giovedì 14 luglio 2011

Il declino in America. Un secolo e mezzo dopo Toqueville


La vicenda di Strauss Kahn e l’accorata difesa d’ufficio del filosofo francese Bernard-Henri Lévy (pubblicata in Italia dal Corriere delle Sera) che solo all’alba del rilascio del finanziere trovava opportuno denunciare la campagna denigratoria attuata contro l’ex direttore generale del FMI, mi fornisce l’occasione per parlare di uno degli ultimi libri che ho letto: scritto da Bernard-Henri Lévy, appunto. Che ripercorre le orme di Alexis de Tocqueville nel suo viaggio in America, appunto. Per studiare il sistema penitenziario americano e l’amministrazione della giustizia. Appunto!
“American Vertigo” è un viaggio attraverso gli Stati Uniti visti attraverso le lenti di uno dei massimi pensatori europei viventi che si ostina a ricercare i motivi che fanno degli americani persone non necessariamente peggiori degli europei, ma fondamentalmente diverse da questi. Si ostina, sottolineo, perché oggi le differenze che dividono gli abitanti del vecchio e nuovo Mondo sono poca cosa al cospetto del destino che ci accomuna: il declino.
Nella prima parte del diciannovesimo secolo, Alexis de Toqueville, un aristocratico studioso francese viaggiò in alcuni degli Stati della giovane Nazione per trovare le motivazioni della forsennata crescita di un Paese destinato a diventare l’emblema della fortuna e della felicità, non trascurando però di analizzare anche l’immagine allo specchio dell’America, la realtà innegabile di chi non ha saputo approfittare della “democrazia perfetta” violandone le regole e sperimentando un sistema correttivo che non ha mai dimostrato di essere lungimirante almeno tanto quanto i suoi i massimi esponenti della rappresentazione degli interessi e dell’iniziativa privata.
E saranno questi meandri oscuri che, un secolo e mezzo più tardi, detteranno l’itinerario di Lévy il quale aggiungerà alla sua esplorazione – e qui sta l’originalità del suo contributo letterario – le nuove forme di segregazione, volontaria o meno, che segnano la vita del Paese: le “gated community” dei facoltosi pensionati americani che vivono in cittadelle limbo semi-fortificate protette da ogni interferenza esterna e ben attrezzate per far fronte ai bisogni della popolazione con defibrillatori e casse da morto pronte all’uso, ma anche altre comunità, più improvvisate e più vulnerabili agli attacchi esterni come i caravanserragli dei “winter birds” altri pensionati, meno facoltosi, che dagli stati del Nord vengono a svernare nei loro camper in qualche vecchia base militare ai bordi del deserto. Il taglio acuto della lettura dell’America di Lévy scopre anche il velo sulle comunità residue degli Stati Uniti che oggi vivono sempre più chiuse e irriducibilmente destinate a collassare, come i nativi sempre più intrisi di alcol a buon mercato, gli insediamenti Amish, sempre più depresse e bipolarizzate o le caste impenetrabili di Salt Lake City che hanno costituito i bastioni di fortune economiche e finanziarie su un’asettica adesione ai fondamenti della religione mormone.
Dai tempi di Toqueville l’America il sistema penitenziario è certamente cambiato. Le austere fortezze della guerra civile trasformate in carceri sono state quasi tutte chiuse, Alcatraz compresa, ma molte cose restano inspiegabili per gli europei come la coesistenza di tentativi di metodi correzionali basati sull’assunzione di responsabilità del condannato che può vivere una vita quasi normale in un contesto comunque ben definito e i bracci della morte dove decine di prigionieri scontano supplizi psicologici talmente forti da fare maturare, silenziosamente e senza clamori, la vera redenzione. E’ difficile poi credere che alle amministrazioni della giustizia interessi tanto creare nuove opportunità di reinserimento per un criminale quando si scopre che la catena di fast food “Kentucky Fried Chicken” è affidataria della gestione delle carceri comuni di alcuni Stati del centro degli Stati Uniti.
Per ironia della sorte, il viaggio del filosofo francese comincia da Rikers Island, il carcere di massima sicurezza di New York dove qualche anno dopo la visita di Bernard-Henri Lévy (il libro è stato scritto a cavallo tra il 2005 e il 2006) sarebbe dovuto transitare, in veste di detenuto, il potente banchiere mondiale accusato di vergognose manovre sessuali nei confronti di una cameriera di colore. Eppure il trattamento riservato all’illustre "ospite" francese all’interno del carcere americano avrebbe potuto spingere a pensare l’autore del libro che la democrazia, come ai tempi di Toqueville, esiste, perlomeno nelle sue forme esteriori più retrive e deprimenti come l’esposizione delle manette e la “perp walk”, la gogna mediatica che induce a pensare che chiunque, per quanto potente e temuto, non sfugga alle regole che permettono alla democrazia e alla libertà di sopravvivere.
Bernard-Henri Lévy, come la maggior parte degli stizzosi intellettuali europei, non ama l’America, e molte volte fa fatica a nascondere il suo disprezzo, ma ha scritto un libro che offre molte occasioni per conoscere le condizioni di sopravvivenza in cui versa il Paese in questi ultimi anni e dalle quali difficilmente potrà uscire presto. Soprattutto ci racconta l’America delle occasioni perse, quando intervista nello squallore dei loro ultimi ritiri, altri segregati volontari, gli idealisti di stampo culturale europeo protagonisti delle rivendicazioni sociali degli anni ’60 e ‘70 che per uno scorcio di secolo, avrebbero intravisto, almeno in prospettiva, le ombre di una nazione veramente libera e democratica.

Bernard-Henri LÉVY (2007), American Vertigo, Rizzoli – Codice Iban 88-17-01195-9

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L' America in bianco e bianco