La ferita che ha lasciato lo
sviluppo di Malpensa 2000, la “grande Malpensa” come imponeva la logica leghista
allora imperante è ancora ben impressa nel territorio circostante, sventrato e
svilito per assecondare un modello di sviluppo che, anche allora, non sarebbe
risultato credibile. Attraversare i
comuni della lotta, quelli che scesero in piazza per protestare contro i
carrelli degli aerei che sfioravano le antenne, Lonate Pozzolo, Ferno,
Samarate, vuol dire passare in mezzo a rioni completamente abbandonati. Equamente
abbandonati: case popolari, ville con piscine, casette con gli occhi chiusi con
i mattoni in attesa di un riutilizzo che difficilmente si potrà fare. Visti i
tempi e la cronica mancanza di pianificazione. Oggi i loro proprietari,
indennizzati con moneta sonante, si sono trasferiti e agli aerei non ci pensano
più. Ci viaggiano solamente, passando sopra altre case e altri tetti di gente
meno fortunata di loro. Virando verso est, verso la sponda del Ticino
oltrepassata la teoria di capannoni e uffici vuoti da sempre si passa sopra il
fiume, l’unica anima bella rimasta in quest’angolo di orgoglio lumbard nel
mondo, ormai solo immagine di un degrado senza fine. In questi giorni di piena vederlo scorrere
sotto il ponte di ferro di Galliate è come un soffio di ossigeno per un moribondo.
Una riga verde smeraldo - perché se è vero che tutti i fiumi hanno un colore,
il verde smeraldo è il colore del Ticino
- che passa sotto questa struttura del 1952, un tunnel che quando si attraversa,
dà sempre l’idea che usciti dall'altra parte ci si possa ritrovare a vivere il giorno della sua inaugurazione. In
quegli anni verso i quali tutti vorremmo in fondo tornare, illusi che il tempo
di allora si muovesse con il moto lento di un film in bianco e nero. Il ponte è
la boccia di vetro con la ballerina immobile e la neve finta che le si agita
intorno. Attraverso il vetro si vedono le stagioni: le piene, la neve sulle
rive, la secca i bagnanti che affollano le anse e l’anima candida dagli occhi
verde smeraldo che ogni estate pretende le sue vittime che, come tutti i fiumi,
trattiene sul fondo, come a rivendicarne il pieno possesso. Il trofeo da
esporre. Passo per Galliate e anche qui il ricordo degli anni del dopoguerra rivive.
Con le sfide fra Varzi, illustre e notabile concittadino e Tazio Nuvolari, nato
in una città del Mantovano gemellata con Galliate, città viscontea. Ma è solo
un breve momento. Superato il centro della città, con le sue fortificazioni di
stampo ottocentesco, il confine con l’Austria era a pochi metri, inizia a
spandersi l’immonda concretezza dell’area industriale, un’onda sul bagnasciuga
che, purtroppo, non si ritira mai. Un assurdità dei piani regolatori di anni di
illusorio benessere, dove un paese di poche migliaia di anime riesce oggi ad
avere due anche tre aree industriali, con l’intento dichiarato di coprire tutti
e quattro i punti cardinali.
Nella campagna tra Novara e
Vercelli, attraversata dal gioco reticolare dei canali irrigui che portano i
nomi di uomini politici post-unitari che fecero l’Italia, ma soprattutto fecero
grande il Piemonte, la cascina si staglia come una cattedrale gotica diroccata.
In mezzo a quello spazio rimasto vuoto è ancora facile immaginarla solitaria in
mezzo alla campagna. Con lentezza muovevano allora carri, bestie, biciclette,
poi qualche motocicletta, qualche motofurgone, ma sempre nella direzione di
quel centro di vita sperso in mezzo alle risaie e alla nebbia. Oggi ci passa
l’autostrada, di fianco, un rudere rossastro che stona con le insegne della
benzina e l’acciaio del guard-rail che le scorre vicino.
A Cameriano, sullo stradone, a
metà paese si gira a sinistra e qui si che sembra di tornare agli anni 50’.
Anche prima se non fosse per il monumento ai Sette Martiri della resistenza
trucidati in mezzo alle rogge, è facile immaginare di tornare agli anni trenta.
Il bar del paese serve acqua e menta e gli anziani seduti non sembrano oziosi
come quelli dei bar cittadini. La padrona invita a giocare al tiro alla rana,
dove vince chi riesce a centrare la bocca larga dell’anfibio con dischetti di
ottone vecchi di decenni. D’inverno se si è fortunati può capitare di essere
inviatati a cena dai cacciatori che svuotano i carnieri in questo posto d’altri
tempi. Dopo il reticolo delle risaie, qualche cascina semi abbandonata si
ritorna sullo stradone per Borgo Vercelli, altro esempio di politiche dementi
che sono riuscite a trasformare un bell'esempio di urbanistica fluviale, caso
raro per il Piemonte, dove le città voltano le spalle ai propri fiumi, in un
polveroso ricettacolo di abbandono che colpisce indiscriminatamente capannoni
costruiti e mai usati e architetture settecentesche.
Prima di Vercelli, nascosto tra
una selva di cartelli gialli e neri che indicano le ansimanti attività
superstiti dell’ennesima area industriale appare a malapena il cartello marrone
che indica il percorso della via Francigena. E’ facile imbattersi in pellegrini
turisti, in quasi tutti i mesi dell’anno. Persone normali: pensionati dall'aria
giovanile, turisti stranieri con lo zaino che attraversano a piedi zone poco
probabili per una passeggiata di meditazione: parcheggi, distributori di
benzina, centri di logistica semivuoti. Ma dietro quel muro, si apre un
sentiero di terra battuta che porta a Roma passando per monti, colline, laghi e
boschi. Un sicura certezza per chi passa e prosegue nel suo itinerario di
squallore. A sud di Vercelli, sulla strada
di larghezza esagerata che attraversa le risaie un’altra area industriale, in
forte espansione: ben due centri commerciali sorti nel giro di un amen. Con altrettante
rotonde che ruotano attorno al nulla. Gareggeranno con l’abbandono che regna
sovrano in questa parte di Piemonte funestata da centri commerciali e produttivi relitti di
idee di espansione mal calcolata: concessionarie in stile azteco, un mega
centro per l’artigianato che ha conosciuto solo i fabbri che hanno serrato i
cancelli, ospedali allo sfascio, un ex orfanotrofio finito di costruire quando,
ex lege, gli orfani sono stati cancellati dall'ordinamento, un manicomio in
cerca di identità. Tutto nel giro di qualche centinaio di metri in linea d’aria.
Unica nota di valore: è che qui Francis Lombardi, pioniere e asso dell’aviazione
prima e carrozziere dopo, aveva i suoi stabilimenti che regalava sogni agli
italiani del boom economico trasformando semplici utilitarie in semi-fuoriserie
pretenziose. Oggi non se lo ricorda più nessuno.
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