Acquistare prodotti ecologici non è solo un modo per rispettare l’ambiente , ma anche una forma di sostegno verso la distribuzione tradizionale anche detta “di prossimità”, sempre più costretta a ricorrere ad espedienti per sopravvivere alla prepotenza della grande distribuzione.
Ne è un esempio una recente iniziativa intrapresa da alcune rappresentanze provinciali di un’importante Associaz
ione di categoria che hanno proposto a piccoli negozi di vicinato di specializzarsi nella vendita di prodotti a basso impatto ambientale caratterizzati, soprattutto, dall’assenza di imballi destinati allo smaltimento.
Si è partiti con i detersivi alla spina, ma l’obiettivo è quello di arrivare ad ampliare l’assortimento con una vasta scelta di prodotti compresi i generi alimentari. Le intenzioni dell’associazione sono molto chiare e il ragionamento non fa una grinza. II funzionario di una rappresentanza provinciale piemontese mi spiega che il piccolo esercente ha bisogno di trovare nuove opportunità per riqualificarsi e sopravvivere alla concorrenza dei centri commerciali; purtroppo il vincolo è che non ci sono molti soldi da investire, anche se spesso è l’entusiasmo e la capacità di reagire che manca. Vendere prodotti sfusi non implica grandi investimenti, gli approvvigionamenti non dipendono dalle condizioni capestro dei grandi produttori, ma da piccole realtà produttive italiane che sono rimaste fuori, per scelta o per sfortuna, dal circuito dei buyer della grande distribuzione.
“La grande distribuzione ha lasciato uno spazio scoperto che potrebbe essere colmato dalla distribuzione tradizionale”, mi assicura il mio interlocutore riferendosi al target di quei consumatori che volenti o nolenti non fanno la spesa nei supermercati, ma nel negozio sottocasa. Un esempio sono le persone anziane, autosufficienti, ma che preferiscono evitare di prendere la macchina per andare a fare compere optando per il carrellino trainato lungo i marciapiedi del quartiere. Il fatto di potere comprare solo una piccola quantità di detersivo piuttosto che un fustino da cinque chili da trasportare a casa, è sicuramente molto vantaggioso perché permette di non essere dipendenti da figli, nipoti e vicini. Ci sono poi coloro che non vogliono usare l’auto per principio e poi sono idealmente contrari alla grande distribuzione. In questo caso il negozio sottocasa che ha abbracciato una causa in cui il suo cliente crede può diventare elemento di fidelizzazione.
Il sistema di distribuzione dei detersivi che ha iniziato a diffondersi in numerosi punti vendita diffusi su quasi tutto il Nord e Centro Italia, ha trovato in Giovanni De Angelis un convinto sostenitore nonché un illuminato imprenditore che ha saputo cogliere gli aspetti vincenti di questo settore con evidenti connotati di forte crescita e elevate potenzialità. “L’elemento commerciale vincente”, mi spiega De Angelis “consiste nell’andare dal titolare di un piccolo esercizio e proporgli di impiegare pochi metri quadri dello spazio destinato alla vendita posizionando una semplice macchina che distribuisce prodotti per la pulizia. Il costo è minimo, ma è necessario che l’esercente presidii il sistema di distribuzione per spiegarlo e illustrare i vantaggi al cliente”. A riprova delle sue convinzioni De Angelis mi spiega il fallimento di alcune catene di negozi specializzate nella sola vendita di prodotti per la pulizia causato dal fatto che non rientra nelle nostre abitudini di acquisto andare in un negozio solo per acquistare una specifica tipologia di prodotti, mentre siamo più propensi a farlo se la proposta ci viene fatta all’interno di un negozio di alimentari, dal panettiere, in una ferramenta o presso un piccolo riparatore di elettrodomestici. Anche la grande distribuzione sembra avere fallito l’obiettivo di consolidarsi nella vendita di prodotti a basso impatto ambientale. La regione Piemonte ha investito cifre considerevoli per posizionare presso grandi superfici di vendita complessi macchinari per la distribuzione di detersivi alla spina, ma l’esperimento non ha dato i risultati sperati nonostante i paralleli sforzi promozione e comunicazione. Sembra essere la semplicità la chiave di volta di tutto. L’acquirente deve andare al negozio con il suo contenitore, anche la bottiglia vuota dell’acqua minerale, e non deve essere obbligato a comprarne uno specifico; deve potere decidere quanto prodotto prelevare e non quantità definite. Ovviamente il processo di determinazione del prezzo è più complesso in quanto il prodotto deve essere pesato e bisogna detrarre il peso del contenitore, una prassi che presso la cassa di un supermercato non sarebbe fattibile, ma sicuramente praticabile in un piccolo negozio.
Ma le leve del successo non si limitano alla semplicità e all’abilità del commerciante di convincere il suo cliente a compiere un gesto responsabile: sta anche nella qualità e nella convenienza. Il famoso binomio di tanti caroselli e pubblicità di ieri e oggi. In questo caso però la convenienza è giustificata dai minori costi che gravano sul prodotto perché si risparmiano risorse che altrimenti andrebbe disperse in imballi, involucri, idee grafiche, inchiostri, e maggiori oneri di trasporto. Senza ripercussioni sulla qualità perché le caratteristiche dei detersivi ne contraddistinguano le prerogative per essere definito un prodotto di assoluta qualità: tensioattivi di origine vegetale e non di sintesi come nella stragrande maggioranza dei detersivi., assenza di coloranti (quelli che fanno il bianco più bianco, per intenderci), produzione italiana e bassissimo impatto ambientale (in teoria nell’acqua che esce dallo scarico della lavatrice ci potrebbe sguazzare un pesce rosso).
“I fattori per essere un prodotto di successo ci sono tutti” mi spiega il responsabile dell’agenzia che sta curando la promozione e lo sviluppo della rete dei negozi che condividono l’impegno a favore dell’ambiente, “ma in questo caso, sopra ogni cosa, esiste la possibilità di convincere i consumatori che stanno acquistando un ottimo prodotto ad un costo più che ragionevole; una volta che si è appurato questo, è facile convincersi della bontà delle conseguenze delle proprie scelte”.
Una lezione che forse converrebbe imparare: il rispetto per l’ambiente passa prima dal rispetto delle nostre tasche.
Attraverso le nostre scelte consapevoli è possibile diminuire i consumi per l'affermazione di un'economia sostenibile ed equa. Dai modelli di comportamento, ai trasporti e alle letture tutto è materia per un approfondimento che porti a discriminare tra l'utile e il vacuo, tra la sostanza e l'effimero, tra il modello virtuoso e il pedissequo seguito a richiami di inconsistente benessere.
sabato 4 dicembre 2010
sabato 27 novembre 2010
Il traffico urbano. Alcuni consigli per ridurlo.
A Milano, un residente su due dichiara di preferire la propria auto per andare a lavorare. E' veramente incredibile che nessuna politica di trasporto pubblico, nessun ecopass e tutte le ammonizioni dell'Unione Europea abbiamo portato la cittadinanza ad avvertire il peso e le conseguenze dei propri comportamenti.
Questo primato rende il capoluogo lombardo una delle città più congestionate ed inquinate al mondo, ma soprattutto evidenzia le manchevolezze dell’amministrazione comunale che brilla per scarsa inquietudine verso il problema e, al di là dei proclami, per totale assenza di idee.
Io invece qualche ideuzza l’avrei. Niente di sofisticato. Niente che apra i cancelli a grandi lavori, grandi appalti e grandi imprese. Solo qualche accorgimento che nasce da un’osservazione, molte volte forzata, di come il traffico posso essere parzialmente eliminato mediante semplici ed economici accorgimenti e provvedimenti.
Ve li illustro scandendo la giornata dell’automobilismo forzato:
La scuola: accompagnare i bambini, soprattutto se ancora piccoli, è la prima incombenza giornaliera del genitore automobilista. Le scuole non hanno parcheggi perché giustamente a scuola vanno bambini e ragazzi che non guidano.
Tuttavia davanti alle scuole di tutta Italia alle 8 si formano degli ingorghi spaventosi di genitori automobilisti che vorrebbero accompagnare i propri figli, non a scuola, di più: al banco se fosse possibile. Normalmente i vigili si aggirano nei paraggi, non per dirimere gli ingorghi, ma per satollarsi di multe durante quei 5/10 minuti di auto malamente parcheggiate per potere accompagnare, a piedi stavolta, i figli a scuola.
Soluzione proposta: alcuni aeroporti e stazioni nordeuropee hanno istituito le “kiss zones” che sono dei parcheggi dove chi accompagna qualcuno che deve prendere un treno o un aereo può fermarsi giusto il tempo di un saluto, un bacio appunto. Esaurite i brevi convenevoli si riparte senza pagare nulla e senza creare ingorghi. Come si può applicare nel caso di una scuola?. Creare una kiss area davanti alla scuola dove i bambini, dopo il bacio a mamma e papà scendono velocemente dalla macchina che altrettanto velocemente disimpegnerà la zona adibita per fare spazio ad altre automobili. I bambini vengono sorvegliati ed inquadrati da un nonno vigile che ad ondate li accompagnerà dentro la scuola. Lo stesso all’uscita da scuola. Costi: disegnare le strisce per terra mettere qualche cartello, formare i nonni vigili che svolgeranno la loro opera in qualità di volontari.
I comuni poi dovrebbero incentivare il “pedibus”, ovvero gruppi di bambini guidati da adulti o ragazzi volontari che percorrono determinati itinerari coinvolgendo nella carovana altri bambini che si aggiungono strada facendo. Questa iniziativa è tanto bella quanto poco utilizzata. Sei comuni incentivassero maggiormente il ricorso al pedibus avremmo bambini più sereni, più sani, più rispettosi dell’ambiente. I genitori sarebbero meno stressati e rassicurati dal fatto che i bambini sono controllati. Il traffico, ovviamente, ne gioverebbe. Come dicevo, malauguratamente, queste iniziative non hanno molto successo e dopo poco tempo cadono nel dimenticatoio. A mio avviso per incrementare il ricorso è necessario coinvolgere gli insegnanti. I presidi di istituto quanto presentano i servizi che la scuola offre ( i cosiddetti “open school”) dovrebbero fare presente che esiste un servizio di accompagnamento sorvegliato dei ragazzi. Gli insegnanti dovrebbero fare comprendere ai genitori che la valutazione generale dell’alunno dipenderà anche dal grado di partecipazione a queste attività.
I motorini: l’Italia vanta una percentuale di minorenni motorizzati unica al mondo. E’ veramente incomprensibile che in un Paese come il nostro dove l’apprensione materna nei confronti dei figli sfiora il patetico si permetta a dei giovani immaturi di scorazzare su piccoli e fragorosi bolidi semplicemente per andare a scuola o effettuare spostamenti che potrebbero essere tranquillamente affrontati a piedi o in bicicletta. L’approccio precoce allo spostamento motorizzato è deleterio per la salute, per il traffico per l’inquinamento. Un ragazzino che corre oggi in motorino, sfreccerà domani su una moto o su una macchina più potente appena avrà l’età per guidarla. Il ricorso al motorino è diseducativo innanzitutto perché è inutile, dispendioso, pericoloso ed inquinante. Le scuole dovrebbero precludere ai motorini l’ingresso all’interno dei cortili e provvedere a fare rimuovere i mezzi parcheggiati in modo irregolare davanti alla scuola. Gli insegnati, anche in questo caso, dovrebbero fare capire ad alunni e genitori che chi preferisce venire a scuola a piedi o in bicicletta è maggiormente apprezzato.
Le attività pomeridiane: le attività ricreative, sportive ed educative svolte dai nostri ragazzi il pomeriggio obbligano i genitori a ulteriori sedute al volante per accompagnare ed andare a prendere i ragazzi ai corsi di tennis, nuoto, calcio, musica, danza. Tanto traffico inutile oltre ad essere una delle principali cause di stress dei genitori. La soluzione anche in questo caso potrebbe essere semplice: obbligare gli organizzatori dei corsi a munirsi di adeguati automezzi come pulmini per andare a prelevare a domicilio gli allievi e gli atleti. I maggiori oneri sostenuti dagli organizzatori dei corsi verrebbero ripagati da una piccola quota incrementale per pagare i costi del leasing degli automezzi. Inoltre il tempo di percorrenza dall’abitazione al luogo dove l’attività viene svolta potrà essere impiegato per attività di ripasso, preparazione e rendicontazione della attività svolte. Lo stesso ovviamente al ritorno. I comuni potrebbero fare la loro parte offrendo i propri mezzi come per esempio gli scuolabus inutilizzati nel pomeriggio.
La bicicletta: la bicicletta è il mezzo che è potenzialmente deputato a risolvere il problema del traffico e dell’inquinamento. Tuttavia essa continua ad essere avversata. Non direttamente, ma indirettamente in quanto la generalizzata resistenza delle amministrazioni nel creare contesti favorevoli alla circolazione su due ruote non ne favorisce la diffusione e non contribuisce a sviluppare un atteggiamento benevolo nei suoi confronti.
