mercoledì 26 dicembre 2012

Viaggiare e scrivere l'America


L’America è un paese molto grande. Con la fortuna di avere tante strade. Comode, ben tenute e con tante stazioni di servizio. Con una qualsiasi automobile in grado di macinare chilometri, nel giro di qualche ora si può passare dall’inverno all’estate, semplicemente guidando avendo solo l’accortezza di diminuire il riscaldamento man mano che si scende verso sud. Questo è un particolare non da poco dato che non ci sono molti altri posti dove questo è possibile. Ecco perché in questo Paese la letteratura "on the road" è proliferata suscitando tanto entusiasmo  presso intere generazioni. Intraprendere un viaggio Oltreoceano con o senza una meta prefissata non è stato, beninteso, appannaggio solo delle recenti generazioni motorizzate. Il viaggio di scoperta era iniziato molto prima. Sicuramente uno dei più celebrati (e citati) è stato quello di Alexis de Tocqueville che nel pieno del XIX secolo partì alla scoperta degli Stati Uniti prendendo spunto da una sua personale curiosità sul sistema carcerario di quel Paese, forse presagendo che il tumultuoso sviluppo del Paese grazie al contributo delle orde di milioni di immigrati destinati a sbarcare nel giro di qualche decennio non sarebbe stato possibile senza un rigido sistema punitivo. Ed è sempre un altro francese, un filosofo questa volta che, a distanza di qualche decennio,  decide di ripercorrere le orme del connazionale andando a rivisitare i più agghiaccianti luoghi di detenzione Americani per sottolineare l’enorme differenza di pensiero che incide sul sistema giudiziario di questo Paese che tollera l’agonia del braccio della morte rispetto a quello dei Paesi europei occidentali. Del libro di Bernard-Henri-Lévy abbiamo già parlato in questo blog. Per rimanere sul tema degli Europei che hanno scoperto l’America prima dell’era dell’automobile è giusto ricordare anche Giacomo Agostino Beltrami,  bergamasco , che a seguito di , a suo dire, una profonda delusione amorosa, ma più probabilmente per un profondo animo intriso di avventura, decide di partire per il grande continente americano trovandosi, praticamente senza volerlo a scoprire le fonti del Mississippi, anche se in seguito si scopri che proprio le fonti principali non sono. Ma pur sempre una bell’impresa per un bergamasco deluso. E non solo. E’ opera sua il primo dizionario scritto per la comprensione dell’idioma delle popolazioni indiane che popolavano il grande fiume americano. Nessuno prima di lui e pochi altri dopo di lui. E pensare che in patria, dove è tornato da vecchio per morire, sono in pochi a conoscerlo. Un altro italiano, contemporaneo nostro questa volta, Mario Maffi, ci racconterà del grande fiume. Ovviamente non tralascerà di raccontarci dei meriti del nostro conterraneo, ma ci accompagnerà in un viaggio lungo e disperato alle ricerca delle immagini di un’America che ancora, ostinatamente, continua a sognare lungo questo fiume che più che favorire l’avverarsi dei desideri, molto spesso li trasforma in incubi. Nel biennio 1952/53 uno scrittore italiano, Guido Piovene raccontò l’America all’Italietta che usciva dalla guerra e che gli americani ce li aveva ancora in casa. Il De America è un libro che andrebbe letto e riletto (e ristampato visto che è adesso introvabile) perché parla dell’America senza nessun timore reverenziale, con la curiosità dello scettico che vuole vedere fino a che punto si può spingere un popolo  che non da credito alla cultura, se non a quella fattiva delle grandi imprese della tecnica e della scienza. E’ in quegli anni di progressi la scienza ne stava facendo tanti, soprattutto negli Stati Uniti . Nel libro di Piovene i neri sono ancora i “negri”, ma alcune riflessioni sui problemi dell’integrazione  avrebbero potuto tranquillamente fare prevedere l’elezione, un giorno, di un presidente nero. Se agli europei piace il viaggio per la scoperta della differenza, delle ricerca dell’esorbitante e dell’anomalo, per porsi poi sempre con l’atteggiamento derisorio di chi pensa che la cultura sia un altro tipo di cosa, per gli americani la scoperta del proprio Paese ha molto di esistenziale. Il viaggio porta allo svelamento delle debolezze del proprio essere, alla scoperta dei propri fallimenti. Che inevitabilmente contribuiscono a porsi molte domande sul perché il mondo continui a consideralo il migliore modello di sviluppo. Significativo, a questo proposito il libro di Richard Grant che ha seguito i flussi dei nomadi americani per scoprire l’essenza del loro peregrinare su mezzi di fortuna scoprendo che magari un barbone americano viaggia per duemila chilometri approfittando di treni e camion solo perché a Seattle il mercoledì un determinato bar offre un caffè caldo ai disperati. È un libro molto forte scritto da chi ha dovuto calarsi nella parte per evitare di cadere nel pietismo verso un fenomeno che negli Stati Uniti ha dimensioni enormi. Un altro scrittore, americano, Bill Bryson ci porta invece alla scoperta dell’America Perduta, un viaggio alla ricerca delle reliquie dell’intraprendenza americana e dei suoi fallimenti. Che veri fallimenti non sono mai. I parchi di divertimento abbandonati alla ruggine, i grandi alberghi del Vermont e del New Hampshire inghiottiti dalla foreste, le miniere di antracite che bruciano senza sosta, centri di ricerca e basi aeronautiche abbandonate a se stesse sono lo specchio di una concezione di impresa che contempla solo il successo e il profitto fino al momento in cui un’altra possibilità, più ricca, più nuova e più profittevole soppianterà quella in corso. Esemplare, a questo proposito, quello che ci racconta Jonathan Raban un giornalista scrittore inglese, trapiantato nello stato di Washington che scopre la grande truffa di cui furono vittime molti agricoltori del fertile mid-west i quali, attratti dal miraggio della proprietà terriera si riversarono nel lontano Montana, terra maledetta, arida e ingenerosa che fu prodiga solo con pochi resistenti e tenaci, lasciando nell’oblio migliaia di disperati. Bad Land è un racconto di speranze e di miserie, che prende spunto da vicende vere, simili a quelle raccontate da Steinbeck in Furore, per molti anni dimenticate come le case cadenti abbandonate in mezzo alla polvere delle praterie. Ma è Il viaggio per il viaggio, alla Kerouac, per intenderci, quello che stimola maggiormente l’irrefrenabile voglia di scrivere e di non fermarsi mai. Come William Least-Heat Moon che scoprendo di avere perso il lavoro praticamente nello stesso giorno in cui viene abbandonato dalla moglie decide di caricare un sacco a pelo sul suo malconcio furgone partire alla ricerca dell’America delle strade secondarie, le strade che sulle cartine stradali di una volta venivano segnate in blu. Strade blu è la vita di un disperato che si snoda per l’America delle periferie, dei paesi fantasma che pullulano di anime tormentate ed insoddisfatte. Un viaggio circolare che tocca tutte le principali aree demografiche dell’America (Centro, il Sud, le Montagne Rocciose e le grandi pianure) raccontato in un libro di grande impatto emotivo che ci riporta all’America comunque confortevole e conciliante degli anni antecedenti alla liberalizzazione di Reagan. Più inquietante e con un lieto fine mancato è invece il racconto di Jon Krakauer che ci racconta per interposta persona il peregrinare di un adolescente che di fronte ad un avvenire di sicuro successo decide, alle soglie della maturità di girare da vagabondo per gli Stati Uniti vivendo di stenti e di espedienti per assaporare la libertà assoluta che il suo animo tormentato desiderava. Per andare incontro ad una misera e triste fine all’inizio della madre delle sue avventure, la scoperta e la conquista dell’Alaska, l’ultima frontiera della grande avventura dell’America.  

