sabato 19 giugno 2010

La Bicicletta. Quanta vergogna su quelle due ruote!

"Vietato introdurre biciclette nel cortile interno". Avvisi come questi sono, purtroppo, ancora frequenti in molti palazzi di "città", dove un'emergente borghesia reclamava il diritto ad una discriminazione positiva tra chi poteva affermare il proprio benessere e chi ancora si arrabattava tra le rovine del dopoguerra e le costrizioni di una grama esistenza rurale.
Da un certo punto di vista l'arretratezza strutturale accumulata dall'Italia nei riguardi di un sistema di mobilità collettiva realmente efficiente deriva anche dall'incapacità a guardare ai mezzi di trasporto collettivi ed individuali e a basso costo, senza percepire le ferite e le umiliazioni di una non remota esistenza di stenti, fatiche e privazioni alla quale si è tentato di apportare una mano di vernice attraverso il ricorso sfrenato all'utilizzo del mezzo privato a motore, per anni l'unico intoccabile feticcio di un supposto sviluppo di benessere.
Per sistema di trasporto efficace e a basso costo intendo una rete intermodale che unisca la mobilità personale (piedi, bicicletta) a mezzi collettivi (treni, tram e metropolitane) in grado di rivaleggiare per aspetti di praticità, tempi di percorrenza e convenienza economica con lo strapotere dell'automobile.
A partire dalla metà degli anni '50 ai primi anni '70, in nome dell'efficienza e della razionalizzazione sono state soppresse decine di linee ferroviarie locali, sostituite da autolinee a motore che hanno aggiunto traffico all'inadeguata rete stradale dell'epoca. E' curioso che la vicina Svizzera abbia sempre tenuto in piena efficienza la rete ferroviaria locale nella sua interezza, valorizzando il patrimonio di linee e rotabili anche per fini turistici e storico-culturali e, soprattutto, rendendo obbligata la scelta del treno per raggiungere molte località turistiche. Sconcerta che la Svizzera abbia tenuto in funzione non solo la rete, ma anche tutte le strutture collegabili al trasporto ferroviario; per esempio anche la più piccola stazione ha il suo scalo merci funzionante al servizio di una rete di trasporto dedicato alle merci che fornisce un notevole sollievo al traffico di mezzi commerciali sulle strade. In Italia gli scali merci sono ruderi pericolanti invasi da erbacce e lo stato delle nostre strade è sotto gli occhi di tutti.
E' risaputo che le autorità governative ed amministrative che per decenni hanno regolato lo sviluppo del Paese abbiano avuto un atteggiamento gianobifrontista nel determinare scelte che favorissero veramente la mobilità a basso costo e la piaggeria al cospetto della voracità dei potentati dell'industria automobilistica. E' tuttavia assai incomprensibile come questo atteggiamento permanga ancora oggi quando l'industria automobilistica nazionale non sia più così pervasiva e abbia rivolto gli sguardi verso altri ambiti di potere ed influenza.
Non dovrebbe stupire che nel Paese che ha sconsideratamente concesso auto blu a migliaia di "nullapotenti" (indissolubile è il binomio tra l’essere arrivati e spostarsi su 4 ruote) e che immancabilmente si titubi nel sottrargliele a pieno titolo, si continuino a costruire strade ed autostrade che puntualmente verranno saturate di automobili, che gli unici investimenti in infrastrutture ferroviarie riguardino solo linee ad alta velocità e ad alto costo che sottraggono investimenti e risorse alla mobilità dei fatidici "40 km" che è il raggio di spostamento che coinvolge la maggioranza dei cittadini italiani che si muovono per motivi di studio e lavoro con regolare frequenza e su tratte definite. Colpisce l'attenzione il fatto che nelle grandi e medie città si prolunghino discussioni che perennemente portano ad un nulla di fatto sulle piste ciclabili, l'investimento più contenuto per migliorare la vita ai cittadini e evitare gli oneri milionari di nuove strade e di nuovi parcheggi.
La diffidenza nella bicicletta ha radici antiche e non ci si è messi d'impegno per eliminarla come hanno fatto invece molti altri Paesi in Europa. A maggiore ragione oggi che la povertà di un tempo si sta riaffacciando, la bicicletta con la sua immagine austera, nera di fuliggine in qualche periferia industriale, delle tute blu e delle strade di campagna costellate di pozzanghere, torna a fare paura e evocare fantasmi. Forse è il caso di guarire.
Per concludere: Mauro Corona racconta, in uno dei suoi libri, gli epici spostamenti del nonno che dopo il forzato inverno dedicato alla creazione di manufatti in legno, partiva in bicicletta dalla valle del Vajont alla volta delle città dell’ovest industriale per vendere i suoi mestoli e i suoi cucchiai. Un lungo spostamento fatto di libertà, osterie, fame e sete, pioggia e sole, notti all’addiaccio e accessi negati ai cortili dei palazzi delle città. Un ricordo antico di un bambino che ha vissuto per molti anni nella paura e nell’incertezza. Un ricordo, non una paura.

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