Alcune amministrazioni hanno investito in piste ciclabili e oggi stanno raccogliendo i frutti di queste politiche lungimiranti. Altre stanno cercando di recuperare il tempo perduto. Molte altre invece, come il Comune di Milano, non hanno ancora deciso cosa fare se non sporadiche iniziative che hanno più un sapore propogandistico piuttosto che tangibili segni di un deciso impegno verso modelli originali di mobilità sostenibile.
Senza considerare le piste ciclabili il cui sviluppo dovrebbe assecondare logiche centripete e non centrifughe – i flussi di pendolari vanno dalla periferia al centro città e pertanto non serve costruire piste ciclabili solo in centro, possono coesistere altri strumenti per facilitare la dissuasione all’uso dell’auto. Per esempio se la rete di percorsi ciclabili è insufficiente o non serve zone ad altra densità di traffico, come scuole, ospedali, uffici e tribunali si possono studiare itinerari stradali che in determinati orari della giornata risulteranno essere completamente chiusi al traffico motorizzato. Se la conformazione orografica della città presentasse rilievi di una certa entità (per esempio Roma) tali da rendere impegnativa la percorrenza in bicicletta da parte di persone poco allenate, autobus urbani in disuso opportunamente adattati e resi conformi alle normative sulle emissioni, potrebbero essere rimessi in strada per svolger servizio navetta traghettando bici e ciclisti fin sulla sommità del pendio.
Il connubio treno-bicicletta è un’altra frontiera verso la quale le amministrazioni si avventurano con un certo timore. Eppure se si riuscisse a riversare sulla rotaia solo un quarto del traffico veicolare in entrata in una città come Milano, i problemi di traffico e inquinamento potrebbero essere visti sotto una luce diversa. La possibilità di trasportare la bici al seguito è un’opportunità interessante che non viene adeguatamente promossa e sfruttata. I comuni che ricevono consistenti flussi di pendolari dovrebbero attivarsi lavorando di concerto con le aziende e con le ferrovie per favorire il ricorso da parte dei pendolari al treno fino a offrire a condizioni particolarmente vantaggiose abbonamenti ferroviari mensili abbinati alla possibilità di trasporto della bicicletta. Le ferrovie, per contro, dovranno impegnarsi a sostenere l’onere delle municipalità per lo sviluppo della rete di piste ciclabili. Questa auspicabile collaborazione tra aziende ferroviarie, amministrazioni locali e aziende potrebbe portare alla creazione di consorzi finalizzati alla progettazione e realizzazione di sistemi integrati di viabilità sostenibile.
Sempre dalla ferrovia potrebbe arrivare un grandioso aiuto a quei capoluoghi di provincia o di regione di medie dimensioni che soffrono di problemi di traffico ormai peggiori delle metropoli. Mi riferisco alla possibilità di adibire i tratti sub-urbani delle linee ferroviarie di terzo livello (ce ne sono tantissime in Italia, ancora efficienti, benché sottoutilizzate) a metropolitane leggere con l’intento di offrire una valida alternativa al mezzo privato per raggiungere il centro. I convogli adibiti al servizio, inoltre, dovrebbero disporre di un carro merci per il trasporto di merci destinate alle attività commerciali del centro, liberando le città dal traffico di veicoli commerciali che risulta essere sempre più intenso, inquinante, pericoloso. Quest’ultima possibilità permetterebbe il recupero dei suggestivi scali merci che per anni hanno sostenuto i traffici di merci del nostro Paese e ora giacciono in desolato abbandono.
Limitazione all’uso del mezzo privato: anni fa venne introdotto in azienda la figura del mobility manager, un ruolo aziendale che attraverso convenzioni con le amministrazioni locali, le aziende di trasporto e i sindacati avrebbe dovuto armonizzare ed ottimizzare gli spostamenti dei dipendenti e collaboratori con l’intento di diminuire il ricorso al mezzo privato. La totale mancanza di esempi virtuosi di applicazione di queste direttive mi porta a pensare che l’esperimento sia stato abbastanza deludente. Questo per la semplice ragione che l’adesione avviene su basi volontarie e il distacco degli italiani dal proprio mezzo motorizzato e dalla supposta sensazione di indipendenza che procura continua ad essere molto difficile. A mio avviso il problema della mobilità potrà essere risolto solo con efficaci provvedimenti che limitino sostanzialmente la facoltà di avvalersi dell’auto propria come alternativa al mezzo pubblico. A sostegno di quanto affermo, ripropongo il dato riscontrato a Milano, dove esiste un sistema di mezzi pubblici tutto sommato valido e efficiente, una persona su due preferisce la propria auto per andare a lavorare. Fino a che esisterà la possibilità di scegliere il problema non potrà essere risolto: a Londra se voglio andare in centro sono costretto ad andare coi mezzi, a piedi o in bicicletta o essere uno sceicco saudita. A Milano posso andare in centro pagando un controvalore tutto sommato abbordabile. Sempre in Gran Bretagna la possibilità di andare allo stadio in macchina è preclusa, semplicemente perché gli stadi non hanno più i parcheggi, ma solo servizi pubblici efficienti.
La propensione all’uso del mezzo proprio è un aspetto culturale: educando le nuove generazioni ad una visione più rispettosa dell’ambiente sarà più facile mettere in pratica politiche di mobilità collettiva e sostenibile senza pericolo che queste vengano avversate. L’educazione dovrebbe partire dalla scuola insegnando a bambini e ragazzi che una crescita incontrollata della mobilità individuale non è più sostenibile. Sarebbe inoltre opportuno innalzare l’età per permettere ai ragazzi di guidare motorini o altri mezzi a motore o di limitare gli spostamenti motorizzati solo in determinate circostanze o a fronte di particolari necessità. Un provvedimento doveroso anche per la salvaguardia dei giovanissimi dalle spaventose conseguenze degli incidenti in motocicletta che evidenzino ormai una quota preponderante rispetto alle automobili. Doverso, ma molto difficile visto lo strapotere dei costruttori italiani di veicoli a due ruote.
Le amministrazioni dovrebbero assumersi la totale responsabilità nel valutare l’impatto di traffico in ogni tipo di iniziativa che intendeno intraprendere e applicare politiche di mobilità collettiva orientate al contenimento del traffico privato: dalla concessione di un permesso per un centro commerciale, all’insediamento di un nuovo ospedale, dalle manifestazioni culturali agli spettacoli. Nel caso dei centri commerciali, per esempio, i gestori delle attività dovranno farsi carico di mettere in pratica sistemi gratuiti di trasporto pubblico (navette, pulmini) per il trasporto dei clienti e la consegna a domicilio delle merci acquistate. In occasione di spettacoli, concerti, partite o altri eventi capaci di attirare un pubblico numeroso dovranno anche essere impartite le disposizioni per permettere il raggiungimento del luogo della manifestazioni, facendo presente che l’accesso con mezzi propri è vietato. E se proprio non si vuole vietare, farlo pagare uno sproposito.
mercoledì 17 novembre 2010
La finanziaria su quattroruote
Tutto quello che è deteriore e negativo in un’automobile è fonte di reddito per Stato, Regioni e Comuni. Fateci caso:
L’auto è ingombrante (sempre più ingombrante) e occupa spazio: per parcheggiarla bisogna pagare una tariffa per lo spazio che si impegna. Giusto. Magari così si incentiva la gente a lasciare la macchina e uscire a piedi. Ma allora perché le amministrazioni comunali sono sempre alla ricerca di spazi per costruire nuovi parcheggi?
L’auto inquina e sporca l’aria. E’ vero che insudicia meno di una volta, ma è altrettanto vero che la si usa molto di più che in passato. Alcuni Comuni fanno pagare per entrare in città, come se fuori dalle città le automobile si astenessero dall’essere nocive. Il famoso Ecopass di Milano non è servito ad abbattere i livelli di inquinamento, ma ha generato proventi molto elevati verso le casse del Municipio per i permessi rilasciati, ma anche sulle infrazioni commesse dagli utenti alle prese con procedure e sistemi non sempre comprensibili ed agibili.
L’auto va forte, e quindi viene multata dall’autovelox, ma se non la si ferma prima ferisce e uccide chi la guida e chi ne viene travolto. E’ giusto pagare per potere coprire le spese di risarcimento delle persone che vengono ferite o ai familiari delle vittime. Ma perché devo corrispondere allo stato una tassa del 12,5% per una polizza RCAuto che risulta essere una delle più care d’Europa?
Parliamo poi della pessima abitudine delle automobili di bruciare benzina che è ancora gravata da accise dovute a catastrofi risalenti alla notte dei tempi. Questo è uno dei capitoli più seccanti della politica economica degli anni ‘70, la vera, unica ed originale politica delle “mani in tasca agli italiani” che qualcuno ama oggi ripetere.
L’elenco potrebbe continuare: il contributo per l’olio esausto, per lo smaltimento dei pneumatici e altre parti pericolose quali le batterie che agli italiani piace tanto abbandonare sui campi o nei boschetti.
Non mi si fraintenda: è giusto fare pagare l’accesso a chi vuole andare in centro, addossare parte degli oneri per lo smaltimento di sostanze dannose a chi le ha usate e pagare dei premi assicurativi per cautelare se stesse e le potenziali vittime della strada.
La domanda piuttosto è: ma siamo così sicuri che le istituzioni si impegnino veramente per ridurre il traffico automobilistico se sono consapevoli che dal momento che ci sono meno auto circolanti, diminuisce anche il flusso finanziario a loro favore?
Quali alternative potrebbe offrire una bicicletta che non inquina, che non genera scorie e rifiuti se non gli esili copertoncini che normalmente si tengono fino a quando si vede la tela, non va forte e quindi non può essere multata, non consuma nulla che costi molto in estrazione, trasporto, raffinazione e distribuzione con tutti gli oneri fiscali che si accumulano da un passaggio all’altro, che non occupa spazio anche se molti ancora non le vogliono vedere nei cortili (vedi il mio post "quanta vergogna su quelle due ruote"). Insomma che cosa si può cavare da un ciclista se non tendergli un agguato per multarlo perché andava sul marciapiede? Almeno quello. Ecco forse spiegato il motivo perché in Italia non si costruiscono le piste ciclabili.
venerdì 12 novembre 2010
Gioco responsabile, Stato irresponsabile
Un tempo il gioco era appannaggio della facoltosa borghesia che ricercava nelle fastose sale di Casinò rinomati e prestigiosi il brivido dell’azzardo, piacere ormai svanito e svilito dall’affermarsi dei canoni omologati del benessere: la posizione, il potere, la famiglia e la reputazione.
La possibilità di affermare il proprio potere e la solidità delle posizioni patrimoniali e finanziarie assumendo la decisione di affidare alla sorte l’accrescimento o il depauperamento della propria fortuna diventa un emblema di ricchezza e sfrontatezza che solo chi non ha obblighi nei confronti di alcuno può assumere. L’”extrema ratio” dell’atto di puntare al gioco diventa la sfrontata sfida nei confronti di chi da quel mondo era escluso, una sfida che declamava: sono così ricco che posso decidere di diventare un misero straccione nel giro di una serata!
Oggi le cose sono cambiate: le grandi fortune molte volte si perdono nelle non sempre illuminate vie dei paradisi fiscali, delle attività all’estero, dei finanziamenti occulti. Attività azzardate, rischiose da altri punti di vista.
Oggi il gioco d’azzardo è una piaga sociale. Se un tempo i repentini crolli finanziari di benestanti viveur diventavano il soggetto di romanzi d’appendice o feuilleton popolari, oggi una famiglia che scopre di avere un componente affetto da ludopatia, quando e se lo scopre, è ormai sull’orlo della rovina. Una persona affetta da mania compulsiva del gioco comincia ad intaccare il reddito, il patrimonio, a minare i presupposti di stabilità finanziaria della sua famiglia. Quando questo avviene, avviene in silenzio perché chi mette la mano sulla bocca del povero disgraziato e gli impedisce di urlare la sua disperazione è il miraggio della grande vincita che metterà tutto a posto. Ma la vincita non arriverà mai e le cose a posto, le metteranno parenti, familiari ed amici. Se mai ci riusciranno.
Le occasioni per diventare un dipendente dal gioco sono tante: si gioca per strada, al bar, alla stazione, negli autogrill, al computer. Insomma non c’è più bisogno di nascondersi nelle bische clandestine per sfidare la sorte e neppure il casinò, con il suoi scialbi cerimoniali da belle epoque. Oggi c’è la concorrenza di quegli squallidi capannoni periferici stipati di macchinette e gente che si rovina le giornate a buttare via quattrini su quattrini per avere nulla in cambio.
Chi invece ha molto in cambio è lo Stato che è riuscito a creare un sistema di riscossione immediata collegato a tutti i punti reali e virtuali della scommessa legale. Un investimento di milioni di euro per creare un’infrastruttura informatica deputata alla contabilizzazione delle giocate,delle vincite, dei proventi destinati a se stesso , degli aggi da devolvere ai gestori. Quando si dice che lo stato punta all’informatizzazione. Peccato che quando la fa seriamente, lo faccia solo per il proprio tornaconto.