Bibliografia: 
Luigi GRASSIA (2002), Un Italiano tra Napoleone e i Sioux. Giacomo Agostino Beltrami, il patriota, l'esploratore, il letterato, Il Minotauro - ISBN 88-8073-069-X;
Mario MAFFI (2004), Mississipi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell'America, Rizzoli - ISBN 88-17-87174-5;
Guido PIOVENE (1953), De America, Garzanti;
Richard GRANT (2003), Senza mai fermarsi. Viaggio con i nomadi americani, Neri Pozza - ISBN 88-7305-937-6;
Bill BRYSON (2002), America perduta. In viaggio attraverso gli Usa, Feltrinelli - ISBN 88-87-108100-7;
Jonathan RABAN (1998),Bad  Land. Una favola americana, Einaudi - ISBN 88-06-14572-X;
William LEAST-HEAT MOON (1989), Strade Blu, Einaudi - ISBN 88-06-11606-1;
Jon KRAKAUER (2008), Nelle terre estreme. Un viaggio nella natura alla ricerca della libertà assoluta. Una storia vera, Corbaccio - ISBN 88-7972-925-3

giovedì 20 dicembre 2012

Le rinunce oculate

L''ultimo rapporto Censis sui consumi ha messo in evidenza le nuove tendenze in atto nella società italiana per quanto riguarda le scelte di acquisto. Su tutte una cosa è certa: i bei tempi delle spese d'impulso, del bene voluttuario che primeggia su tutto, insomma, dello shopping fine a se stesso, è finito. Si mettano il cuore in pace i soloni che continuano ad auspicare il ritorno dell'ottimismo e della fiducia dei consumatori per uscire dalle spirali della crisi. Qualcosa si è rotto, meglio sarebbe dire, si è finalmente aggiustato: nuovi modelli di vita si stanno affermando e inevitabilmente si fanno promotori di nuovi modelli di comportamento.E per una volta non è  la moda ad affermarsi, quella parola magica che ha fatto la fortuna dell'effimero (e anche dell'Italia, con i risultati che sappiamo), ma sono i modi a prendere il sopravvento: nuovi modi di viaggiare, di spostarsi, di divertirsi, di pensare al futuro proprio e dei propri figli. Giuseppe De Rita, lo storico direttore del Censis parla di arbitraggio dei consumi, ovvero la maggiore consapevolezza di spendere per ottenere il giusto necessario per vivere bene. Oggi non si rinuncia certo a vivere e mangiare, ma si fa a meno all'abbigliamento di marca in quanto non richiama più il benessere. Così è per le vacanze, gli spostamenti, le scelte per i figli. La fine del marketing? No, non esageriamo. Piuttosto un'opportunità per farsi una nuova. vita. 

