martedì 26 ottobre 2010

Perchè non produrre meno rifiuti?


Mi ero riproposto di evitare di portare alla ribalta di questo spazio personale fatti o accadimenti che affondassero la propria origine nei puri eventi di cronaca o di attualità. Le ragioni della mia consapevole e cosciente volontà di astensione trova sostegno nella mia personale riflessione che il fatto di cronaca, di qualsivoglia natura, è già oggetto di innumerevoli commenti da parte di altrettanti autori che volenterosamente contribuiscono a formare quella pletora di opinioni espresse nella rete il cui suffragio o biasimo genera la “voce”o il “parlato” della Rete.
Per contro, la questione della spazzatura in Campania, mi ha esortato a trascurare la mia dichiarata volontà di omissione e di intervenire con qualche riflessione, anche in ragione della ripresa di alcuni temi e argomenti trattati da questo blog. La spazzatura, infatti, come tutto ciò che viene banalmente trattato come rifiuto, si coniuga idealmente con il sottofondo continuo delle mie esortazioni al contenimento dei consumi in quanto un rifiuto è un costo e più ne produciamo e più spendiamo. Dato dunque che il mio intendimento è quello di vivere cercando di spendere il meno possibile, meno rifiuti produciamo, meno spendiamo.
Tolto questo sillogismo che vi ho esposto solo per ribadire i confini entro i quali si muovono le mie riflessioni, passiamo subito alle considerazioni che girano intorno al mondo dei rifiuti e ai gravi accadimenti di cronaca che puntualmente la portano alla ribalta in varie parti d’Italia.
Partiamo dalla constatazione generale che il rifiuto è qualche cosa che dipende al 100%da quello che decidiamo di fare noi stessi decretandone, in ragione dei nostri consumi, la quantità che quotidianamente decidiamo di avviare ad attività di raccolta, smaltimento e riciclo. Per intenderci, se mangio una pera normalmente, a meno che non sia affamato come Pinocchio, il torsolo, la buccia e il picciolo lo getto nell’immondizia che diligentemente verserò nella cosiddetta frazione umida. Non esiste però nessuna norma mi obblighi a buttare il torsolo della pera nel cesto: potrò infatti decidere di mangiarlo (come Pinocchio, appunto), buttarlo in giardino per concimare il prato o semplicemente perché sono uno zozzone e butto la roba fuori dalla finestra, farne compost usando il mio impianto domestico oppure darlo alle galline o lasciarlo ai vermi e alla muffa. In tutti i precedenti casi, ho fatto qualche cosa di bello o di brutto, di ammirevole o riprovevole, ma non ho contribuito ad aumentare la massa di rifiuti che una filiera che sta fuori dalla porta di casa mia è sempre disponibile a raccogliere e avviare ad altre attività che riguardano il trattamento di tutte quelle cose che per vari motivi ho deciso di non tenere più in casa mia.
Passiamo a una situazione più complicata, purtroppo molto frequente nelle nostre abitudini quotidiane: al supermercato, quando ho deciso di comprare quella stessa pera che dopo essere stata mangiata mi presentava le varie opzioni di utilizzo descritte prima, ho dovuto anche comprare un vassoi etto di plastica, un foglio di cellofan che le protegge, un’etichetta di carta che indica il prezzo. Se poi le pere dovranno essere trasportate a casa insieme al resto della spesa, dovrò anche comprare un sacchetto di plastica che, inesorabilmente, raccoglierà la vaschetta delle pere vuoto e insieme ripartiranno per un altro viaggio verso la discarica o l’inceneritore (o i bordi delle strade sempre per il medesimo principio che dei rifiuti posso fare quello che voglio).
Se decido di cambiare il televisore che mi propina tanta pubblicità di pere, di succhi di pera, di omogeneizzati di pera, di gelati di pera, di torte di pera, il problema sarà ancora più grande perché dovrò non solo smaltire i grossi quantitativi di cartone, sacchetti di plastica, legacci e fermagli di vario tipo, materiale da imballo, ma anche il vecchio televisore, che sicuramente funziona ancora, ma non so dove mettere e poi,se lo tengo, come faccio a giustificare l’acquisto di quello nuovo?