Nella provincia di Milano le slot machines da sole inghiottono ogni giorno un milione e seicentomila euro. Una cascata di un milione e seicentomila monetine che ogni giorno allagano bar e altri locali pubblici. Senza contare lotterie, tagliandi da grattare, scommesse e poker on line, l’altra frontiera dell’azzardo dove la tua sconfitta e l’inizio della rovina non è neppure accompagnato dal ghigno beffardo e compito del croupier.
Un mondo di derelitti che si aggirano tra tabaccherie, sale scommesse, bar e autogrill attirati dai nuovi pescecani dell’azzardo, tipi untuosi che hanno riproposto le proprie competenze di biscazzieri clandestini in attività lecite quali giochi di carte on line, sale di scommesse, piccoli casinò suburbani in partnership con un socio che tutti vorremmo avere: lo Stato
Il mondo del gioco oggi genera cifre pazzesche che contribuiscono alla casse dello Stato in misura molto elevata. Non si tratta di convincere i cittadini di pagare le tasse o di perseguire gli evasori. Un esercito di benevoli pagatori che contribuiscono alle necessità dello Stato con importi superiori all’entità delle imposte che legittimamente sono, o più spesso sarebbero, tenuti a versare. Senza che lo Stato faccia nulla per stanarli o perseguirli con cartelle esattoriali, fiamme gialle o ufficiali giudiziari.
E che cosa fa lo Stato quando si accorge che forse non è così lecito guadagnare sulla dabbenaggine di poveri diavoli? Ci manda in onda lo spot che invita a giocare responsabile.
A giocare responsabile. A giocare, certo, ma responsabile. E che cosa vuol dire? Gioca quel tanto che ti serve per vivere tranquillo. Ma se gioco poco non vinco perché le vincite seguono la legge dei grandi numeri. Per vincere alle lotterie istantanee dovrei giocare per 12 volte al giorno per almeno 10 anni. Giocare responsabile che cosa significa? Che posso giocare solo per un anno? Solo una volta al giorno per 10 anni? Che cosa devo fare per vincere? Spendere una certa somma ogni giorno, uscire senza portafoglio? Dare tutti i miei guadagni a mia moglie?
Il ragionamento peloso del comunicato insinua, in chi lo vede, il significato positivo del gioco, morigerato e responsabile che alla fine premia il buon padre di famiglia con vincite in grado di sollevare il tenore della famiglia. Non è cosi! Le vincite non arrivano e il tenore della famiglia degrada verso livelli di povertà. Oltre a fornire esempi genitoriali abbruttiti dal vizio e isolati dal mondo.
Se lo Stato fosse civile e non irresponsabile limiterebbe con mezzi efficaci la possibilità che un cittadino possa sprecare al gioco i soldi che servono per mandare avanti la famiglia. Ci possono essere molti mezzi. Uno addirittura banale e consiste nel verificare tramite un supporto elettronico, per esempio la carta d’identità di nuovo tipo dotata di microchip, se il giocatore ha totalizzato una certa cifra spesa nell’arco della giornata o della settimana. Tutti i dispositivi atti a ricevere giocate e tutti gli operatori addetti ad accettare scommesse o vendere tagliandi gratta e vinci non potranno rilasciare nessun servizio di gioco se dalla lettura delle carta risultasse che il titolare ha superato il suo plafond. Se si sgarra scattano le sanzioni fino al ritiro delle licenze. Se una vincita viene conseguita oltre il plafond , perché qualcuno ha fatto il furbo, è nulla.
Pensate che questo possa bastare a creare i presupposti del”gioco responsabile”? No, perché nessuno è responsabile davanti al demone del gioco e dell’azzardo, ma almeno non si mandano in bancarotta le famiglie.
Pensate che lo Stato possa implementare un sistema del genere? No perché ci sono “difficoltà insormontabili e costi elevati”. A mio giudizio si spenderebbe un’inezia rispetto agli investimenti fatti per le infrastrutture di controllo delle giocate e di riscossione dei canoni di concessione esistenti.
Se lo Stato fosse responsabile e non irresponsabile costituirebbe un fondo per le famiglie vittime di persone che si sono giocati le mutande perche sono vittime due volte: di un padre, di una madre, un marito, una moglie o un figlio debole e infiacchito da un vizio compulsivo e di uno Stato insensibile e incapace di controllare la propria ingordigia. Esistono fondi che intervengono per le vittime della strada, ai quali tutti contribuiamo con parte del premio dell’assicurazione, fondi per le vittime dell’usura, vittime del racket, ma non un fondo per le vittime del gioco. Eppure ci vorrebbe poco a costituirlo: una minima frazione degli importi delle giocate andrebbe ad incrementare una disponibilità per dare aiuto e sollievo per quelle mogli quei padri che scoprono di avere un congiunto coperto di debiti, inseguito da creditori o peggio e non sanno spiegarsi perché.
L’invito a giocare responsabile continuerà ad essere disatteso almeno fino a quando non diventerà responsabile chi va pontificando senza dare il buon esempio. E lo spot non era neanche tanto bello.
La possibilità di affermare il proprio potere e la solidità delle posizioni patrimoniali e finanziarie assumendo la decisione di affidare alla sorte l’accrescimento o il depauperamento della propria fortuna diventa un emblema di ricchezza e sfrontatezza che solo chi non ha obblighi nei confronti di alcuno può assumere. L’”extrema ratio” dell’atto di puntare al gioco diventa la sfrontata sfida nei confronti di chi da quel mondo era escluso, una sfida che declamava: sono così ricco che posso decidere di diventare un misero straccione nel giro di una serata!
Oggi le cose sono cambiate: le grandi fortune molte volte si perdono nelle non sempre illuminate vie dei paradisi fiscali, delle attività all’estero, dei finanziamenti occulti. Attività azzardate, rischiose da altri punti di vista.
Oggi il gioco d’azzardo è una piaga sociale. Se un tempo i repentini crolli finanziari di benestanti viveur diventavano il soggetto di romanzi d’appendice o feuilleton popolari, oggi una famiglia che scopre di avere un componente affetto da ludopatia, quando e se lo scopre, è ormai sull’orlo della rovina. Una persona affetta da mania compulsiva del gioco comincia ad intaccare il reddito, il patrimonio, a minare i presupposti di stabilità finanziaria della sua famiglia. Quando questo avviene, avviene in silenzio perché chi mette la mano sulla bocca del povero disgraziato e gli impedisce di urlare la sua disperazione è il miraggio della grande vincita che metterà tutto a posto. Ma la vincita non arriverà mai e le cose a posto, le metteranno parenti, familiari ed amici. Se mai ci riusciranno.
Le occasioni per diventare un dipendente dal gioco sono tante: si gioca per strada, al bar, alla stazione, negli autogrill, al computer. Insomma non c’è più bisogno di nascondersi nelle bische clandestine per sfidare la sorte e neppure il casinò, con il suoi scialbi cerimoniali da belle epoque. Oggi c’è la concorrenza di quegli squallidi capannoni periferici stipati di macchinette e gente che si rovina le giornate a buttare via quattrini su quattrini per avere nulla in cambio.
Chi invece ha molto in cambio è lo Stato che è riuscito a creare un sistema di riscossione immediata collegato a tutti i punti reali e virtuali della scommessa legale. Un investimento di milioni di euro per creare un’infrastruttura informatica deputata alla contabilizzazione delle giocate,delle vincite, dei proventi destinati a se stesso , degli aggi da devolvere ai gestori. Quando si dice che lo stato punta all’informatizzazione. Peccato che quando la fa seriamente, lo faccia solo per il proprio tornaconto.
Nella provincia di Milano le slot machines da sole inghiottono ogni giorno un milione e seicentomila euro. Una cascata di un milione e seicentomila monetine che ogni giorno allagano bar e altri locali pubblici. Senza contare lotterie, tagliandi da grattare, scommesse e poker on line, l’altra frontiera dell’azzardo dove la tua sconfitta e l’inizio della rovina non è neppure accompagnato dal ghigno beffardo e compito del croupier.
Un mondo di derelitti che si aggirano tra tabaccherie, sale scommesse, bar e autogrill attirati dai nuovi pescecani dell’azzardo, tipi untuosi che hanno riproposto le proprie competenze di biscazzieri clandestini in attività lecite quali giochi di carte on line, sale di scommesse, piccoli casinò suburbani in partnership con un socio che tutti vorremmo avere: lo Stato
Il mondo del gioco oggi genera cifre pazzesche che contribuiscono alla casse dello Stato in misura molto elevata. Non si tratta di convincere i cittadini di pagare le tasse o di perseguire gli evasori. Un esercito di benevoli pagatori che contribuiscono alle necessità dello Stato con importi superiori all’entità delle imposte che legittimamente sono, o più spesso sarebbero, tenuti a versare. Senza che lo Stato faccia nulla per stanarli o perseguirli con cartelle esattoriali, fiamme gialle o ufficiali giudiziari.
E che cosa fa lo Stato quando si accorge che forse non è così lecito guadagnare sulla dabbenaggine di poveri diavoli? Ci manda in onda lo spot che invita a giocare responsabile.
A giocare responsabile. A giocare, certo, ma responsabile. E che cosa vuol dire? Gioca quel tanto che ti serve per vivere tranquillo. Ma se gioco poco non vinco perché le vincite seguono la legge dei grandi numeri. Per vincere alle lotterie istantanee dovrei giocare per 12 volte al giorno per almeno 10 anni. Giocare responsabile che cosa significa? Che posso giocare solo per un anno? Solo una volta al giorno per 10 anni? Che cosa devo fare per vincere? Spendere una certa somma ogni giorno, uscire senza portafoglio? Dare tutti i miei guadagni a mia moglie?
Il ragionamento peloso del comunicato insinua, in chi lo vede, il significato positivo del gioco, morigerato e responsabile che alla fine premia il buon padre di famiglia con vincite in grado di sollevare il tenore della famiglia. Non è cosi! Le vincite non arrivano e il tenore della famiglia degrada verso livelli di povertà. Oltre a fornire esempi genitoriali abbruttiti dal vizio e isolati dal mondo.
Se lo Stato fosse civile e non irresponsabile limiterebbe con mezzi efficaci la possibilità che un cittadino possa sprecare al gioco i soldi che servono per mandare avanti la famiglia. Ci possono essere molti mezzi. Uno addirittura banale e consiste nel verificare tramite un supporto elettronico, per esempio la carta d’identità di nuovo tipo dotata di microchip, se il giocatore ha totalizzato una certa cifra spesa nell’arco della giornata o della settimana. Tutti i dispositivi atti a ricevere giocate e tutti gli operatori addetti ad accettare scommesse o vendere tagliandi gratta e vinci non potranno rilasciare nessun servizio di gioco se dalla lettura delle carta risultasse che il titolare ha superato il suo plafond. Se si sgarra scattano le sanzioni fino al ritiro delle licenze. Se una vincita viene conseguita oltre il plafond , perché qualcuno ha fatto il furbo, è nulla.
Pensate che questo possa bastare a creare i presupposti del”gioco responsabile”? No, perché nessuno è responsabile davanti al demone del gioco e dell’azzardo, ma almeno non si mandano in bancarotta le famiglie.
Pensate che lo Stato possa implementare un sistema del genere? No perché ci sono “difficoltà insormontabili e costi elevati”. A mio giudizio si spenderebbe un’inezia rispetto agli investimenti fatti per le infrastrutture di controllo delle giocate e di riscossione dei canoni di concessione esistenti.
Se lo Stato fosse responsabile e non irresponsabile costituirebbe un fondo per le famiglie vittime di persone che si sono giocati le mutande perche sono vittime due volte: di un padre, di una madre, un marito, una moglie o un figlio debole e infiacchito da un vizio compulsivo e di uno Stato insensibile e incapace di controllare la propria ingordigia. Esistono fondi che intervengono per le vittime della strada, ai quali tutti contribuiamo con parte del premio dell’assicurazione, fondi per le vittime dell’usura, vittime del racket, ma non un fondo per le vittime del gioco. Eppure ci vorrebbe poco a costituirlo: una minima frazione degli importi delle giocate andrebbe ad incrementare una disponibilità per dare aiuto e sollievo per quelle mogli quei padri che scoprono di avere un congiunto coperto di debiti, inseguito da creditori o peggio e non sanno spiegarsi perché.
L’invito a giocare responsabile continuerà ad essere disatteso almeno fino a quando non diventerà responsabile chi va pontificando senza dare il buon esempio. E lo spot non era neanche tanto bello.
mercoledì 10 novembre 2010
Umanità in movimento. Viaggi all'orgine della globalizzazione
Eccoci di nuovo con i nostri viaggi di carta. Questa volta non un luogo, ma tanti luoghi e un viaggio di un giornalista del Corriere della Sera, Federico Fubini. Il contrasto tra l'Occidente in decadenza e l'Oriente in fase di crescita esplosiva, è messo in luce da Fubini con la convincente illustrazione di fatti e persone che spiegano il successo delle economie di alcuni Paesi dell'Asia, ma anche la messa in moto di flussi di immigrazione sbandata e senza adeguati supporti normativi e umanitari. Un libro da leggere, soprattutto da parte di chi viaggia davvero verso quelle parti del mondo.