mercoledì 19 dicembre 2012

Ritardi ed emergenze


E’ possibile che il sistema ferroviario locale di una regione come la Lombardia collassi per colpa di un software che non funziona come dovrebbe? Si è possibile. Anche se non dovrebbe mai accadere l’evento non è per nulla scongiurabile.
Quello che non dovrebbe succedere è che i malfunzionamenti e i disagi cagionati dal guasto si protraggano per giorni e giorni prima che la normalità venga ristabilita. Chi viaggia in treno in questi giorni avrà vissuto una delle più bizzarre situazioni di caos ferroviario mai sperimentate in anni di vita da pendolare: treni che sparivano letteralmente dai cartelloni elettronici, manco fossero transitati vicino al triangolo delle Bermuda, ritardi scellerati, annunci contrastanti e assoluta inettitudine del personale a gestire la situazione.
Per colpa di un software, nuovo fra l’altro,  che improvvisamente non funziona più.
Perché deve colpire la nostra immaginazione il fatto che non si sappia gestire una serie di anomalie causate da un software che, a quanto pare, funziona egregiamente in tutta Europa? In primo luogo perché un black-out nei trasporti come quello che ha rischiato di paralizzare per più di una settimana buona parte della Lombardia è un delitto di gravità inaudita e come sempre stenterà a trovare dei colpevoli, ma anche perché mette in luce una grave lacuna delle modalità di gestione di un servizio critico come i trasporti pubblici: la capacità di gestire in modo razionale e programmato un’emergenza.
All’avvicinarsi della fatidica scadenza dell’anno 2000 aziende, enti, istituzioni e governi impegnarono risorse elevatissime per scongiurare un blocco dei sistemi informativi e relativi servizi annessi qualora i software non riconoscessero un anno con tre zeri. Si parlò allora, anche in Italia di contingency plan e recovery plan. Che fecero la fortuna di molti consulenti d’azienda che scovarono il modo di pompare una sensazione di precarietà e guadagnare con piani di intervento per gestire i supposti cataclismi di sistemi telefonici che si sarebbero potuti ammutolire, comunicazioni radio disattivate, porte blindate collegate ad allarmi che improvvisamente si sarebbero spalancate e altri nequizie del genere. Ovviamente nulla di tutto questo successe, neppure a livello del semplice computer di casa. Però fu una bella esperienza. Soprattutto in Italia. Molte aziende multinazionali attivarono piani di intervento presso le proprie sussidiarie sparse per il mondo richiedendo al management locale di redigere due documenti fondamentali, l’ossatura portante di qualsiasi situazione di crisi: il contingency plan, ovvero che cosa fare per gestire un’emergenza come la mancanza di energia elettrica, l’interruzione di un flusso di informazioni, il crollo di un ponte, un terremoto, un avvicendamento di governo poco favorevole e via dicendo e che cosa fare per tornare ad una situazione di normalità, il recovery plan. Per noi italiani fu una significativa esperienza scoprire che con una certa percentuale di pragmatismo anglosassone, una buona dose di capacità di analisi teutonica e una valida base organizzativa di stampo francese avremmo potuto ottenere una tenore di sicurezza lievemente maggiore dello strofinamento del cornetto. Peccato che fu un esercizio che non generò buoni frutti. Almeno presso le tre aziende che gestiscono il traffico pendolare in Lombardia: Trenitalia, Ferrovie Nord e Trenord, neonata dal connubio delle prime due che vuole crescere senza tenere conto delle tare ereditate dai genitori.
Ai fini pratici una situazione simile a quella vissuta dai pendolari lombardi si sarebbe dovuta gestire ripristinando in tempi brevissimi il vecchio software e ripristinare il nuovo in un conteso protetto, senza fare patire ulteriori disagi ai viaggiatori. Parrebbe invece che ci si sia accaniti per cercare di fare ripartire il nuovo senza contare i disagi che avrebbe causato. Tanto nessuno paga. E a proposito di pagare, un inciso sugli stipendi spesso giudicati esagerati dei manager delle aziende di trasporto di interesse pubblico: se tra i compiti rientra anche la gestione di situazioni di emergenza anche lo stipendio più alto è da considerarsi un giusto indennizzo per la responsabilità assunta. Altrimenti sono immeritati o si è riposta fiducia su persone, scusate, incapaci.

La forza della reazione