I
tentativi del nostro Paese per uscire dalla crisi cominciamo ad evidenziare i
nodi scorsoi che si stringono intorno al collo della nostra economia. In tutti
i Paesi dell’Unione gli indicatori macroeconomici stanno prendendo la rincorsa per una decisa
ripresa, mentre da noi si stenta a prendere la direzione corretta. Fino a
quando il male era comune il gaudio era quello di sapere che eravamo in
compagnia. Oggi rischiamo di rimanere soli. Eppure le cause della nostra
debolezza e scarsa capacità di competere sono risapute e riconosciute: scarsa
innovazione, nanismo aziendale, tendenza alla frammentazione, bassa propensione
ad investimenti di lungo periodo, incapacità a creare e consolidare competenze.
Le origini di questi grandi impedimenti vanno ricercate in tempi lontani quando
la nostra economia fece boom e milioni di persone poterono assaporare il
benessere e la soddisfazione di avere creato qualche cosa dal nulla. Anche se
ogni tanto qualche miliardario con velleità di politico cerca di farci credere
che sia possibile tornare a quel periodo magico, sarebbe opportuno fare qualche
riflessione. In quel contesto apparentemente benevolo e propizio, lo Stato non
fece la sua parte, proprio come oggi, dove la latitanza delle istituzioni su
molti segmenti della nostra realtà economico sociale è sempre molto sentita. In
quegli anni l’economia e la capacità produttiva crebbero a dismisura. Ma non fu
un bene perché i benefici ebbero scarsa possibilità di produrre effetti a lungo
termine. Era una crescita senza controlli e senza regole. A chi ci
governava allora andava bene così: c’era piena occupazione e questo impediva il
disagio sociale e i tentativi di sommossa dormivano sotto la cenere; in
ossequio alla morale cattolica l’integrità della famiglia era preservata grazie
soprattutto al proliferare di aziende a carattere famigliare, un fenomeno
talmente diffuso da impedire, negli anni successivi, la costituzione di un
tessuto produttivo organico. Eravamo
affamati di crescita. Questo ha tollerato scempi paesaggistici che tuttora
feriscono la dignità del nostro Paese. Il ricordo della povertà e del disagio
era ancora troppo fresco per proporre modelli di sviluppo maggiormente inclini
alla solidarietà e alla condivisione. Furono realizzate grandi opere, ma solo
per favorire modelli di crescita basata sulla individualità come autostrade e
strade, trascurando e mandando in rovina quello che di buono esisteva già come
le ferrovie locali e i sistemi di trasporto merci su rotaia. Dalla fine degli anni
’50 fin verso la metà degli anni ’60 il nostro prodotto interno lordo cresceva
a dismisura e questo faceva dormire sonni tranquillo alle istituzioni, troppo
tranquilli. Si produceva, si guadagnava e quello che si produceva andava
comprato. Il circolo era apparentemente virtuoso per andarlo a modificare,
magari riducendo le possibilità di spesa con politiche fiscali di riequilibrio.
La scelta è stata quella di tollerare evasione ed elusione. Adesso si cerca di
correre ai ripari. Non che lo Stato stette semplicemente a guardare
compiaciuto: più colpevolmente fece molto poco per prevenire le conseguenze che
inevitabilmente sarebbero intervenute al termine del “boom”. Ebbe timore di
toccare quel prodigioso meccanismo che in modo del tutto casuale si era messo
in moto per un’eccezionale spinta dal basso e che se si fosse inceppato nessuno
sarebbe stato capace di fare ripartire. Scarsa capacità di prevedere il futuro, poca
immaginazione, una innata propensione e ridurre i problemi per la loro portata
e a procrastinare le decisioni. Esattamente come in tempi attuali le
istituzioni non sono state in grado di comprendere il fenomeno della crisi,
soprattutto per le conseguenza strutturali che è destinata a lasciare sul
nostro sistema. La ripresa non potrà più passare per le attività produttive dei
“distretti” onore e vanto della nostra economia degli anni passati. Le
dimensioni della competizione globale ce lo impediscono. E non è solo una
questione di costo della manodopera e di mancanza di infrastrutture. Basta
guardare le nostre scelte di consumatori che premiamo le aziende globalizzate perché
offrono un valore riconoscibile costante nel tempo. Nel passato non si è fatto
a sufficienza per investire verso sistemi di distribuzione di merci e servizi efficienti,
moderni, concepiti sulla beneficio per l’acquirente finale, ma si è spesso
indugiato su sistemi di accrescimento della catena per favorire un numero
irragionevole di intermediari. Si sono tutelate, spesse volte con un tornaconto
elettorale, categorie professionali per garantire rendite lucrose senza proteggere il fruitore finale dei servizi.
Tutto
questo in ragione di un magico e misterioso tocco di re Mida che aveva tirato
fuori dalla miseria un Paese con quasi 50 milioni di persone che combattevano
con la miseria, l’arretratezza e la mancanza di un ruolo di prestigio in
Europa.
Oggi
le cose non sono diverse. L’incapacità che i Governi, a partire da quello
guidato da Berlusconi, hanno evidenziato nell'errata lettura dei dati dell’economia
reale, il malcontento che cresceva sono lo specchio dell’atteggiamento dello
Stato di 50 anni fa.
Adesso,
per rimanere in tema di boom, c’è anche chi pensa a candidare l’Italia per le
Olimpiadi del 2024, giusto per rinverdire i fasti dei giochi di Roma del 1960. Da
come stanno litigando Milano e Roma sembrerebbe proprio che qualcuno ci crede
veramente. Ed è questo che preoccupa.
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