Marchionne non sta suscitando
molte simpatie in questo momento. Adesso anche gli imprenditori italiani si sono uniti
al coro delle rimostranze nei suo confronti accusandolo di una politica
industriale di rapina e di opportunismo. Le antipatie nei suoi confronti hanno
origine lontana e non ricadono interamente su di lui e sulle sue spregiudicate
azioni e dichiarazioni. Il germe dell’antipatia nazionale verso la Fiat è sorta
sin dai tempi in cui in Italia automobile faceva rima con Agnelli, famiglia di imprenditori che da tali
facevano quello che altri imprenditori vorrebbero fare adesso: andarsene
o chiedere aiuti allo Stato per rimanere. L’avvocato Giovanni Agnelli era un
abile uomo d’affari e la sua azienda ha contribuito con l’estro, la genialità e
le capacità di ottimi ingegneri e tecnici a costruire modelli che hanno
tracciato il solco per lo sviluppo dell’automobile. Purtroppo l’”Avvocato” ha
perseverato in un errore, ovvero cercare di convincere gli italiani a comprare
le sue macchine, quando agli italiani le sue macchine non interessavano più:
non per esterofilia, come si è portati a pensare, ma per una crescente ostilità
nei confronti della sua progenie.
Se vent’anni fa ai vertici
dell’azienda di Torino fosse asceso un manager senza storia e legami affettivi
come quello attuale, la Fiat avrebbe tolto il disturbo da tempo dislocando
impianti e competenze al di fuori dell’Italia e forse anche dell’Europa. Ma
questo non è successo e per altri vent’anni l’azienda in perenne stato di crisi
ha vivacchiato sulle spalle dei contribuenti acuendone l’acrimonia nei suoi
confronti, del marchio e degli stessi Agnelli rei di essere solo in grado di
chiedere aiuto in tempi di ristrettezze e accumulare fortune in tempi di vacche
grasse.
In realtà nulla è diverso da
quanto accade adesso: gli imprenditori chiedono aiuti. Chi non li ottiene va
all’estero. Chi non li ottiene e non può andare all’estero, chiude. Oggi lo Stato
non è più in grado di fornire sussidi, neppure in modo selettivo discriminando
in base alle priorità o alle criticità.
La Fiat corre con l’affanno di un
mercato stanco sotto gli sguardi di rimprovero di consumatori che ormai
diffidano di tutto quello che gli viene proposto. Ovvio che non esistano più i
presupposti per rimanere, soprattutto quando mercati emergenti sono ben
disposti a recepire livelli di produzione tali da giustificare impianti
produttivi che abbiano un minimo di senso.
Se però Marchionne (e i suoi
aspiranti epigoni) se ne vanno, lo Stato, anzi gli Stati, in questo caso, non rimangono immuni da colpe. L’incapacità
subordinare i sussidi ad imposizioni di rinnovamento tecnologico ha di fatto
contribuito a fare avvitare il mercato dell’auto su se stesso. In Europa sono
basate le principali industrie automobilistiche del mondo con ottimi centri
studio e ricerche, ottimi ingegneri, tecnici e meccanici. Se i Governi avessero
subordinato la concessione di aiuti in cambio di un serio impegno verso il
rinnovamento dell’attuale tecnologia energivora a favore di modalità di
trasporto più equilibrate oggi le cose sarebbero molto diverse. I sussidi dello governo avrebbero potuto essere investimenti per il futuro e a beneficiarne sarebbero
stati i cittadini, i lavoratori, gli industriali e, in ultima istanza, lo Stato stesso. Eppure, sebbene il destino dell’auto fosse segnato da tempo si è voluto
rimandare la morte di un settore che oggi non ha futuro. E il presente è fatto
di auto che inquinano, vendite che ristagnano, fabbriche che chiudono e
personale che resta a casa. Se ci fosse
stato un impegno congiunto di tutti gli Stati Europei a favore di mezzi di
locomozione a basso impatto, oggi i problemi di inquinamento di molte città
sarebbero solo un brutto ricordo, il problema del costo della benzina una
preoccupazione relativa solo alle finanze di magnati appassionati di corse. Eppure venti anni fa Fiat ha ceduto ai francesi la divisione
ferroviaria senza che il governo di allora muovesse un dito per evitare che esperienze e tecnologie utili per la modernizzazione dei trasporti italiani andasse in mano
straniera. Oggi gli imprenditori che hanno puntato sull’auto elettrica stentano ad
affermare i propri prodotti e tecnologie a perché il sostegno al settore è
ancora troppo timido ed impacciato.
Gli italiani
vorrebbero insegnare a Marchionne come si fa ad essere imprenditori con ben chiari i parametri etici della categoria come il mantenimento dei posti di lavoro, la creazione di nuovi, lo sviluppo dell’industria
Italiana, la garanzia di investimenti e la lo loro continuità. La classe dirigente italiana, ancora una volta, chiama in causa la più grande industria italiana a fare da paravento alla propria mediocrità e assoluta incapacità di porsi veri e concreti obiettivi di rinnovamento.
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