Il blu che dipinge l'acqua e gli oceani e che con se ha del mare tutti i sapori
Il verde che dipinge i campi e i prati come cieli colorati
L'arancione che colora l'arancia, la pesca e il melone
Il giallo che colora il sole e riscalda il nostro cuore
e per ultimo il rosa, ma non per importanza
che con grazia adorna la stanza di ogni ragazza
Attraverso le nostre scelte consapevoli è possibile diminuire i consumi per l'affermazione di un'economia sostenibile ed equa. Dai modelli di comportamento, ai trasporti e alle letture tutto è materia per un approfondimento che porti a discriminare tra l'utile e il vacuo, tra la sostanza e l'effimero, tra il modello virtuoso e il pedissequo seguito a richiami di inconsistente benessere.
lunedì 29 dicembre 2014
giovedì 25 dicembre 2014
Il Natale di Francesco
Francesco entrò nella casa del padre. La madre lo guardò con severità e apprensione. Era vestito con abiti eleganti e puliti. I piedi erano calzati da sandali di cuoio coperti da lana grezza. Questo apparire aumentò lo stupore e la speranza di sua madre. Suo padre gli venne incontro guardandolo con affetto senza soffermarsi sul suo aspetto. Lo abbracciò e il figlio ricambiò il gesto. Si sedettero al tavolo e i genitori lo guardarono facendogli intendere che spettava a lui l'onore della preghiera di ringraziamento. Francesco prese un grosso pezzo di pane e ci appoggiò sopra le mani, accarezzandolo lungamente. Sua madre e suo padre lo guardavano commossi. Discoste, ai lati della stanza, le due serve si inginocchiarono e si segnarono. Subito dopo iniziarono ad arrivare i piatti, semplici pietanze ordinate appositamente dal padre di Francesco. Mangiarono in silenzio. Verso la fine del pasto il padre iniziò a parlare dei suoi affari, dei nuovi mercati che aveva aperto e dei viaggi che non avrebbe più potuto affrontare. Infine parlò dei suoi averi e di che cosa aveva disposto. Francesco si alzò e lo abbracciò. Il padre, seduto, rimase immobile tenendo strette sul petto le mani del figlio. Due grosse lacrime gli rigavano il viso poi lo guardò e disse "Ti ringrazio per avere accettato il nostro invito e per avere onorato la tua famiglia e la tua casa. Comprendo che le stoffe dell'abito che indossi sono per te un tormento, ma ti ringrazio per avere rispettato il decoro di questa casa. Tua madre nutre sempre la speranza che tu possa tornare da noi, ma non pensare che non rispetti le tue scelte. E' tua madre e tu sei l'unico suo figlio." Francesco ascoltava con la testa china. Suo padre non parlava con rancore, non teneva più la parte di chi ha subito un torto. Gli parlava con dolcezza, con complicità. Ormai l'aveva capito in tutto. Anche la ragione di quegli abiti indossati appositamente per il giorno di Natale. Francesco temeva che si illudesse che si fosse ravveduto che fosse tornato alla casa per chiedere perdono. Quel giorno capì che suo padre non si sarebbe mai più illuso. Baciò sua madre e l'abbracciò. La sentì irrigidirsi e poi scostarsi leggermente. Uscì. L'aria era fredda e il suo corpo, dopo il tepore della casa paterna, stentò a riabituarsi a clima rigido di quell'inverno. Guardò in alto e dalla finestra: suo padre lo stava guardando. Lo fissò e alzò la mano. Francesco non lo lesse come un saluto, ma come un cenno di intesa. Non lo rivide mai più da vivo, ma quello sguardo di tacita approvazione se lo portò sempre dentro, anche nei momenti più duri della sua vita.
