lunedì 8 ottobre 2012

La rabbia e i limiti degli imprenditori italiani



Marchionne non sta suscitando molte simpatie in questo momento. Adesso  anche gli imprenditori italiani si sono uniti al coro delle rimostranze nei suo confronti accusandolo di una politica industriale di rapina e di opportunismo. Le antipatie nei suoi confronti hanno origine lontana e non ricadono interamente su di lui e sulle sue spregiudicate azioni e dichiarazioni. Il germe dell’antipatia nazionale verso la Fiat è sorta sin dai tempi  in cui in Italia automobile faceva rima con Agnelli, famiglia di imprenditori che da tali facevano quello che altri imprenditori vorrebbero fare adesso: andarsene o chiedere aiuti allo Stato per rimanere. L’avvocato Giovanni Agnelli era un abile uomo d’affari e la sua azienda ha contribuito con l’estro, la genialità e le capacità di ottimi ingegneri e tecnici a costruire modelli che hanno tracciato il solco per lo sviluppo dell’automobile. Purtroppo l’”Avvocato” ha perseverato in un errore, ovvero cercare di convincere gli italiani a comprare le sue macchine, quando agli italiani le sue macchine non interessavano più: non per esterofilia, come si è portati a pensare, ma per una crescente ostilità nei confronti della sua progenie.
Se vent’anni fa ai vertici dell’azienda di Torino fosse asceso un manager senza storia e legami affettivi come quello attuale, la Fiat avrebbe tolto il disturbo da tempo dislocando impianti e competenze al di fuori dell’Italia e forse anche dell’Europa. Ma questo non è successo e per altri vent’anni l’azienda in perenne stato di crisi ha vivacchiato sulle spalle dei contribuenti acuendone l’acrimonia nei suoi confronti, del marchio e degli stessi Agnelli rei di essere solo in grado di chiedere aiuto in tempi di ristrettezze e accumulare fortune in tempi di vacche grasse.
In realtà nulla è diverso da quanto accade adesso: gli imprenditori chiedono aiuti. Chi non li ottiene va all’estero. Chi non li ottiene e non può andare all’estero, chiude. Oggi lo Stato non è più in grado di fornire sussidi, neppure in modo selettivo discriminando in base alle priorità o alle criticità.
La Fiat corre con l’affanno di un mercato stanco sotto gli sguardi di rimprovero di consumatori che ormai diffidano di tutto quello che gli viene proposto. Ovvio che non esistano più i presupposti per rimanere, soprattutto quando mercati emergenti sono ben disposti a recepire livelli di produzione tali da giustificare impianti produttivi che abbiano un minimo di senso.
Se però Marchionne (e i suoi aspiranti epigoni) se ne vanno, lo Stato, anzi gli Stati, in questo caso,  non rimangono immuni da colpe. L’incapacità subordinare i sussidi ad imposizioni di rinnovamento tecnologico ha di fatto contribuito a fare avvitare il mercato dell’auto su se stesso. In Europa sono basate le principali industrie automobilistiche del mondo con ottimi centri studio e ricerche, ottimi ingegneri, tecnici e meccanici. Se i Governi avessero subordinato la concessione di aiuti in cambio di un serio impegno verso il rinnovamento dell’attuale tecnologia energivora a favore di modalità di trasporto più equilibrate oggi le cose sarebbero molto diverse. I sussidi dello governo avrebbero potuto essere investimenti per il futuro e a beneficiarne sarebbero stati i cittadini, i lavoratori, gli industriali e, in ultima istanza, lo Stato stesso. Eppure, sebbene il destino dell’auto fosse segnato da tempo si è voluto rimandare la morte di un settore che oggi non ha futuro. E il presente è fatto di auto che inquinano, vendite che ristagnano, fabbriche che chiudono e personale che resta a casa.  Se ci fosse stato un impegno congiunto di tutti gli Stati Europei a favore di mezzi di locomozione a basso impatto, oggi i problemi di inquinamento di molte città sarebbero solo un brutto ricordo, il problema del costo della benzina una preoccupazione relativa solo alle finanze di magnati appassionati di corse. Eppure venti anni fa Fiat ha ceduto ai francesi la divisione ferroviaria senza che il governo di allora muovesse un dito per evitare che esperienze e tecnologie utili per la modernizzazione dei trasporti italiani andasse in mano straniera. Oggi gli imprenditori che hanno puntato sull’auto elettrica stentano ad affermare i propri prodotti e tecnologie a perché il sostegno al settore è ancora troppo timido ed impacciato.
Gli italiani vorrebbero insegnare a Marchionne come si fa ad essere imprenditori con ben chiari i parametri etici della categoria come  il mantenimento dei posti di lavoro, la creazione di nuovi, lo sviluppo dell’industria Italiana, la garanzia di investimenti e la lo loro continuità. La classe dirigente italiana, ancora una volta, chiama in causa la più grande industria italiana a fare da paravento alla propria mediocrità e assoluta incapacità di porsi veri e concreti obiettivi di rinnovamento. 

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