Il simpatico Babbo Natale che vuole tanto bene ai bambini, riserva trattamenti di genere diverso ai genitori in quanto la mattina del 25 la quantità di immondizia accumulata dopo la frenetica apertura dei regali e spaventosamente elevata rispetto all’esiguità del volume dei doni ricevuti. E non mi riferisco alla carta dorata e ai nastrini di raso per incartare le strenne, ma a tutto quello che si frappone tra l’involucro e il regalo stesso, al netto della decorazione natalizia: anche qui cartone, plastiche, cellophane, ferretti, contro-ferretti, sacchetti, fermi, pellicole, involucri tutto perfettamente distinguibile nel genere di materiale, per carità, per facilitare il riciclo, ma oltremodo voluminoso, invadente e soprattutto “da buttare”.
Appurato dunque che il volume dei rifiuti che produco dipende dalla quantità e qualità della roba che mi porto a casa, mi pongo legittimamente una domanda. Posso fare qualche cosa affinché io possa decidere di comprare una pera o un televisore senza trascinarmi dietro quantità enormi di materiale che dovrò buttare? Si è no. Si, perché nessuno mi obbliga a comprare un televisore nuovo ogni volta che esce un modello nuovo anche perché un televisore più antiquato che funziona in casa ce l’ho già. No, perché nessuno, per lo meno in Italia, ha pensato a studiare e promulgare leggi che limitino il proliferare di materiale da imballo il cui onere dello smaltimento ricade interamente sul consumatore.
Nel nostro Paese esistono i consorzi obbligatori per il corretto smaltimento di rifiuti pericolosi e il riciclo industriale di materiali destinati a diventare nuove materie prime. I produttori e gli importatori e di oggetti che implicano attività successive di smaltimento o riciclaggio pagano un obolo al consorzio per le contribuire alle spese che il consorzio deve sostenere per riciclare il materiale, renderlo adatto a determinate produzioni industriali e convincere i potenziali clienti della bontà della materia riciclata. Questo è il motivo per cui nella campana di vetro siete autorizzati a mettere le bottiglie di vino vuoto e i vasetti di conserva, ma non lo specchio rotto o il vetro della finestra. Infatti chi produce vetro per usi diversi dalla conservazione del cibo non è tenuto a partecipare al consorzio obbligatorio. Lo sapevate? Io per esempio che lo so, se mi capita di buttare il vetro del cornice a giorno che è caduta per l’ennesima volta continuo a buttarlo nella campane perché altrove mi sembra da incivile.
Finora abbiamo parlato del materiale da imballo. Materiali puliti e intonsi che appena vedono la luce del sole vengono presi e buttati in un cassonetto puzzolente a contaminarsi con schifezze immonde che di fatto renderanno poco redditizio la riconversione in nuove materie prime. Non abbiamo ancora preso in considerazione i cosiddetti oggetti che arrivano al “fine vita”. E il nostro bidone della spazzatura è già quasi pieno. Che poi fine vita non è mai. Semmai eutanasia illegale di milioni di telefonini, computer, schermi, televisori, elettrodomestici e, attrezzi per lo sport, utensili, ricambi, borse, scarpe e cinture, cappotti, giacche e maglioni, giocattoli, bambole, peluche, armadi, suppellettili, quadri, piatti, bicchieri, radio, … che sebbene destinabili ad un uso assai più duraturo, vengono inevitabilmente buttati nella loro interezza, l’esatto opposto del maiale, di cui, è risaputo, non si butta niente. E non è solo moda o impellente attitudine verso il nuovo, ma reale impossibilità di sostituire ciò che veramente deve essere buttato con il pezzo che ripristini le originarie condizioni d’uso del mio oggetto. Date un’occhiata alle spazzole tergilunotto della vostra auto: quello che si consuma è solo la spatola di gomma a contatto con il vetro. Il resto, il traliccio di ferro e plastica che si muove insieme ai bracci del tergicristallo durerebbe almeno quanto la vostra auto. Tuttavia l’elettrauto mi cambierà tutto il pezzo, spatola e braccio compreso. La spatola è giunta a fine vita, ma il pezzo di ferro che la conteneva avrebbe voluto continuare a viaggiare con noi, sotto la pioggia, per molti altri chilometri. Sarà difficile spiegargli perché deve morire con le spatole come una vedova indiana destinata alla pira del marito. Esiste qualcuno che produce solo le spatole? Ebbene si, presso i centri di bricolage OKI, ma fate attenzione perché gli adattamenti sono diversissimi fra loro.