martedì 14 ottobre 2014
La barca sull'autostrada
Era una bella barca. Progetto originale inglese, scafo e ponte in teak, armata yawl come imponeva la moda in voga all'epoca. Certo che chi l'avesse vista con quello squarcio a dritta e quel poco di bianco rimasto sull'opera morta, i listelli di teak quasi del tutto sollevati... Eppure qualcuno aveva saputo che nella rada di La Spezia era stata affondata dai tedeschi una delle più belle barche a vela di quegli anni. Affondata per ripicca, dicevano. Si voleva impedire l'ingresso dei siluranti inglesi, ma uno scafo così sottile, esile e affusolato, quasi una matita appuntita dal temperino di resistenza ne avrebbe offerta ben poco. Chi si voleva affondare era l'ostinata resistenza del suo primo armatore, nonché esperto committente del progetto, il capitano Raineri della Regia Marina, passato sotto le file degli Alleati con compiti di intelligenza sulle azioni offensive del nemico. Il capitano era un ottimo elemento. Inglese fluido, atletico, bella presenza e modi impeccabili. Ormai però la sua Orsa era un relitto in fondo al mare e le puntate sul Tino con il maestrale della tarda primavera erano solo un ricordo di un passato che non tornerà. Dopo la guerra i suoi nuovi incarichi a Washington non lo porteranno più a La Spezia se non per brevi puntate occasionali all'Arsenale della Marina. E lì, da qualche punto dove è possibile dominare il golfo proverà a cercare le crocette della sua barca sperando ingenuamente di vederle spuntare da qualche parte. Ma la sua Orsa, come la ricordava lui, non esisteva più.
Il palombaro aveva faticato non poco a portare a galla la barca. Ancorare tutti quei palloni per portare su un relitto che non andava neppure bene per il falò di primavera. Ci voleva proprio quell'industriale che dice di essere ligure, ma che in verità è della peggiore razza di lombardo a tirare in ballo la storia dell'Orsa. Tanti soldi a che cosa servono se alla fine ti vai ad incapricciare per una barca in fondo al mare che non serve neppure per coltivare i muscoli? Dicono che voglia portarla in un cantiere di Chiavari e farla armare da un suo amico che si intende di barche. Pare addirittura che voglia armarla Marconi, come si dice adesso, un albero solo, ma alto molto alto, troppo alto per una barca così sottile. Ma quando il palombaro, invitato al varo, l'ha vista ha avuto una scossa di orgoglio per il suo lavoro e di gratitudine per chi glielo aveva commissionato. La Kea era la barca più bella del mondo. L'opera morta era blu adesso che la rendeva ancora più snella e filante, i candelieri e tutte le manovre mobili erano in ottone lucidissimo, la barra del timone saltava fuori dal pozzetto come un delfino in amore e quell'albero altissimo con tre crocette. Come farà quando sarà sotto vento con tutta quella vela? Ma hai visto l'armatore? con quei figli viziati e la moglie che non ha la minima idea di cosa voglia dire muoversi su una barca. E infatti per l'armatore il problema di come fare non esisteva più. Aveva recuperato un relitto in fondo al mare, forse più che altro per esorcizzare una guerra che non voleva, l'aveva plasmata a suo piacimento, l'aveva sfoggiata ormeggiandola nel punto più in vista del porto di Santa Margherita. Non c'era il diletto della navigazione, il gusto della scoperta, il piacere della crociera. Questo sarebbe toccato ai figli, ai due maschi maggiori con tanti amici e amiche anche quelle milanesi che si mettevano in fila per un'uscita in barca. I più fortunati potevano sperare anche in una crociera: la costa Azzurra rampante ed esclusiva riviera di Hollywood, la Corsica, ancora aspra e selvaggia, le isole dell'arcipelago Toscano che scoprivano il turismo e la navigazione da diporto. E la Kea la si notava sempre. Per quella linea sottile che sembrava sfidare le leggi della fisica, per il suo albero altissimo, per l'aria di girovaga che trasmetteva a chi la guardava
. Tanti ammiratori e tanti estimatori. Anche qualcuno che avrebbe voluto averla. Tutta per lui. E alla fine fu così. Un vero industrialotto brianzolo, la vede, la cura e se ne innamora. La vuole redimere dallo stato di semi abbandono al quale l'avevano relegata i suoi proprietari. La compra e la fa armare a suo gusto: abbassa l'albero che non sarà più di legno, ma di metallo, rialza la tuga e potenzia il motore sostituendo il vecchio Fiat che era servito più che altro per le manovre in porto. La terrà per tantissimi anni, amandola più di ogni altra cosa al mondo. Anche se non era più la più bella barca del mondo per lui era un rifugio, un modo di vivere e di pensare: era il suo Samadhi. Quando ormai vecchio e con la mente completamente annebbiata dalle brume della demenza, quando ormai la sua azienda, la sua famiglia e i suoi soldi non avevano più alcun valore per lui, costretto a finire i suoi giorni in una stanza di una clinica della periferia di Monza, in un rarissimo momento di lucidità ordina: "portatemi qui la mia Samadhi". E qui voleva dire nel cortile della sua azienda, lungo l'autostrada a disposizione del suo fedele amante.