I sentieri dell'immigrazione sovrapposti ai flussi finanziari che congiuntamente approdano ai luoghi simbolo dell'economia globalizzata; appendici di umanità rigettata da guerre lontane che vengono catapultate in Paesi del tutto estranei ad ogni logica culturale, razziale e linguistica; ventate di imprenditoria Vietnamita e Cambogiana nata sui residui di conflitti e rivoluzioni del passato che mettono al servizio dei propri governi le leve giuste per conciliare le necessità “sporche” dei Paesi occidentali. Il viaggio di Fubini parte dai territori di confine tra Russia e Cina dove i miti del lavoratore maschio sovietico si indebolisce ulteriormente di fronte alla necessità di attrarre donne cinesi; ci porta a camminare sulla sottile linea di demarcazione che separa rigidamente le giurisdizioni del piccolo stato del Qatar dove sussistono ordinamenti legislativi di stampo anglosassone concepiti per favorire il trapianto delle regole del "fair play" affaristico occidentale e confinanti con zone di degrado e sfruttamento di manodopera multietnica. Il giornalista del Corriere con una narrazione precisa e veloce e con abbondante dovizia di informazioni in presa diretta, ci offre un caleidoscopio di Paesi, nazionalità e peregrinazioni che abbraccia tutta tutte le regioni dell'Asia culla del fermento economico del Terzo Millennio, comprese quelle regioni della Penisola Arabica che con metodi pilateschi cercano di sganciarsi dal peso di un'economia costruita esclusivamente sul petrolio. Transita nelle zone più martoriate dell'Africa, il Sudan, dove nell'indifferenza generale si consuma uno dei più efferati e scellerati esempi di colonialismo socialista da parte del Governo cinese. Termina in Albania, alle porte di casa nostra, raccontando la storia assurda di ventidue prigionieri cinesi di etnia uigura che hanno trovato in questa nazione con effimeri trascorsi di collaborazione filocinese, un destino finale poco prevedibile, beffardo e senza speranza. Un libro da leggere per capire che i destini di popoli, nazioni, ricchezze e miserie sono tutt'altro che punti fermi delle nostre conoscenze.
Federico FUBINI (2010), Destini di Frontiera, Da Vladivostok a Khartoum, un viaggio in nove storie, Laterza ISBN 978-88-420-9203-2
martedì 2 novembre 2010
Il risparmio si vede dal buongiorno
Se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, è anche vero che i nostri propositi di preservare le risorse del pianeta possono cominciare ad inizio giornata, magari facendoci la barba. Per esempio usare il pennello e la crema da barba allo stato solido, quella che si prende direttamente dalla ciotolina, evita di impiegare barattoli di acciaio e le energie impiegate per produrlo, riempirlo di aria compressa, etichettarlo e riciclarlo. Il contenitore di sapone da barba è più discreto e poco appariscente perchè non si rivolge al target dei consumatori gaudenti, ma è ancora indirizzato ad un pubblico di consumatori anziani. Anche se rimane sempre un barattolo di plastica. Spennellarsi la faccia con il pennello è più gradevole che passarsi manate di schiuma bianca sulla faccia e, tenuto conto che quella roba è innaturalmente bianca, è anche meno inquietante. Inoltre una confezione di sapone da barba, oltre a costare molto meno della bomboletta spray, dura molto, ma molto di più. E poi me la posso portare anche in aereo. Finito? No. Abbiamo finito di tappezzare la terra di chilometri di rasoi usa e getta? Se tornassimo al vecchio rasoio con la cara (sebbene un po' orripilante) lametta di acciaio ci sarebbe un notevole risparmio di risorse ed energie. Avete mai provato a prendere in mano un rasoio, come quello che avete visto l'ultima volta da piccoli, quando ammiravate vostro padre davanti allo specchio che si radeva con la sigaretta pendula di lato? Adesso fumare è una pratica socialmente sconveniente, ma ripristinare un rasoio di metallo dovrebbe essere incentivato. Provate a prenderlo in mano: è un oggetto pesante, robusto e solido in ragione del fatto che deve essere condotto con mano sicura per evitare tagli o escoriazioni. Un invito alla riflessione mattutina. I modelli più sofisticati hanno anche una ghiera per regolare la profondità di una taglio. Lo si sceglie in un negozio di coltelli, tabaccherie specializzate o ferramenta con ampio assortimento; negozi da uomini comunque, ascoltando i consigli del negoziante come quando si compra l'auto o si cambia la racchetta da temnis. E lo si tiene per tutta la vita.
Infine le lamette. Quei sottili foglietti d'acciaio avviluppati uno ad uno in deliziosa carta velina e racchiuse in minuscole bustine che assomigliano all'avviso del messaggio e-mail in arrivo, non si trovano dappertutto. I centri commerciali non le tengono quasi più. Per trovarle dovete chiedere alla commessa che vi guarderà stralunata pensando solo a due cose: che siete un potenziale suicida o che siete un uomo d'altri tempi.
martedì 26 ottobre 2010
Perchè non produrre meno rifiuti?
Mi ero riproposto di evitare di portare alla ribalta di questo spazio personale fatti o accadimenti che affondassero la propria origine nei puri eventi di cronaca o di attualità. Le ragioni della mia consapevole e cosciente volontà di astensione trova sostegno nella mia personale riflessione che il fatto di cronaca, di qualsivoglia natura, è già oggetto di innumerevoli commenti da parte di altrettanti autori che volenterosamente contribuiscono a formare quella pletora di opinioni espresse nella rete il cui suffragio o biasimo genera la “voce”o il “parlato” della Rete.
Per contro, la questione della spazzatura in Campania, mi ha esortato a trascurare la mia dichiarata volontà di omissione e di intervenire con qualche riflessione, anche in ragione della ripresa di alcuni temi e argomenti trattati da questo blog. La spazzatura, infatti, come tutto ciò che viene banalmente trattato come rifiuto, si coniuga idealmente con il sottofondo continuo delle mie esortazioni al contenimento dei consumi in quanto un rifiuto è un costo e più ne produciamo e più spendiamo. Dato dunque che il mio intendimento è quello di vivere cercando di spendere il meno possibile, meno rifiuti produciamo, meno spendiamo.
Tolto questo sillogismo che vi ho esposto solo per ribadire i confini entro i quali si muovono le mie riflessioni, passiamo subito alle considerazioni che girano intorno al mondo dei rifiuti e ai gravi accadimenti di cronaca che puntualmente la portano alla ribalta in varie parti d’Italia.
Partiamo dalla constatazione generale che il rifiuto è qualche cosa che dipende al 100%da quello che decidiamo di fare noi stessi decretandone, in ragione dei nostri consumi, la quantità che quotidianamente decidiamo di avviare ad attività di raccolta, smaltimento e riciclo. Per intenderci, se mangio una pera normalmente, a meno che non sia affamato come Pinocchio, il torsolo, la buccia e il picciolo lo getto nell’immondizia che diligentemente verserò nella cosiddetta frazione umida. Non esiste però nessuna norma mi obblighi a buttare il torsolo della pera nel cesto: potrò infatti decidere di mangiarlo (come Pinocchio, appunto), buttarlo in giardino per concimare il prato o semplicemente perché sono uno zozzone e butto la roba fuori dalla finestra, farne compost usando il mio impianto domestico oppure darlo alle galline o lasciarlo ai vermi e alla muffa. In tutti i precedenti casi, ho fatto qualche cosa di bello o di brutto, di ammirevole o riprovevole, ma non ho contribuito ad aumentare la massa di rifiuti che una filiera che sta fuori dalla porta di casa mia è sempre disponibile a raccogliere e avviare ad altre attività che riguardano il trattamento di tutte quelle cose che per vari motivi ho deciso di non tenere più in casa mia.
Passiamo a una situazione più complicata, purtroppo molto frequente nelle nostre abitudini quotidiane: al supermercato, quando ho deciso di comprare quella stessa pera che dopo essere stata mangiata mi presentava le varie opzioni di utilizzo descritte prima, ho dovuto anche comprare un vassoi etto di plastica, un foglio di cellofan che le protegge, un’etichetta di carta che indica il prezzo. Se poi le pere dovranno essere trasportate a casa insieme al resto della spesa, dovrò anche comprare un sacchetto di plastica che, inesorabilmente, raccoglierà la vaschetta delle pere vuoto e insieme ripartiranno per un altro viaggio verso la discarica o l’inceneritore (o i bordi delle strade sempre per il medesimo principio che dei rifiuti posso fare quello che voglio).
Se decido di cambiare il televisore che mi propina tanta pubblicità di pere, di succhi di pera, di omogeneizzati di pera, di gelati di pera, di torte di pera, il problema sarà ancora più grande perché dovrò non solo smaltire i grossi quantitativi di cartone, sacchetti di plastica, legacci e fermagli di vario tipo, materiale da imballo, ma anche il vecchio televisore, che sicuramente funziona ancora, ma non so dove mettere e poi,se lo tengo, come faccio a giustificare l’acquisto di quello nuovo?
Il simpatico Babbo Natale che vuole tanto bene ai bambini, riserva trattamenti di genere diverso ai genitori in quanto la mattina del 25 la quantità di immondizia accumulata dopo la frenetica apertura dei regali e spaventosamente elevata rispetto all’esiguità del volume dei doni ricevuti. E non mi riferisco alla carta dorata e ai nastrini di raso per incartare le strenne, ma a tutto quello che si frappone tra l’involucro e il regalo stesso, al netto della decorazione natalizia: anche qui cartone, plastiche, cellophane, ferretti, contro-ferretti, sacchetti, fermi, pellicole, involucri tutto perfettamente distinguibile nel genere di materiale, per carità, per facilitare il riciclo, ma oltremodo voluminoso, invadente e soprattutto “da buttare”.
Appurato dunque che il volume dei rifiuti che produco dipende dalla quantità e qualità della roba che mi porto a casa, mi pongo legittimamente una domanda. Posso fare qualche cosa affinché io possa decidere di comprare una pera o un televisore senza trascinarmi dietro quantità enormi di materiale che dovrò buttare? Si è no. Si, perché nessuno mi obbliga a comprare un televisore nuovo ogni volta che esce un modello nuovo anche perché un televisore più antiquato che funziona in casa ce l’ho già. No, perché nessuno, per lo meno in Italia, ha pensato a studiare e promulgare leggi che limitino il proliferare di materiale da imballo il cui onere dello smaltimento ricade interamente sul consumatore.
Nel nostro Paese esistono i consorzi obbligatori per il corretto smaltimento di rifiuti pericolosi e il riciclo industriale di materiali destinati a diventare nuove materie prime. I produttori e gli importatori e di oggetti che implicano attività successive di smaltimento o riciclaggio pagano un obolo al consorzio per le contribuire alle spese che il consorzio deve sostenere per riciclare il materiale, renderlo adatto a determinate produzioni industriali e convincere i potenziali clienti della bontà della materia riciclata. Questo è il motivo per cui nella campana di vetro siete autorizzati a mettere le bottiglie di vino vuoto e i vasetti di conserva, ma non lo specchio rotto o il vetro della finestra. Infatti chi produce vetro per usi diversi dalla conservazione del cibo non è tenuto a partecipare al consorzio obbligatorio. Lo sapevate? Io per esempio che lo so, se mi capita di buttare il vetro del cornice a giorno che è caduta per l’ennesima volta continuo a buttarlo nella campane perché altrove mi sembra da incivile.
Finora abbiamo parlato del materiale da imballo. Materiali puliti e intonsi che appena vedono la luce del sole vengono presi e buttati in un cassonetto puzzolente a contaminarsi con schifezze immonde che di fatto renderanno poco redditizio la riconversione in nuove materie prime. Non abbiamo ancora preso in considerazione i cosiddetti oggetti che arrivano al “fine vita”. E il nostro bidone della spazzatura è già quasi pieno. Che poi fine vita non è mai. Semmai eutanasia illegale di milioni di telefonini, computer, schermi, televisori, elettrodomestici e, attrezzi per lo sport, utensili, ricambi, borse, scarpe e cinture, cappotti, giacche e maglioni, giocattoli, bambole, peluche, armadi, suppellettili, quadri, piatti, bicchieri, radio, … che sebbene destinabili ad un uso assai più duraturo, vengono inevitabilmente buttati nella loro interezza, l’esatto opposto del maiale, di cui, è risaputo, non si butta niente. E non è solo moda o impellente attitudine verso il nuovo, ma reale impossibilità di sostituire ciò che veramente deve essere buttato con il pezzo che ripristini le originarie condizioni d’uso del mio oggetto. Date un’occhiata alle spazzole tergilunotto della vostra auto: quello che si consuma è solo la spatola di gomma a contatto con il vetro. Il resto, il traliccio di ferro e plastica che si muove insieme ai bracci del tergicristallo durerebbe almeno quanto la vostra auto. Tuttavia l’elettrauto mi cambierà tutto il pezzo, spatola e braccio compreso. La spatola è giunta a fine vita, ma il pezzo di ferro che la conteneva avrebbe voluto continuare a viaggiare con noi, sotto la pioggia, per molti altri chilometri. Sarà difficile spiegargli perché deve morire con le spatole come una vedova indiana destinata alla pira del marito. Esiste qualcuno che produce solo le spatole? Ebbene si, presso i centri di bricolage OKI, ma fate attenzione perché gli adattamenti sono diversissimi fra loro.
