sabato 2 ottobre 2010

Benessere e “ben avere”. Il nodo del calcolo della ricchezza


Da alcuni anni seguo il dibattito sull’attualità dei sistemi di computo della ricchezza pro capite e del PIL e la supposta necessità di addivenire a modelli di rendicontazione che tengano conto anche dei valori intangibili quali la solidarietà, l’impegno dei volontari e l’assistenza in ambito familiare. Il dibattito è interessante anche se il punto cruciale della questione non è tanto conciliare le diverse opinioni per arrivare a perfezionare il metodo, ma piuttosto ritenere possibile l’avvento di un nuovo sistema di produzione e distribuzione delle risorse. Consumare risorse in eterno non è possibile, ma il calcolo del PIL per misurare l’indice di prosperità di un Paese, prende in considerazione solo quante risorse vengono trasformate e consumate e quanta ricchezza ne deriva. E fino a che gli Stati non si adegueranno a diversi modelli macroeconomici, la rincorsa non si esaurirà. Non è possibile consumare risorse in eterno per il semplice motivo che prima o poi queste finiscono e l’aggravio sul conto finale, non è solo che rimarremo a secco, ma che avremo nel frattempo arrecato danni irreversibili al nostro eco-sistema. E a quel punto non sarà tanto importante sapere che avremo messo a punto modelli di misurazione della ricchezza diversi. Non ci sarà più ricchezza, ma solo desolazione.
Uno dei più strenui e accesi fomentatori di critiche al modello del PIL è il filosofo francese Serge Latouche che ha recentemente scritto un articolo apparso in Italia sul Manifesto dello scorso 17 settembre e riportato integralmente su Eddyburg.it intitolato Abbondanza Frugale. Nella sua interessante dissertazione, Latouche va a ricercare il momento in cui il concetto di benessere si sovrappone a quel filone di pensiero economico datato metà ‘700 fortemente connotato da un orientamento portato a trovare un fondamento “statistico” del bene comune. La ricerca curata da Latouche e esposta nel suo articolo, e che costituisce anche l’ossatura di un intervento a Pordenonelegge, si snoda attraverso i capisaldi dell’economia classica con l’intento dichiarato di di “decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite” capendo i motivi che hanno portato al suo consolidamento negli ultimi secoli.
E’ peraltro vero che la “de-materializzazione del benessere” ha cominciato ad essere oggetto di speculazioni di economisti più vicini alla sociologia come Max Weber e Karl Polany e, per arrivare in tempi più recenti, Jean Baudrillard. A questo proposito, vorrei rendere merito la lungimiranza del caro professore di sociologia economica, Alberto Martinelli, per avere, in anni di pieno fervore edonistico consumistico, saputo proporre nel giusto contesto questi autori.
Ripensare a come calcolare su basi diversi la ricchezza di uno Stato non è una nuova frontiera, o meglio non è un argomento inedito di propaganda politica se a fine anni ‘60 Robert Kennedy in uno dei suoi ultimi discorsi (se non l’ultimo) ammoniva che “il PIL include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulla strade…” Peralto, continuava il giovane Kennedy “il Pil non conteggia la salute dei bambini, la qualità della loro istruzione e la loro allegria. Non prende in considerazione il coraggio, l’integrità e l’intelligenza di ognuno di noi” E conclude: “il Pil misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta”.

1 commento:

  1. verissimo Pietro. E assolutamente condivisibile.

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