. Tanti ammiratori e tanti estimatori. Anche qualcuno che avrebbe voluto averla. Tutta per lui. E alla fine fu così. Un vero industrialotto brianzolo, la vede, la cura e se ne innamora. La vuole redimere dallo stato di semi abbandono al quale l'avevano relegata i suoi proprietari. La compra e la fa armare a suo gusto: abbassa l'albero che non sarà più di legno, ma di metallo, rialza la tuga e potenzia il motore sostituendo il vecchio Fiat che era servito più che altro per le manovre in porto. La terrà per tantissimi anni, amandola più di ogni altra cosa al mondo. Anche se non era più la più bella barca del mondo per lui era un rifugio, un modo di vivere e di pensare: era il suo Samadhi. Quando ormai vecchio e con la mente completamente annebbiata dalle brume della demenza, quando ormai la sua azienda, la sua famiglia e i suoi soldi non avevano più alcun valore per lui, costretto a finire i suoi giorni in una stanza di una clinica della periferia di Monza, in un rarissimo momento di lucidità ordina: "portatemi qui la mia Samadhi". E qui voleva dire nel cortile della sua azienda, lungo l'autostrada a disposizione del suo fedele amante.
E questa e la storia della barca che tutti i giorni noterete passando sull'autostrada all'interno del cortile di quei capannoni. Non è li perché lì le costruiscono e non è neppure lì per essere demolita. E' solo ormeggiata ad uno dei fantastici moli sul fantastico mare che solo il suo armatore riesce a vedere.
martedì 24 giugno 2014
Il male che viene da dentro
Imbarazza l'ostinato silenzio del signor Matteo Salvini di fronte ai brutti fatti di violenza e crudeltà della scorsa settimana. Un tranquillo padre di famiglia che stermina la famiglia per una crisi sentimentale di stampo pre-adolescenziale, un altro padre di famiglia che, sebbene presunto assassino, dovrà per lo meno giustificare il fatto di avere lasciato traccie biologiche sugli indumenti intimi di una minorenne. In ultimo uno scalmanato che, nudo come un verme, accoltella passanti urlando frasi sconclusionate. I motivi dell'imbarazzo li possiamo comprendere: nessun extracomunitario da accusare, solo italiani, neppure meridionali: lombardi doc!
Una nemesi etnica che ha colpito lo sventurato segretario della Lega dopo le speranze della rinascita elettorale. Bei tempi in cui tutto il male veniva da fuori e si faceva credere alla gente che la malvagità si poteva debellare chiudendo le frontiere e imponendo dazi doganali commisurati allo scuro della pelle.
Il male, caro Salvini, è dentro di noi. Non c'è modo di tenerlo a bada. Non alberga nel negro, nello straniero, ma è spesso volte quello straniero che è dentro di noi e che salta fuori dalla normalità di una famiglia, dalla tranquillità di un lavoro regolare e ben remunerato, da dietro i vasi di gerani di una villetta bifamiliare; insomma anche in quella Svizzera promessa che, a quanto lei dice, hanno contribuito a demolire le ondate di emigranti arrivate in Italia senza controllo. Avrà capito che il male, certe volte, non deve fare molta strada per giungere da noi. Nei fattacci di cronaca nera a cui si fa riferimento, i protagonisti sono tutti "lumbard", senza contaminazioni. Neppure una goccia di sangue meridionale, neppure quello. Tempi duri, caro Salvini per le sue ferree convinzioni. Neppure più Kabobo potrà attaccare. Almeno lui un po' di dignità l'ha avuta astenendosi dal girare nudo dopo la mattanza.