Altra domanda: perché i produttori di articoli destinati ad essere cambiati con una regolare frequenza, non pensano a progettare i loro oggetti pensando alla sostituibilità delle parti più vulnerabili o soggette ad usura al fine di rendere meno imponente lo spreco di materiale buono da destinare alla discarica? Facile rispondere: nessuno glielo impone!
Proseguiamo nella nostra disamina: in Germania e in molti altri Paesi con legislazioni a tutela dell’ambiente più avanzate e meno ossequianti nei confronti degli interessi dei potentati, sono state concepiti metodi a cascata per limitare l’impiego di imballi facendo ricadere l’onere dello smaltimento non su chi compra, ma su chi vende. Come funziona questo metodo di equità dello smaltimento? Semplicemente andando a minacciare i margini di profitto che i vari elementi della catena produttiva contribuiscono a generare nel processo distributivo. Se il punto vendita che ha venduto la televisione al cittadino tedesco è obbligato, come succede in realtà in quel Paese, a destinare spazi altrimenti destinati ad attività commerciale per disporre i contenitori che dovranno accogliere le varie tipologie di scarto generate dall’acquisto del mio televisore, subirà una perdita di opportunità. Se deve anche prelevare il materiale una volta che i contenitori sono pieni dovrà pagare un commesso perché lo faccia bene e senza farsi male o fare pasticci. Se poi deve anche prendere il tutto e portarlo ad un centro di raccolta dovrà anche usare un camioncino e perdere del tempo in cosa in attesa del suo turno. A questo punto il titolare del magazzino dirà ai suoi fornitori di usare meno imballo o in alternativa, chiederà ai produttori che lo riforniscono di contribuire ai costi dello smaltimento. Probabilmente una via d’accordo la troveranno e il consumatore tedesco non solo continuerà a non pagare una tassa perché qualcuno gli porti via la spazzatura dalle strade, ma sarà anche contento perché quando acquisterà il nuovo televisore avrà meno immondizia da riportare indietro. Semplice, no? Per alcuni versi geniale. E’ una legge e la si rispetta, nell’interesse di tutti. In Italia? No, niente di tutto questo perché da noi c’è la tassa spazzatura. Dimmi in quanti metri quadri vivi e ti dirò quanto devi pagare e poi produci tutta la spazzatura che vuoi. E non dite che in Italia non si promulgano leggi o decreti a favore dell’ambiente: siamo stati il primo Paese dell’Unione che ha deciso di anticipare la messa al bando dei sacchetti di plastica per la spesa. Avete visto: animi sensibili sempre pronti a recepire tutto quello che a noi non costa niente e ci fare bella figura.
Passo dunque ad enunciare il primo postulato della mia riflessione: se il problema della spazzatura è legato al suo smaltimento, perché non si impiegano risorse ed energia per arginare la quantità di rifiuti prodotti piuttosto che spendere soldi per fronteggiare emergenze che, perlomeno da quello che si osserva, non giungono mai a radicali soluzioni?
Facciamo un altro esempio; ripercorriamo le vicende che interessano una bottiglia di acqua minerale che, dopo l’appassionato bocca a bocca, gettiamo via senza tanti rimpianti. Dal cassonetto della plastica questa viene prelevata da un camion che la conduce in un centro dove sistemi automatizzati provvederanno alla separazione della plastica dagli altri materiali che hanno condiviso il regime condominiale del cassonetto come metallo, latta e alluminio. E a questo punto sorge già il primo nodo in quanto la plastica non è tutta uguale. Essa infatti ha determinate composizioni a seconda dell’utilizzo per la quale è pensata e per essere perfettamente riciclabile il materiale di origine deve avere una connotazione omogenea come PET, PE, PP, PMMA, sigle che identificano il nome del polimero utilizzato. Facendo un minestrone di tutto, come è logico aspettarsi a meno di non obbligare il cittadino a gettare i rifiuti facendo un’ulteriore differenziazione sulle tipologie di plastica da riciclare con costi e oneri improponibili, il risultato è che il prodotto derivante dal riciclo non sarà utilizzabile se non per un campo di applicazioni molto limitato: vengono esclusi, per esempio gli impieghi per usi alimentare, le applicazioni industriali con elevata componente tecnologica come l’elettronica e l’ottica ma trovano impiego nei materiali più utilizzate per i rivestimenti meno appariscenti delle automobili, per le giostre e altre attrezzature per parchi giochi, tavole da windsurf e fibre tessili come il pile.
E’ ovvio che di fronte a queste difficoltà e in ragione di modesti ritorni in termini economici, qualcuno si sia chiesto se tutto questo valesse la candela. Se teniamo conto che se la stessa bottiglia avesse preso per sbaglio la strada del termovalorizzatore, essa avrebbe contribuito, bruciando, a creare energia dato che il numero di calorie necessarie ad incendiarla è minore rispetto a quelle che produce. A tutti gli effetti questa energia può essere considerata proveniente da fonte rinnovabile visto che la spazzature non può essere certo definita una risorsa scarsa. Come si fa, pertanto, a trovare intese che portino ad una maggiore collaborazione per una minore abbondanza di rifiuti se qualcuno obbietta che i rifiuti sono una ricchezze e più ne produciamo più sono, appunto, valorizzati?
I motivi che determinano l'abbondanza di rifiuti che poi, per svariati motivi non riusciamo a smaltire senza incappare in periodiche crisi, vanno individuati sostanzialmente in tre ordini di motivi: il primo di scarsa predisposizione individuale a collaborare per ottimizzare la raccolta differenziata; se le amministrazioni intervenissero con sanzioni (sempre minacciate, ma mai effettivamente praticate), il processo di differenziazione funzionerebbe meglio e tutta la filiera ne trarrebbe beneficio. Il secondo punto è il concetto di onere da pagare per lo smaltimento dei rifiuti che, sebbene si definisca tariffa, opera come un vero e proprio balzello da pagare e che ci legittima a produrre rifiuti senza nessun incentivo a ridurre la quantità. Se le stesse amministrazioni di cui sopra invece di pascersi degli introiti derivanti da quanto i cittadini pagano per i rifiuti trovassero modalità per premiare gli atteggiamenti virtuosi il consumo di rifiuti potrebbe ulteriormente ridursi. A Verona, per esempio il comune premia con sconti sulla tariffa chi evita di sprecare il cibo e si organizza per donare il surplus a chi ne ha bisogno. In ultimo chi produce, distribuisce e soprattutto, vende materiale che diventerà materiale destinato alla discarica deve contribuire in modo diretto (e non indiretto con l'adesione ai consorzi che poi generano oneri che ricadono sul prezzo finale) allo smaltimento dei "loro" rifiuti" E a questo deve provvedere il Governo con opportuni provvedimenti.
Torniamo al torsolo della mia pera, protagonista dell'inizio di questo post e seguimolo nel suo ultimo viaggio dal cassonetto alla sua destinazione finale. Se prenderà la volta per l'impianto di compostaggio verrà trattato in modo da diventare concime per le aiuole e i giardini degli stessi comuni di provenienza. Se invece andrà in discarica inizierà a decomporsi generando quell'effetto che immediatamente si collega al concetto stesso di spazzatura: la puzza.
Il motivo che scatena l’ira dei manifestanti contro le discariche a Terzigno e adesso a Giuliano è sostanzialmente l’odore. La puzza persistente di materiale organico in decomposizione che accompagna la giornata e ti fa prevedere il tempo che farà dalla maggiore o minore intensità. Il materiale organico, ovvero quello che doveva raggiungere già da qualche anno la soglia del 35% sul totale dei rifiuti raccolti, in alcune zone della Campania non è mai partita anche se trai soldi destinati all’emergenza sono stati spesi circa 2 miliardi di euro (leggete bene) per farla partire dopo innumerevoli distribuzioni di cassonetti, contenitori e altro materiale che ha raccolto di tutto tranne che spazzatura accuratamente distribuita. Ricordate Suor Emmanuelle? Ve ne avevo parlato in un post di qualche giorno fa. Questa religiosa francese che non aveva neppure avuto un momento di imbarazzo quando doveva affondare fino alle ginocchia per portare il suo aiuto ai miserevoli spazzini di Città del Cairo che nella spazzatura ci vivevamo perché era l’unica fonte di sostentamento, è stata una delle prime a fiutare il valore della spazzatura come risorsa aprendo impianti di compostaggio in Egitto e in altre zone del mondo diseredato. Con pochi soldi, con l’aiuto di pochi e con tanta forza di volontà. Quella che manca a chi il problema dei rifiuti non lo vuole risolvere.
lunedì 18 ottobre 2010
Le inique sanzioni
Ogni tanto le prime pagine dei giornali riportano notizie di sanzioni di importo molto elevato che vengono comminate dalla AGCM, l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato presieduta da Antonio Catricalà, nei confronti di importanti aziende per pratiche commerciali scorrette, abuso della posizione dominante o concertazione di attività di cartello che sfuggono alle maglie dei controlli ufficiali. Normalmente queste notizie rimangono elementi di cronaca isolati i quali, sollevato lo scalpore e l’indignazione iniziale, si perdono nei ricorsi e controricorsi per ritornare ad essere argomento di lettura solo su quotidiani e riviste di economia, bollettini degli organi professionali coinvolti (avvocati, periti, consulenti,manager), ma quasi mai ripresi dalla stampa quotidiana. Normalmente si tratta di aziende che operano nel settore delle utilities come forniture di gas o energia elettrica e che operano in regimi commerciali assai simili agli oligopoli dove i beni proposti hanno le caratteristiche di commodities per le quali il costo e i suoi incrementi non sono sufficienti a determinare la rinuncia al servizio (non posso rimanere senza luce e gas) o a stimolare la ricerca di un fornitore più a buon mercato. L’entità delle sanzioni è molto elevata perché il calcolo di questa comporta la determinazione del periodo in cui la pratica incriminata è rimasta attiva e il numero di persone coinvolte come, per esempio, il totale degli abbonati attivi o il bacino potenziale della audience obiettivo di un messaggio pubblicitario.
Al di là di questi casi clamorosi, che in realtà vengono portati agli onori delle cronache abbastanza raramente, il lavoro dell’Autorità è molto più intenso, assiduo e soprattutto, molto accurato e puntiglioso. Per farsene un’idea basta andare sul sito dell’Autorità www.agcm.it e iniziare a scorrere i bollettini periodici che escono con l’elevata frequenza di uno alla settimana e che riportano pagine dense di dati, fatti e circostanze e elementi a difesa sui quali vengono poi fondate le decisioni dell’Autorità. Dalla lettura dei documenti risulta subito chiaro che le competenze a disposizione dell’organo sono molto affilate in termini di conoscenze giuridiche, economiche e contrattuali. Tuttavia, se le competenze sono affilate, sono le armi di offesa ad essere un po’ spuntate; infatti se si va a vedere l’entità delle sanzioni elevate ad aziende che hanno assunto comportamenti sfociati successivamente in pratiche commerciali scorrette e diffusione di messaggi pubblicitari artatamente destinati a confondere l’ignaro destinatario, si rimane sorpresi dell’esiguità degli importo comminati. Talmente irrisori che non fungono neppure da deterrente nel perseverare negli stessi “errori” già sanzionati.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, per esempio, nella sua adunanza del 26 agosto 2010 (1) ha ritenuto che la società farmaceutica Bracco, che ha fatturato nel 2009 1 miliardo di euro generando utili per 49 milioni di euro, abbia calcato un po’ troppo la mano nell’ illustrare le proprietà terapeutiche di alcune specialità da lei prodotte, fornendo un quadro che, alla riprova dei fatti, ha dimostrato effetti terapeutici assai più modesti di quanto prospettato. Nella fattispecie si trattava di due integratori alimentari, Cogiton e Stenovit, rispettivamente capace, il primo, di prevenire e di contrastare le patologie neuro-degenerative cellulare e, nel caso di Stenovit, utile per pazienti a rischio di danno cardiovascolare. L’atto di censura dell’Autorità ha preso di mira il materiale informativo destinato al personale medico, reo di fornire un’informazione eccessivamente sovradimensionata rispetto alle effettive possibilità terapeutiche. E non si tratta di cosa da poco, visto che l’intento era di convincere i medici del valore di un prodotto destinato a contrastare malattie potenzialmente in grado di affliggere una consistente quota della popolazione, ormai sempre più vecchia e bisognosa di cure croniche. Ebbene, volete sapere che cosa paga di sanzione la Bracco per essere stata un po’ troppo ottimista nel comunicare i propri meriti? 70.000 euro di sanzione amministrativa per Cogiton e 80.000 per Stenovit. L’autorità ritiene congrua l’entità della sanzione, per carità, ma questa azienda fa 50 milioni di utile e si trova adesso a pagare una sanzione pari a quello che guadagnano in una settimana i suoi principali dirigenti. Se non fosse stato per la Sharper Healtcare che ha mosso un legittimo sospetto sulla veridicità delle affermazioni della società concorrente, per quanto tempo avrebbe perseguito la Bracco nella sua ottimistica campagna di promozione delle proprie specialità? E quanto avrebbe guadagnato nel frattempo? Una multa di entità così modesta può fare accusare all’azienda contraccolpi tali da mettere in atto precauzioni per evitare ulteriori “ricadute”?
