giovedì 17 settembre 2015

Le Vie d'Italia che non portano da nessuna parte

Le Vie d'Italia  è stata la prestigiosa rivista mensile edita dal Touring Club Italiano dal 1916 al 1968. Un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di viaggi, escursioni, vacanze (un' élite sicuramente in quel periodo) e non solo: arte, storia, architettura, musica, cinema e tecnologia arricchivano le pagine della rivista con interventi autorevoli di qualificati uomini di arte, lettere, scienza e cultura. 
Emblematicamente, nel 1968, la pubblicazione del "Touring" cambiò nome trasformandosi in una pubblicazione più a passo con i tempi, più in sintonia con un pubblico di utenti accresciuto in numero e interessato alla dimensione ludico ricreativa della vacanza di massa che rimane, per molti versi, simile ad oggi. 
La lettura dei testi della rivista relativi agli anni più intensi del boom economico, grosso modo dal 1956 al 1963, è interessante, ma soprattutto sorprendente. Sorprende, per esempio, che uno dei movimenti d'opinione mosso dall' Associazione riguardasse l'eccessivo squilibrio di risorse destinate allo sviluppo del traffico automobilistico, soprattutto se confrontato con lo stato di agonia mortifera in cui erano sprofondate le ferrovie nazionali che, dal secondo dopo guerra in avanti, non avevano potuto attingere adeguate risorse per dare avvio ad un serio programma di ricostruzione e ammodernamento. Altri temi correlati fatti emergere e criticati con una certa asprezza: la falcidia delle ferrovie locali, che soccombevano di fronte ai numeri deficitari di gestioni svogliate e alla tracotanza dei nuovi autobus di linea, lo stato di carente manutenzione delle strade, la necessità di imporre limiti di velocità su strade e sulle nascenti autostrade (allora non c'era nessun limite alla che reprimesse l'astro nascente del benessere italiano), l'eccessivo, disordinato e scanzonato proliferare di pubblicità e cartellonistica stradale.
La mala bestia è da ricercare nel modernismo che sopraffà incontrastato tutto quello che è bello, artistico e naturale. Il nemico da combattere è il conformismo della nascente classe dirigente del Paese che di prostra davanti a cliché mal interpretati e frettolosamente importati da modelli di civiltà più emancipati. Un esempio su tutti: già nel 1956 venivano messi in luce i limiti strutturali delle città italiane a sostenere l'invasione del traffico a quattroruote ponendo come rimedio, guarda guarda, politiche di incentivazione della bicicletta. Ci sono molti servizi con gli inevitabili e sempre-verdi confronti di percorrenza nel traffico cittadino (del 1956, praticamente inesistente rispetto ad oggi) inesorabilmente vinti dal mezzo a pedali. 
A chi segua un minimo di dibattito sul rischio di collasso di città come Roma e Napoli non suonerebbero inediti i tamburi contro la devastazione paesaggistica e morale di piazze storiche congestionate da automobili parcheggiate selvaggiamente? E i richiami lanciati dalla rivista contro la barbarie della presenza dei simboli dello sviluppo come distributori di benzina, autorimesse, fabbriche e edifici anonimi impiantati senza nessun rispetto della storia, del paesaggio, dell'arte del buon gusto? Segnali di una coscienza civile e critica che rincuora sapere essere presenti già allora su una delle pubblicazioni più autorevoli, colte ed aggiornate dell'epoca. 
Tuttavia, come sempre destinate, oggi come allora, a non essere prese in considerazione. 

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