Un ultima domanda, signor Salvini, ma lei i film di fantascienza degli anni '50 non li ha mai visti? Male, male (è il caso di dirlo). Se ne faccia una bella scorpacciata: vedrà che il male quando vuole fare male veramente usa la tattica più efficace per vincere: nascondersi lì dove nessuno si aspetta che sia.
lunedì 23 giugno 2014
Corporativismo di Stato
I tassisti sbraitano e invocano il rispetto delle leggi tirando per la giacchetta quel governo di cui si fanno spesso beffe nel corso delle chiacchierate con gli occasionali clienti. Il governo gli dà ragione, ma li invita anche a darsi da fare per rendersi un po' più reperibili visto che la loro "app" più aggiornata si ferma al telefono nero di bachelite vicino al parcheggio. Loro ci provano, ma i risultati non sono incoraggianti. Dovranno minacciare ancora scioperi e agitazioni per farsi ascoltare e, probabilmente, farsi foraggiare lautamente invocando uno stato di crisi.
Paradossale che una categoria professionale di fronte alle minacce di estinzione debba appellarsi al diritto costituito. Ovvio se pensiamo che cosa significa per un'economia moderna essere assoggettata al cappio delle corporazioni: incapacità di rinnovamento, logiche ricattatorie, investimenti ridotti al minimo e spesse volte a carico della collettività.
Uber è nato negli Stati Uniti dove leggi e norme regolano in modo quasi asfissiante i settori di interesse pubblico. Ma non offrono tutele di fronte all'inerzia e all'incapacità di reagire alla sfide del mercato. In Italia e in buona parte dell'Europa sono i Governi che non sanno raccogliere le sfide, preferendo assoggettarsi a logiche di interesse spicciolo e orizzonti imprenditoriali di piccolissimo cabotaggio.
mercoledì 18 giugno 2014
La voce buona della politica
La politica si può esprimere in tanti modi. Quando impartisce saggi sulla moralità fa ridere, quando minaccia pene e restrizioni preoccupa, quando promette contribuisce a generare un nuovo partito che smaschererà il reprobo. Ogni tanto, raramente, usa parole buone. Ma quando lo fa, tocca il cuore. Oggi il Presidente della Camera lo ha fatto. Laura Boldrini ha esortato i disperati dei barconi a pensare all'Italia come ad un Paese che li considererà sempre e comunque benvenuti. Belle, come sono le parole della speranza, come una mano tesa che si allunga a chi sta affogando, come un sorriso ad un condannato a morte scortato verso il patibolo. Non si scandalizzino i gendarmi della difesa dei confini della Patria. Non sono le parole che legalizzano i clandestini, nessuno sdoganamento di politiche di immigrazione incontrollata. Sono le parole buone di una politica buona che sa vedere lontano e che, più di altro aiutano un disperato a vedere lontano: un ricongiungimento con la propria famiglia, una vita di opportunità che si profila davanti a chi rischiava solo fame e morte, o solo molti chilometri tra la propria incolumità fisica e gli aguzzini.
Un augurio di benvenuto: perché è buona la tua venuta se hai scelto la mia terra per scappare dalla tua e buona deve essere la volontà di chi ti accoglie.
Il Presidente della Camera ha usato le parole che dovrebbe usare il marinaio che soccorre il barcone semi affondato, l'operatore umanitario che rifocilla dopo giorni di sole, mare e paura, il poliziotto e il carabiniere che scortano al centro di prima accoglienza. Ma che spesso non usa il politico che agita la catastrofe, paventa la rovina e minaccia le cannonate. Parole che non vanno oltre il traguardo del titolo in giornale del giorno dopo. Le parole della speranza, come tutto ciò che è buono, restano.
venerdì 23 maggio 2014
Le notizie che passano in fretta
Il bambino down portato in braccio dal suo campione del cuore mentre festeggia la vittoria del campionato di calcio scozzese non è una notizia che viene da un altro mondo, siamo in Scozia appunto, ma è una dimostrazione che la folla può anche trasmettere sentimenti buoni e edificanti. L'assembramento di tifosi assiepato fa paura, questo è vero, ma il loro unico elemento di sostentamento è quanto gli viene trasmesso dall'oggetto del loro fanatismo. E molto spesso questo è un sentimento negativo di rabbia, aggressività e di sopraffazione dell'avversario. Nelle arene insanguinate della Roma imperiale si forgiavano gli spiriti e la tempra di chi avrebbe avuto il compito di fare diventare sempre più grande e potente l'Impero. Armi, combattimenti, violenza, sangue e morte erano un companatico adeguato. Oggi che i confini dell'impero non sono più così propensi ad allargarsi e che il nemico è vinto, scacciato, battuto, le espressioni di violenza finiscono sulle pagine di cronaca giudiziaria e non più sui libri di storia. Il calcio di oggi, soprattutto in Italia dove la sportività è un fatto quasi sempre di partigianeria e mai di rispetto verso chi ha colori diversi, è impregnato di violenza, razzismo, ignoranza e impunità. Tutti colpevoli: giornalisti, allenatori, dirigenti, presidenti e nel piccolo, genitori di piccoli calciatori, allenatori di piccoli calciatori, presidenti di piccole società. E ovviamente anche i tifosi che sono tutti quelli menzionati prima messi assieme. Solo loro si salvano, i calciatori. Anche quelli italiani. Potenzialmente capaci di gesti grandi, generosi, munifici, ma spesso prigionieri timorosi di convenzioni sbagliate, obblighi contrattuali, atteggiamenti imposti che mal si confanno alla loro magnanimità.