Passiamo ad un altro settore, quello della telefonia mobile e più precisamente del mondo che ruota intorno alle proposte commerciali che hanno per destinatari i giovanissimi innamorati del proprio strumento di comunicazione personale e sempre desiderosi di personalizzarlo con nuovi orpelli. Nel caso specifico parliamo di Vodafone Omnitel Omntel NV che è l’ultima in ordine cronologico a finire nel mirino dell’autorità di controllo (2). La segnalazione parte da una denuncia inviata da un utente nel 2009 che sottoponeva all’autorità la presunta ingannevolezza di un messaggio promozionale volto a diffondere e promuovere una suoneria polifonica gratuita per cellulare, senza specificare che gli oneri relativi alla ricezione del messaggio che avrebbe successivamente attivato il gadget, comportava un costo di 1,58 euro addebitati direttamente dal conto telefonico dell’ignaro utente. Il comportamento è stato censurato dall’autorità che ha ritenuto il messaggio promozionale diffuso ingannevole in quanto, cito per intero la sentenza “presentando in modo ambiguo e incompleto informazioni rilevanti in merito alle caratteristiche e alle effettive condizioni economiche della promozione pubblicizzata, è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio in relazione al servizio offerto e suscettibile di indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. Sanzioni? 60.000 € calcolando circa 100.000 suonerie scaricate nel periodo settembre 2007 dicembre 2009, aggravate di alti 15.000 euro perché l’azienda risulta essere già stata in passato destinataria di altri provvedimenti in violazione del Codice del Consumo. E abbiamo fondati motivi di pensare che l’entità della sanzione per un’azienda che ha prodotto nel 2009 a livello globale, 8.310 milioni di euro di utili non fornirà seri motivi per astenersi dal compiere, in futuro, comportamenti altrettanto scorretti.
L’Autorità presieduta da Catricalà si è anche occupata di Sky Italia, la rete televisiva privata che ha fondato il proprio successo sull’offerta di rivolta agli appassionati di sport, in particolare di calcio. Nel caso specifico, su segnalazione di RTI (Reti Televisive Italiane) che gestisce la piattaforma di programmazione commerciale Mediaset Premium, è stato sottoposto al parere dell’organo di controllo il contenuto di spot radio-televisivo che pubblicizzava l’offerta “Tutto Sky a 29,90 Euro al mese”. La società concorrente, sentendosi implicitamente tirata in ballo dai testi dei comunicati della società concorrente, in data 22 febbraio 2010 ha presentato una richiesta di intervento all’Autorità segnalando una presunta ingannevolezza nei messaggi pubblicizzati che non informavano adeguatamente relativamente ai vincoli contrattuali e ai costi complessivi dell’offerta come per esempio il fatto che l’utente sottoscrittore rimaneva vincolato per un anno e non per i soli tre mesi dell’offerta, e, ovviamente, del fatto che dopo il primo trimestre i costi sarebbero inesorabilmente lievitati. Il parere dell’autorità è stato nettamente in favore del ricorrente in quanto gli elementi omissivi della proposta, si parla anche di costi di attivazione non esplicitati, costi per il decoder sottaciuti, erano di natura e in quantità tale da connaturare l’offerta come in grado di fornire informazioni non corrette o ingannevoli nei confronti dell’utente medio. L’entità della sanzione? 100.000 euro che avrebbero potuto essere “solo” 85.000 se il soggetto non fosse stato recidivo. E non dubitiamo che per una società che nel bilancio del 2009 ha potuto mettere un utile di 163 milioni di euro, correre il rischio di dovere pagare un’ammenda così irrisoria sia un blando monito dal commettere altre leggerezze.
In realtà non sarebbe corretto affermare che, alla luce della lieve entità delle sanzioni elevate, le armi in mano all’Autorità siano spuntate o poco efficaci. Tutto va valutato in una prospettiva di eque sanzioni da una parte, ma anche di efficaci strumenti per muovere azioni di rivalsa nei confronti dell’operatore “maldestro” o disattento, dall’altra. Se in Italia esistesse una procedura regolamentata che desse corpo alle intenzioni della legge sulle azioni di rivalsa collettiva, la famosa “class action” le possibilità che il reo ricada nella tentazione di peccare ancora sarebbero nettamente inferiori rispetto a quello che accade nella realtà. Purtroppo sembra che ci sia ancora molta diffidenza verso questo istituto, riscontrabile in molti ambienti: nei contesti associativi con Confindustria in primis, ma anche in ambito forense poiché gli avvocati non dispongono ancora di un protocollo interno per regolamentare le singole spettanze in caso azioni che possono arrivare a coinvolgere migliaia di persone.
E intanto le pratiche ingannevoli prosperano.
(1): Bollettino n°34 del 20 Settembre 2010 Provvedimento n.° 21494 pp 29-47
(2): Bollettino n°37 dell’ 11 Ottobre 2010 – Provvedimento 21598 - pp. 61-67
(3) Bollettino n° 29 del 29 Agosto 2010 – Provvedimento 21384 pp. 111- 118
giovedì 14 ottobre 2010
L'economia della strada
Alcuni anni fa ebbi la possibilità di partecipare ad un incontro organizzato dall’amministrazione comunale, allora di sinistra, della città in cui vivo, per discutere se e dove fare le piste ciclabili. L’impressione che ricevetti fu quella di un’amministrazione distratta da altre questioni che dedicava, suo malgrado, del tempo ad ascoltare dei tipi un po’ eccentrici che proponevano un proprio modo di gestire i trasporti in una piccola città con meno di sessantamila abitanti.
Mi permisi di fare due osservazioni. La prima di fondo,forse un po’ troppo azzardata che enunciava un principio, a mio avviso basilare per il quale se l’obiettivo era quello di ridurre il traffico di auto private in una città, l’unica via da percorrere era quella di togliere o limitare il primo presupposto che permette di usare una macchina: la strada. In altri termini prendendo in prestito un concetto degli economisti di scuola scozzese, se la strada è una risorsa limitata l’ingresso di un novo concorrente, la bicicletta, avrebbe comportato l’insorgere di un modus vivendi accettabile tra automobilisti e ciclisti. Mi azzardai a fare questa obiezione a fronte del fatto che l’orientamento del comune era quello di fare piste ciclabili sottraendo fette di marciapiede pedonale per non intaccare l’ampiezza della carreggiata delle strade collaterali. Una guerra tra poveri, praticamente.
La seconda osservazione scaturì dalla domanda che l’assessore alla mobilità pose in merito a dove si ritenesse opportuno costruire piste ciclabili e anche in questo caso mi lanciai in azzardati postulati affermando che se l’intento dell’amministrazione era quello di sottrarre traffico motorizzato agli spostamenti cittadini, una pista ciclabile sarebbe dovuta passare laddove esistessero affermati e robusti flussi di movimento come presso ospedali, scuole, uffici pubblici e centri commerciali. Dato che allora era in fase di costruzione il nuovo ospedale e sorgevano centri commerciali come funghi la mia enunciazione mi sembrò non poi così fuori luogo.
Da allora sono passati alcuni anni, l’amministrazione è cambiata, l’ospedale è stato terminato ed è diventato, come era prevedibile, un mostruoso generatore di traffico di automobili, di piste ciclabili ne sono state fatte poche e in malo modo e, soprattutto, inutilizzate in quanto tracciate su percorsi del tutto marginali ai grandi flussi di traffico cittadino. Centri commerciali? Ovviamente. Due per la precisione e per potere renderli accessibili ai clienti è stato necessario un ulteriore contributo di asfalto e cemento in termini di strade, rotonde e cavalcavia. Di piste ciclabili, manco a dirlo, neppure l’ombra.
Ho ripensato a quella grottesca ed inutile pantomina di rappresentazione degli interessi collettivi, leggendo un articolo curato da Alfredo Dufruca e Damiano Rossi, scaricabile integralmente da Eddyburg.it dall’aulico titolo di “la città gentile” e che prende spunto dall’esperienza del comune di Settimo Milanese, un piccolo centro alle porte del caos della grande città che ha saputo dare un segnale concreto dell’impegno dell’amministrazione per la riduzione del traffico di automobili diventando un modello virtuoso di diffusione dell’uso della bicicletta. Senza realizzare centinaia di chilometri di piste e senza particolari investimenti in infrastrutture, ma semplicemente insegnando le regole della buona creanza a chi va per strada e punendo coloro che le trasgrediscono. Solita guerra santa tra il ciclista circondato da un alone di mistica santità e l’automobilista diabolico prevaricatore senza leggi? No, o meglio, forse solo in parte. Se chi va in macchina si sente autorizzato ad assumente atteggiamenti aggressivi, non sono lo si punisce, ma si mettono in pratica quelle trasformazioni che inducono l’autista malanimo a diventare più gentile. Come? Esattamente come mi immaginavo io qualche anno fa e come Dufruca e Rossi espongono nel loro articolo ispirato alla realtà di Settimo Milanese e cioè che "per contenere il dilagare di comportamenti aggressivi bisogna provvedere ad una attenta rigerchizzazione delle strade, con il severo ridimensionamento degli spazi di circolazione e con l’inserimento di elementi diffusi di controllo dei comportamenti degli automobilisti".
Che cosa insegna poi l’esperienza di Settimo Milanese che desta l’attenzione dei due giornalisti? l'attenzione verso l’organizzazione urbanistica che non deve essere “segregata e segregante” e la prevenzione "nei confronti del gigantismo dei centri commerciali che concentrano molte funzioni in pochi luoghi lontani costringendo a spostamenti lunghi e motorizzati". Esattamente quel tipo di riflessione che avevo invitato a fare all’imbelle assessore che ha preferito assistere ad uno scempio urbanistico territoriale di una piccola città circondata dalla campagna piuttosto che andare a contrastare la tracotanza degli automobilisti togliendoli qualche metro quadrato di asfalto.
Un altro esempio di città che ha saputo impartire regole ferree per sopravvivere al traffico è Berlino. In questo caso non si parla di un piccolo centro di periferia, ma di una delle più grandi, belle, popolose e vitali città d’Europa. E’ uscito sul Corriere della Sera di martedì 12 Ottobre un articolo di Danilo Taino, corrispondente da quella città per il giornale che mette in luce, ancora una volta, come gli sforzi per addivenire ad una riduzione del traffico su quattoruote e ingentilire il volto della città anche grazie al maggiore ricorso alla bici (a Berlino una persona su otto si muove pedalando), siamo passati attraverso una capillare azione di rispetto delle regole. Esempi: abbigliamento di sicurezze per il ciclista, luci funzionanti, rispetto delle precedenze a favore dei ciclisti. A questo proposito, voglio infierire ancora una volta sul povero ex-assessore all’ambiente del mio comune: pare che a Berlino abbiamo scoperto che costruendo le piste ciclabili usando il sedime stradale (e pertanto togliendo spazio vitale al movimento delle macchine), non solo si riduca il traffico, ma si garantisca una migliore visibilità a chi circola sulle strade evitando investimenti di ciclisti sbucati improvvisamente dal marciapiede. Anche più sicuro.
martedì 12 ottobre 2010
A proposito di Pil e Robert Kennedy
A proposito di PIL e del discorso di Robert Kennedy che ho parzialmente riportato sul mio post precedente, vi segnalo che Sergio Marchionne ha ripreso la stessa frase in occasione di un suo intervento pubblico a Firenze qualche giorno fa.
Un'ulteriore riprova di come tutti siamo d'accordo, ma molto poco propensi ad agire.