Altra domanda: perché i produttori di articoli destinati ad essere cambiati con una regolare frequenza, non pensano a progettare i loro oggetti pensando alla sostituibilità delle parti più vulnerabili o soggette ad usura al fine di rendere meno imponente lo spreco di materiale buono da destinare alla discarica? Facile rispondere: nessuno glielo impone!
Proseguiamo nella nostra disamina: in Germania e in molti altri Paesi con legislazioni a tutela dell’ambiente più avanzate e meno ossequianti nei confronti degli interessi dei potentati, sono state concepiti metodi a cascata per limitare l’impiego di imballi facendo ricadere l’onere dello smaltimento non su chi compra, ma su chi vende. Come funziona questo metodo di equità dello smaltimento? Semplicemente andando a minacciare i margini di profitto che i vari elementi della catena produttiva contribuiscono a generare nel processo distributivo. Se il punto vendita che ha venduto la televisione al cittadino tedesco è obbligato, come succede in realtà in quel Paese, a destinare spazi altrimenti destinati ad attività commerciale per disporre i contenitori che dovranno accogliere le varie tipologie di scarto generate dall’acquisto del mio televisore, subirà una perdita di opportunità. Se deve anche prelevare il materiale una volta che i contenitori sono pieni dovrà pagare un commesso perché lo faccia bene e senza farsi male o fare pasticci. Se poi deve anche prendere il tutto e portarlo ad un centro di raccolta dovrà anche usare un camioncino e perdere del tempo in cosa in attesa del suo turno. A questo punto il titolare del magazzino dirà ai suoi fornitori di usare meno imballo o in alternativa, chiederà ai produttori che lo riforniscono di contribuire ai costi dello smaltimento. Probabilmente una via d’accordo la troveranno e il consumatore tedesco non solo continuerà a non pagare una tassa perché qualcuno gli porti via la spazzatura dalle strade, ma sarà anche contento perché quando acquisterà il nuovo televisore avrà meno immondizia da riportare indietro. Semplice, no? Per alcuni versi geniale. E’ una legge e la si rispetta, nell’interesse di tutti. In Italia? No, niente di tutto questo perché da noi c’è la tassa spazzatura. Dimmi in quanti metri quadri vivi e ti dirò quanto devi pagare e poi produci tutta la spazzatura che vuoi. E non dite che in Italia non si promulgano leggi o decreti a favore dell’ambiente: siamo stati il primo Paese dell’Unione che ha deciso di anticipare la messa al bando dei sacchetti di plastica per la spesa. Avete visto: animi sensibili sempre pronti a recepire tutto quello che a noi non costa niente e ci fare bella figura.
Passo dunque ad enunciare il primo postulato della mia riflessione: se il problema della spazzatura è legato al suo smaltimento, perché non si impiegano risorse ed energia per arginare la quantità di rifiuti prodotti piuttosto che spendere soldi per fronteggiare emergenze che, perlomeno da quello che si osserva, non giungono mai a radicali soluzioni?
Facciamo un altro esempio; ripercorriamo le vicende che interessano una bottiglia di acqua minerale che, dopo l’appassionato bocca a bocca, gettiamo via senza tanti rimpianti. Dal cassonetto della plastica questa viene prelevata da un camion che la conduce in un centro dove sistemi automatizzati provvederanno alla separazione della plastica dagli altri materiali che hanno condiviso il regime condominiale del cassonetto come metallo, latta e alluminio. E a questo punto sorge già il primo nodo in quanto la plastica non è tutta uguale. Essa infatti ha determinate composizioni a seconda dell’utilizzo per la quale è pensata e per essere perfettamente riciclabile il materiale di origine deve avere una connotazione omogenea come PET, PE, PP, PMMA, sigle che identificano il nome del polimero utilizzato. Facendo un minestrone di tutto, come è logico aspettarsi a meno di non obbligare il cittadino a gettare i rifiuti facendo un’ulteriore differenziazione sulle tipologie di plastica da riciclare con costi e oneri improponibili, il risultato è che il prodotto derivante dal riciclo non sarà utilizzabile se non per un campo di applicazioni molto limitato: vengono esclusi, per esempio gli impieghi per usi alimentare, le applicazioni industriali con elevata componente tecnologica come l’elettronica e l’ottica ma trovano impiego nei materiali più utilizzate per i rivestimenti meno appariscenti delle automobili, per le giostre e altre attrezzature per parchi giochi, tavole da windsurf e fibre tessili come il pile.
