legittimo bisogno di sicurezza: la disponibilità di forza motrice per mandare avanti le industrie a valle, l’acqua per irrigare i campi, l’acqua da bere. Ma troppo spesso, quattro volte nel volgere di  quarant’anni, la bramosia ha sopraffatto il bisogno, l’interesse personale è sopravanzato alla tutela della comunità, l’esercizio del controllo si è inchinato all’interesse economico. E la giustizia non ha mai fatto il suo corso fino in fondo, sicura che gli anni avrebbero reso lieve il dolore e lo sgomento. Forse per il Vajont non sarà cosi.   
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