Un'ulteriore riprova di come tutti siamo d'accordo, ma molto poco propensi ad agire.
sabato 2 ottobre 2010
Benessere e “ben avere”. Il nodo del calcolo della ricchezza
Da alcuni anni seguo il dibattito sull’attualità dei sistemi di computo della ricchezza pro capite e del PIL e la supposta necessità di addivenire a modelli di rendicontazione che tengano conto anche dei valori intangibili quali la solidarietà, l’impegno dei volontari e l’assistenza in ambito familiare. Il dibattito è interessante anche se il punto cruciale della questione non è tanto conciliare le diverse opinioni per arrivare a perfezionare il metodo, ma piuttosto ritenere possibile l’avvento di un nuovo sistema di produzione e distribuzione delle risorse. Consumare risorse in eterno non è possibile, ma il calcolo del PIL per misurare l’indice di prosperità di un Paese, prende in considerazione solo quante risorse vengono trasformate e consumate e quanta ricchezza ne deriva. E fino a che gli Stati non si adegueranno a diversi modelli macroeconomici, la rincorsa non si esaurirà. Non è possibile consumare risorse in eterno per il semplice motivo che prima o poi queste finiscono e l’aggravio sul conto finale, non è solo che rimarremo a secco, ma che avremo nel frattempo arrecato danni irreversibili al nostro eco-sistema. E a quel punto non sarà tanto importante sapere che avremo messo a punto modelli di misurazione della ricchezza diversi. Non ci sarà più ricchezza, ma solo desolazione.
Uno dei più strenui e accesi fomentatori di critiche al modello del PIL è il filosofo francese Serge Latouche che ha recentemente scritto un articolo apparso in Italia sul Manifesto dello scorso 17 settembre e riportato integralmente su Eddyburg.it intitolato Abbondanza Frugale. Nella sua interessante dissertazione, Latouche va a ricercare il momento in cui il concetto di benessere si sovrappone a quel filone di pensiero economico datato metà ‘700 fortemente connotato da un orientamento portato a trovare un fondamento “statistico” del bene comune. La ricerca curata da Latouche e esposta nel suo articolo, e che costituisce anche l’ossatura di un intervento a Pordenonelegge, si snoda attraverso i capisaldi dell’economia classica con l’intento dichiarato di di “decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite” capendo i motivi che hanno portato al suo consolidamento negli ultimi secoli.
E’ peraltro vero che la “de-materializzazione del benessere” ha cominciato ad essere oggetto di speculazioni di economisti più vicini alla sociologia come Max Weber e Karl Polany e, per arrivare in tempi più recenti, Jean Baudrillard. A questo proposito, vorrei rendere merito la lungimiranza del caro professore di sociologia economica, Alberto Martinelli, per avere, in anni di pieno fervore edonistico consumistico, saputo proporre nel giusto contesto questi autori.
Ripensare a come calcolare su basi diversi la ricchezza di uno Stato non è una nuova frontiera, o meglio non è un argomento inedito di propaganda politica se a fine anni ‘60 Robert Kennedy in uno dei suoi ultimi discorsi (se non l’ultimo) ammoniva che “il PIL include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulla strade…” Peralto, continuava il giovane Kennedy “il Pil non conteggia la salute dei bambini, la qualità della loro istruzione e la loro allegria. Non prende in considerazione il coraggio, l’integrità e l’intelligenza di ognuno di noi” E conclude: “il Pil misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta”.
Le bestemmie di Berlusconi e il pragmatismo dell’Economist
In fondo hanno ragione Berlusconi e il suo entourage quando fanno quadrato intorno al fatto che una storiella volgare, offensiva e blasfema se raccontata nella cerchia degli amici buontemponi debba rimanere nell’ambito dei fatti privati e ogni estensione mediatica diventi una strumentalizzazione in mano agli oppositori.
Il punto della questione è che, se il fatto viene circoscritto al semplice fatto, non è possibile dare ragione a chi si scaglia contro l’ennesima uscita maldestra del premier, ma se viene relativizzato al contesto in cui costui opera e che rappresenta, la questione sarebbe comunque più complessa e meno difendibile. Sarebbe. Infatti anche nell’ipotesi dell’ufficialità che il capo dell’esecutivo di un Paese inevitabilmente si trascina dietro tanto da non potere discernere quello che è privato da quello che è pubblico, rimane apertissima e vulnerabilissima l’incapacità di questa persona di adottare minimi accorgimenti di buon senso per evitare scivoloni di popolarità, di immagine e di reputazione.
E nel caso della barzelletta su Rosy Bindi raccontata all’Aquila le precauzioni sarebbero state quelle di evitare di lasciarsi andare a situazioni di grassa ilarità in una terra offesa e ancora sofferente; di astenersi da profferire bestemmie e battute volgari su un avversario politico, di essere consapevole che in un contesto di multimedialità e affannata ricerca di “contenuti” da affidare a qualche social network c’è sempre in agguato una telecamerina pronta a riprendere il fatto da mettere in rete. Tutto questo, anche se stupisce che colui che ha portato il protagonismo televisivo a sventolare sopra ogni cosa, Berlusconi non lo sa, o se lo dimentica nel momento meno opportuno.
Così è stato per le Escort, per le tragicomiche uscite al Parlamento europeo, per le altre barzellette, le corna, i cucù, le sfuriate della Regina Elisabetta e mi fermo.
Nell’aprile del 2001, l’Economist, il settimanale liberale britannico pubblicò un dossier che metteva analiticamente in luce le lacune che l’allora esponente capo dell’opposizione evidenziava e che lo avrebbero reso inadatto a guidare il Paese, il nostro Paese. Penso che la politica italiana dovrebbe andare a rileggersi quell’articolo e imparare dal pragmatismo anglosassone. Soprattutto l’opposizione dovrebbe smetterla di criticare Berlusconi, tout court, e iniziare ad apprezzare i suoi meriti oggettivi: è un abile imprenditore, generoso a modo suo, fascinoso col gentil sesso, fine oratore, simpatico, un compagnone con cui andare a mangiare una pizza e bere una birra. Tanti meriti, ma una pecca: incapace a governare l’Italia.
giovedì 30 settembre 2010
Il privilegio della povertà. La vita di suor Emmanuelle
Sto leggendo l'autobiografia di Suor Emmanuelle del Cairo, al secolo Madeleine Cinquin, la religiosa di origini franco-belghe che non esaurì mai, sebbene avesse sfiorato il secolo di vita, la propria sete di donarsi agli ultimi degli ultimi per dare a chi aveva perso ogni speranza di riscatto l’unica cosa in grado di risollevare un essere umano dall’infimo livello di miseria: la dignità.
Suor Emmanuelle, come Madre Teresa di Calcutta è l’emblema di come le paurose diseguaglianze che attanagliano il nostro pianeta, possano acquisire un corso più confortante grazie all’immensa forza di queste donne apparentemente fragili e disarmate, ma dotate di forza interiore e volontà ferrea che nasce solo dopo il sacrificio di tutto ciò che è superfluo per ottenere uno stato di libertà, puro, assoluto, domato solo dai confini rigidi della Regola che si è deciso di seguire.
Mi ha colpito Suor Emmanuelle, che per scelta decise di vivere in mezzo alle montagne di spazzatura che costituivano l’unico mondo degli straccivendoli del Cairo, quando scrive nel suo libro “finalmente, vivo povera con i poveri e non sono più ignara degli affanni dei mortali. Faccio parte dell’immensa maggioranza dei miei fratelli umani condannati a una vita frugale e priva di comodità…”
Ecco lo spirito che guiderà il corso delle società evolute nei prossimi decenni, dopo la piena accettazione dei fallimenti del capitalismo e del consumismo: la consapevolezza diffusa di appartenere ad una casta costituita da pochi individui se confrontata con i miliardi di persone che lottano ogni giorno per vivere. Solo il tempo e la dedizione di chi non è assillato dal bisogno di sopravvivere sarà fonte di nutrimento per chi si dibatte nelle bidonville di tutto il Pianeta.
Il riconoscimento di Suor Emmanuelle di avere fatto voto di povertà, ma “di non averla veramente conosciuta nel senso biblico” se non quando decide di andarla a conoscere per potere “come Cristo partorire l’Amore”, relativizzata al nostro stato di credenti dovrebbe farci riflettere sulle nostre convinzioni di cristiani che si agitano negli affanni solo per ricercare i beni materiali che fungono da paravento alla povertà che non vogliamo vedere.
Suor Emmanuelle (2010), Confessioni di una religiosa, Jaca Book ISBN 978-88-16-30476-5
Suor Emmanuelle, come Madre Teresa di Calcutta è l’emblema di come le paurose diseguaglianze che attanagliano il nostro pianeta, possano acquisire un corso più confortante grazie all’immensa forza di queste donne apparentemente fragili e disarmate, ma dotate di forza interiore e volontà ferrea che nasce solo dopo il sacrificio di tutto ciò che è superfluo per ottenere uno stato di libertà, puro, assoluto, domato solo dai confini rigidi della Regola che si è deciso di seguire.
Mi ha colpito Suor Emmanuelle, che per scelta decise di vivere in mezzo alle montagne di spazzatura che costituivano l’unico mondo degli straccivendoli del Cairo, quando scrive nel suo libro “finalmente, vivo povera con i poveri e non sono più ignara degli affanni dei mortali. Faccio parte dell’immensa maggioranza dei miei fratelli umani condannati a una vita frugale e priva di comodità…”
Ecco lo spirito che guiderà il corso delle società evolute nei prossimi decenni, dopo la piena accettazione dei fallimenti del capitalismo e del consumismo: la consapevolezza diffusa di appartenere ad una casta costituita da pochi individui se confrontata con i miliardi di persone che lottano ogni giorno per vivere. Solo il tempo e la dedizione di chi non è assillato dal bisogno di sopravvivere sarà fonte di nutrimento per chi si dibatte nelle bidonville di tutto il Pianeta.
Il riconoscimento di Suor Emmanuelle di avere fatto voto di povertà, ma “di non averla veramente conosciuta nel senso biblico” se non quando decide di andarla a conoscere per potere “come Cristo partorire l’Amore”, relativizzata al nostro stato di credenti dovrebbe farci riflettere sulle nostre convinzioni di cristiani che si agitano negli affanni solo per ricercare i beni materiali che fungono da paravento alla povertà che non vogliamo vedere.
Suor Emmanuelle (2010), Confessioni di una religiosa, Jaca Book ISBN 978-88-16-30476-5
giovedì 16 settembre 2010
Bambini e moda e i veri motivi per scandalizzarsi
Strano destino quello di essere bambini: da oggetto delle offese di chi dovrebbe mettersi al collo la macina da mulino fino a diventare soggetti in grado di scandalizzare un editorialista famoso come Antonio Scurati. Sicuramente il giornalista deve averne passate di immagini pubblicitarie di bambini e bambine in atteggiamenti divistici e sfrontati prima di scrivere il suo editoriale sulla Stampa dello scorso 11 Settembre. Ma si sa, i fanciulli, anche i più ricchi, viziati e smorfiosi sono anime candide, pure ed innocenti e i loro genitori liberi di fare ciò che pensano e ritengono opportuno per la prole.
Ma nel campo della moda l’uso scellerato della prima infanzia per scopi promozional come scrive Scurati, è solamente uno degli aspetti, forse il meno dannoso, dell’utilizzo commerciale che si tende a fare a scapito dell’età della spensieratezza.
Lasciamo dunque perdere quanto costa avere un figlio e allevarlo nella primissima età che è oggetto di minuziose ed accurati studi puntualmente aggiornati e divulgati; andiamo piuttosto a verificare quanto si spende per non avere i figli, tra i piedi, s’intende. La scusa che i genitori non possono dedicarsi ai figli come vorrebbero è ormai un frustro e abusato alibi. Non si spiegherebbero altrimenti le miriadi di offerte di vacanze dove è compreso nel prezzo l’affidamento dei piccoli cari ad improvvisati kinderheim di villaggi turistici, navi da crociera, spiagge, campeggi, parchi giochi ecc. Se proprio non si riesce a stare con i ragazzi in inverno perché disfarsene appena si va in vacanza?
E le milioni di baby sitter che ogni sabato sera vengono reclutate per accudire i bambini lasciati a casa dai genitori che escono a cena? Siete più riusciti a vedere un film decente il sabato sera? No, infatti. E’ impossibile perché il sabato sera ci sono solo film per bambini inframmezzati da messaggi pubblicitari rivolti ai piccoli, ovviamente, ma anche agli adolescenti, nel senso delle baby sitter. Il sabato sera è la prima volta della settimana che i piccoli potrebbero stare svegli con i grandi, ma il loro destino e quello che i grandi non li vedono neppure addormentati sul divano. Sono usciti.
E che dire dei corsi, sport, attività che ogni inverno i piccoli devono frequentare con assillante frequenza? E’ difficile sostenere che si tratta dell’unico modo per affidare i figli a strutture sicure quando si è impegnati: le famose mamme taxiste piene di energie e di risorse dei filmati pubblicitari, proprio perché guidano per ore in mezzo al traffico non lavorano. E allora perché non dedicano più tempo ai figli. A casa.