E’ ovvio che di fronte a queste difficoltà e in ragione di modesti ritorni in termini economici, qualcuno si sia chiesto se tutto questo valesse la candela. Se teniamo conto che se la stessa bottiglia avesse preso per sbaglio la strada del termovalorizzatore, essa avrebbe contribuito, bruciando, a creare energia dato che il numero di calorie necessarie ad incendiarla è minore rispetto a quelle che produce. A tutti gli effetti questa energia può essere considerata proveniente da fonte rinnovabile visto che la spazzature non può essere certo definita una risorsa scarsa. Come si fa, pertanto, a trovare intese che portino ad una maggiore collaborazione per una minore abbondanza di rifiuti se qualcuno obbietta che i rifiuti sono una ricchezze e più ne produciamo più sono, appunto, valorizzati?

I motivi che determinano l'abbondanza di rifiuti che poi, per svariati motivi non riusciamo a smaltire senza incappare in periodiche crisi, vanno individuati sostanzialmente in tre ordini di motivi: il primo di scarsa predisposizione individuale a collaborare per ottimizzare la raccolta differenziata; se le amministrazioni intervenissero con sanzioni (sempre minacciate, ma mai effettivamente praticate), il processo di differenziazione funzionerebbe meglio e tutta la filiera ne trarrebbe beneficio. Il secondo punto è il concetto di onere da pagare per lo smaltimento dei rifiuti che, sebbene si definisca tariffa, opera come un vero e proprio balzello da pagare e che ci legittima a produrre rifiuti senza nessun incentivo a ridurre la quantità. Se le stesse amministrazioni di cui sopra invece di pascersi degli introiti derivanti da quanto i cittadini pagano per i rifiuti trovassero modalità per premiare gli atteggiamenti virtuosi il consumo di rifiuti potrebbe ulteriormente ridursi. A Verona, per esempio il comune premia con sconti sulla tariffa chi evita di sprecare il cibo e si organizza per donare il surplus a chi ne ha bisogno. In ultimo chi produce, distribuisce e soprattutto, vende materiale che diventerà materiale destinato alla discarica deve contribuire in modo diretto (e non indiretto con l'adesione ai consorzi che poi generano oneri che ricadono sul prezzo finale) allo smaltimento dei "loro" rifiuti" E a questo deve provvedere il Governo con opportuni provvedimenti.

Torniamo al torsolo della mia pera, protagonista dell'inizio di questo post e seguimolo nel suo ultimo viaggio dal cassonetto alla sua destinazione finale. Se prenderà la volta per l'impianto di compostaggio verrà trattato in modo da diventare concime per le aiuole e i giardini degli stessi comuni di provenienza. Se invece andrà in discarica inizierà a decomporsi generando quell'effetto che immediatamente si collega al concetto stesso di spazzatura: la puzza.
Il motivo che scatena l’ira dei manifestanti contro le discariche a Terzigno e adesso a Giuliano è sostanzialmente l’odore. La puzza persistente di materiale organico in decomposizione che accompagna la giornata e ti fa prevedere il tempo che farà dalla maggiore o minore intensità. Il materiale organico, ovvero quello che doveva raggiungere già da qualche anno la soglia del 35% sul totale dei rifiuti raccolti, in alcune zone della Campania non è mai partita anche se trai soldi destinati all’emergenza sono stati spesi circa 2 miliardi di euro (leggete bene) per farla partire dopo innumerevoli distribuzioni di cassonetti, contenitori e altro materiale che ha raccolto di tutto tranne che spazzatura accuratamente distribuita. Ricordate Suor Emmanuelle? Ve ne avevo parlato in un post di qualche giorno fa. Questa religiosa francese che non aveva neppure avuto un momento di imbarazzo quando doveva affondare fino alle ginocchia per portare il suo aiuto ai miserevoli spazzini di Città del Cairo che nella spazzatura ci vivevamo perché era l’unica fonte di sostentamento, è stata una delle prime a fiutare il valore della spazzatura come risorsa aprendo impianti di compostaggio in Egitto e in altre zone del mondo diseredato. Con pochi soldi, con l’aiuto di pochi e con tanta forza di volontà. Quella che manca a chi il problema dei rifiuti non lo vuole risolvere.

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