L'animo commerciale di intraprendenti insegnanti, discettori, istruttori, artisti e creativi di vario genere hanno scovato molteplici ricettacoli, a pagamento s’intende, dove è possibile affidare i propri figli per fare quello che vorrebbero fare a casa con il proprio padre e la propria madre insieme, possibilmente. E’ un fiorire stagionale di centri estivi, corsi di lingua, di musica, avviamenti allo sport, gare, gite, corsi che stimoleranno certo i ragazzi, ma li destinano ad essere inesorabilmente soli ed in balia di loro stessi. Troppo piccoli per essere responsabili.
Afferma Scurati che i bambini oggi vengono manipolati dall’industria della moda. Sì, è vero,ma la moda per i bambini esiste da sempre. Da piccolo sognavo i mocassini neri di vernice, ma il piccolo modello che le indossava sulla rivista di moda di mia madre era un bambino vestito da bambino, con la faccia da bambino e che dopo la foto del servizio fotografico è tornato a fare il bambino.
I bambini che orripilano Scurati sono i bambini aggressivi vestiti da piccoli trafficanti di coca e le bambine vestite come le loro donne. Modelli inverosimili perchè nessun bambino sogna di essere come loro.Sono i genitori che vengono manipolati attraverso l'immagine ammiccante e indecente di piccoli teppisti impudenti e questo uso, se pemettete, è veramente scandaloso, osceno.
La pubblicità, denuncia Scurati, calca la mano nel periodi di ripresa della scuola. Soprattutto quest’anno dopo i ridicoli spauracchi della Gelmini sul ritorno massiccio del grembiule dei tempi che furono e la completa riabilitazione delle capacità dell’abito di santificare il monaco. Non c’era bisogno di scomodare la psicologia per comprendere quanto senso di colpa ci sia dietro lo sperpero di denaro per acquistare degli stracci griffati buoni solo per qualche mese di stagione fredda. Da che mondo è momdo i genitori hanno sempre ovviato alle proprie manchevolezze coprendo i figli di attenzioni immeritate. I vizi nascono, in fondo, delle permissioni degli adulti alla prorompente e devastante voglia di un bambino di essere un bambino. Un bambino, appunto, non un piccolo adulto. E questo è il vero scandalo che dovrebbe portare il mondo della comunicazione pubblicitaria a vincolarsi alla macina. La macina? Si certo le macine del mulino bianco, quelli della famiglia felice.
domenica 12 settembre 2010
Lungo le coste del Canada con Raban e Vancouver.
Un viaggio per mare, su una piccola barca a vela, inseguendo una grande impresa del passato alla scoperta di uno dei tratti di costa più tormentati del mondo. Ancora una volta grazie alla penna veloce e scattante di Jonathan Raban.
Jonathan Raban, autore di Bad Land di cui ho già parlato in un precedente post, ci propone il resoconto della sua navigazione a vela in solitario, da Seattle a Juneau, lungo il Passaggio Interno la rotta meno insidiosa per raggiungere, risalendo la costa occidentale del Nord America, le prime avvisaglie di terre alaskane.
Il Passaggio Interno, un dedalo di canali, isole e stretti tormentato da correnti di marea di facile prevedibilità, ma quasi sempre di pessimo umore, è la rotta relativamente più facile e sicura per risalire il Canada e anche la più ricca di storia, fenomeni naturali e tracce del passato prossimo delle popolazioni indigene per molti versi ormai dimenticato o banalizzato, ma ancora in grado di mostrare l'antico rapporto vitale con l'acqua e le sue misteriose creature abissali. Raban si lascia guidare dai diari del viaggio effettuato duecento anni prima da Vancouver, che su incarico dell’Ammiragliato Britannico si cimentò nella dettagliata rilevazione geografica di un mondo non più così nuovo (gli spagnoli contendevano agli inglesi con signorile ostilità il possesso di quelle terre), ma estremamente interessante fintantoché non avesse mostrato la definitiva chiusura di ogni passaggio verso est.
La narrazione di Raban, incisiva e suggestiva, si intreccia con le note malinconiche che ondeggiavano in capo al comandante della spedizione, ormai da tutti chiamato con disprezzo “Van” a cagione della sua origine olandese e della sua ancora più modesta origine di stato, ma soprattutto in ragione della sua totale assenza di trasporto verso il “sublime” che l’incrocio tra terra e mare di quei luoghi selvaggi rivelava ai giovani e nobili gentlemen imbarcati nella loro crociera d’iniziazione.
Anche Raban, inglese di nascita, trapiantato negli Stati Uniti, ci ripropone numerosi accostamenti con la terra d'origine, ma a distanza di secoli la Madre Patria perde l'immagine di quel Paese dai paesaggi ordinati e prevedibili che Vancouver nei suoi semplificati disegni di conquista, avrebbe traslato sulle coste Canadesi e diviene l'origine di misere e malinconiche vicende umane: prima tra tutte la dolorosa perdita del padre, ma anche la vecchia rock-star venerata in gioventù e incontrata ormai demente nel piccolo villaggio canadese, l'odio tra cattolici e protestanti che continua a propagarsi in sperduti approdi della Columbia Britannica, le vocali scozzesi rintracciate nella parlata dei nativi educati alle missioni degli evangelizzatori.
Un libro unico, toccante, scritto con l'odore di sentina e gasolio del piccolo ketch dell'autore e la puzza dei salmoni ammassati nel corso di una stagione di pesca particolarmente propizia, ma anche lasciati marcire nel canale di scolo di Juneau, l’avito corso d’acqua ormai troppo cementificato e verticalizzato per essere risalito per l'ultimo viaggio prima di morire.
Una piccola critica alla traduzione che evidenza notevoli carenze lessicali della traduzione che è caduta in imperdonabili sostituzioni di termini nautici con parole di natura cittadina e stradale. Ma questo non toglie l’emozione di uno dei più bei viaggi di carta che abbia mai fatto.
Jonathan Raban (2003), Passaggio in Alaska. Da Seattle a Juneau, Einaudi ISBN 88-06-16585-2
Jonathan Raban, autore di Bad Land di cui ho già parlato in un precedente post, ci propone il resoconto della sua navigazione a vela in solitario, da Seattle a Juneau, lungo il Passaggio Interno la rotta meno insidiosa per raggiungere, risalendo la costa occidentale del Nord America, le prime avvisaglie di terre alaskane.
Il Passaggio Interno, un dedalo di canali, isole e stretti tormentato da correnti di marea di facile prevedibilità, ma quasi sempre di pessimo umore, è la rotta relativamente più facile e sicura per risalire il Canada e anche la più ricca di storia, fenomeni naturali e tracce del passato prossimo delle popolazioni indigene per molti versi ormai dimenticato o banalizzato, ma ancora in grado di mostrare l'antico rapporto vitale con l'acqua e le sue misteriose creature abissali. Raban si lascia guidare dai diari del viaggio effettuato duecento anni prima da Vancouver, che su incarico dell’Ammiragliato Britannico si cimentò nella dettagliata rilevazione geografica di un mondo non più così nuovo (gli spagnoli contendevano agli inglesi con signorile ostilità il possesso di quelle terre), ma estremamente interessante fintantoché non avesse mostrato la definitiva chiusura di ogni passaggio verso est.
La narrazione di Raban, incisiva e suggestiva, si intreccia con le note malinconiche che ondeggiavano in capo al comandante della spedizione, ormai da tutti chiamato con disprezzo “Van” a cagione della sua origine olandese e della sua ancora più modesta origine di stato, ma soprattutto in ragione della sua totale assenza di trasporto verso il “sublime” che l’incrocio tra terra e mare di quei luoghi selvaggi rivelava ai giovani e nobili gentlemen imbarcati nella loro crociera d’iniziazione.
Anche Raban, inglese di nascita, trapiantato negli Stati Uniti, ci ripropone numerosi accostamenti con la terra d'origine, ma a distanza di secoli la Madre Patria perde l'immagine di quel Paese dai paesaggi ordinati e prevedibili che Vancouver nei suoi semplificati disegni di conquista, avrebbe traslato sulle coste Canadesi e diviene l'origine di misere e malinconiche vicende umane: prima tra tutte la dolorosa perdita del padre, ma anche la vecchia rock-star venerata in gioventù e incontrata ormai demente nel piccolo villaggio canadese, l'odio tra cattolici e protestanti che continua a propagarsi in sperduti approdi della Columbia Britannica, le vocali scozzesi rintracciate nella parlata dei nativi educati alle missioni degli evangelizzatori.
Un libro unico, toccante, scritto con l'odore di sentina e gasolio del piccolo ketch dell'autore e la puzza dei salmoni ammassati nel corso di una stagione di pesca particolarmente propizia, ma anche lasciati marcire nel canale di scolo di Juneau, l’avito corso d’acqua ormai troppo cementificato e verticalizzato per essere risalito per l'ultimo viaggio prima di morire.
Una piccola critica alla traduzione che evidenza notevoli carenze lessicali della traduzione che è caduta in imperdonabili sostituzioni di termini nautici con parole di natura cittadina e stradale. Ma questo non toglie l’emozione di uno dei più bei viaggi di carta che abbia mai fatto.
Jonathan Raban (2003), Passaggio in Alaska. Da Seattle a Juneau, Einaudi ISBN 88-06-16585-2
Oggi cucino io. Con le mie bambine.
Ho scoperto quanto è bello rinunciare ad andare al ristorante e starmene a casa a cucinare con le mie bambine.
Sebbene anche i pasti fuori casa inizino ad accusare i tempi di crisi e i ristoratori abbiano rinunciato a proseguire nell’incremento di prezzi ingiustificato partito qualche anno fa, per una famiglia media andare a cena fuori è ancora un onere elevato. Se fino a qualche tempo fa la pizzeria era il surrogato della cena al ristorante, dopo il passaggio all’euro semplificato dai pizzaioli con il semplice rapporto 1 a 1 (un migliaio di lire, un euro), anche la migrazione in massa al ristorante cinese sta cominciando a mostrare qualche segno di riflusso. Rimangono i Kebab che, salvo i provvedimenti restrittivi di qualche consigliere leghista in vena di censure, offrono ancora il gusto della cena stuzzicante a prezzi popolari.
Anche per me e la mia famiglia, le frequentazioni al ristorante si sono assottigliate, ma ho scoperto l’immenso piacere che si può trarre dal decidere con i propri figli di rompere la normale routine del pasto preparato a casa e trasformare la cena del sabato in una vera uscita al ristorante.
Nel nostro caso è stato facile perché la famiglia di mia moglie è di antiche tradizioni piemontesi e la preparazione dei cibi in casa ha sempre fatto parte del trasferimento per linea materna del bagaglio di ricette e segreti culinari. Questo ha comportato il fatto di avere due figlie che nonostante la tenera età, sono molto consapevoli di quello che mangiano, critiche nei confronti del cibo e desiderose di imparare in fretta.
Da parte mia c’è sempre stata la volontà di sperimentare cose nuove e di cucinare in modo decente giusto per togliermi dagli impacci e cavarmela da solo.
Abbiamo così deciso di cimentarci, almeno una volta alla settimana, nella nostra cena con nuove proposte gastronomiche, proprio come al ristorante, provvedendo anche alla parte coreografica della tavola e della sala. Qualche coppia di amici di vecchia data con figli disposta a prestarsi all’esperimento o qualche parente indulgente ed ecco che ci sono anche gli ospiti verso i quali è importante fare bella figura.
Il risultato è sempre molto positivo e divertente.Ed istruttivo per tutti. Anche per me.
Innanzitutto le ricette. Mica andiamo a cercare piatti complessi ed elaborati con ingredienti costosi e di difficile reperibilità. Usiamo solo quello che c’è in casa: avanzi, verdure,frutta, formaggini, uova, conserve. Al massimo qualche verdura di stagione che ci ispira e che troviamo al mercato il sabato mattina: zucche, cavoli, erbette, rape. Il bello sta nel trovare le formule e le alchimie giuste per trasformare il cibo di tutti i giorni in un piatto nuovo ogni volta. Io fornisco qualche spunto raccontando i piatti che ho visto preparare sotto il mio naso in una catena di self service presso il centro commerciale vicino all’ufficio. Le bambine provano, sperimentano, assaggiano. Cominciano a prendere le misure con le proprie decisioni e le proprie scelte decidendo di aggiungere un ingrediente sapendo che il risultato potrebbe non incontrare il palato degli ospiti.
Le bambine imparano anche a seguire un processo di lavoro stabilito a priori che parte dalla raccolta di tutti gli ingredienti e degli utensili, con l’assegnazione dei compiti e delle responsabilità, tipo non fare bruciare il soffritto o non mettere troppo sale nella pasta e termina nel calcolo dei tempi necessari per stabilire a che ora gli ospiti dovranno sedersi a tavola. Importanti sono gli ammonimenti sulle operazioni da non fare mai da sole e i controlli che la grande deve fare sulla piccola per evitare che combini disastri o che si faccia male.
Una volta a tavola le bambine raccontano agli ospiti come le pietanze sono state preparate e le fasi che le hanno coinvolte direttamente. Ammiccando ogni tanto al papà per fare intendere che condividiamo dei segreti che non riveleremo mai.
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