Il giocatore del Celtic, Samaras, che si è reso protagonista di un gesto spontaneo si è rivolto alla folla non per chiedere sangue e violenza, ma uno dei suoi figli più deboli e lo ha reso grande per un giorno. Lui lo sarà solo per qualche giorno di più perché nessuno ne parla più. Nel frattempo, Genny a' carogna che si è esibito sui cancelli dello stadio negli stessi giorni in cui il Celtic vinceva il campionato, ha, a pieno titolo, conquistato l'attenzione di tutti. Paese che vai...
mercoledì 14 maggio 2014
Le notizie già scritte...
Ci sono notizie che tanto vale scriverle sui giornali perché gli antefatti dalle quali derivano generano accadimenti ben prevedibili da chiunque abbia un minimo di buon senso. Un pedofilo impenitente che viene messo a fare il bidello in una scuola elementare originerà sicuramente qualche stralcio di sordida cronaca a sfondo sessuale depravato; un ex marito respinto e rancoroso con pistola d'ordinanza dopo l'ennesima denuncia a piede libero, esploderà in furia omicida, e cosi via, fino ad arrivare all'ovvio di un "grande evento" della dimensione di due miliardi di euro da tenersi in Italia e affidato a faccendieri e impresari italiani. Finisce sempre nel modo più scontato e prevedibile. Tanto vale leggere i giornali. La lezione che dovremmo imparare, dovrebbe essere quella di tenere alla larga i brutti ceffi dal bottino, ma questo non è possibile perché i brutti ceffi lavorano proprio per le facce rispettabili che hanno le chiavi della cassaforte, ma che fanno finta di perdere. Quello che dovremmo "apprendere" una volta per tutte è che queste cose non sono per noi. Lo sono state, forse, tempo fa (anche se non è possibile escludere le mangerie per le grandi manifestazioni del passato), ma adesso è roba che a noi fa male. Molto male. Lasciamole a chi è più bravo di noi a tenere sotto controllo gli appetiti dell'affarismo. Lasciamolo agli americani, se ne avranno ancora voglia, agli australiani che vogliono farsi conoscere al mondo, ai cinesi e agli indiani che devono dare dignità alla nuova dimensione della ricchezza planetaria. Oppure lasciamola ai turchi che tanto avrebbero fatto pur di fregiarsi del podio dell'Expo 2015. Proviamo a vedere se sono disposti a comprarci, a prezzo di svendita, l'Expo del 2015. Hanno tempo ancora un anno per fare tutto. Potrebbero farcela. E toglierci sinceramente dall'imbarazzo di un'altra vergognosa pagina della nostra storia.
mercoledì 9 aprile 2014
La storia agra
Gli anni del boom economico nascondono molte piaghe tra le ombre in chiaro scuro dei film che ne hanno celebrato gli splendori e i sogni. Oggi che le menti vagano alla ricerca della grande bellezza di una Roma felliniana ebbra di sontuosa malinconia per eleganti figure in bianco e nero, sarebbe anche opportuno puntare il fuoco sull'altra capitale del miracolo italiano, quella Milano che si ergeva come baluardo di virtù con le terrazze Martini, la piazza del Duomo dardeggiante di neon e una nebbia che faceva ancora paura. E in questa città, nelle pieghe di una vita che scorre irrimediabilmente e inquietamente uguale a quella dei giorni nostri, ci porta il personaggio, dichiaratamente autobiografico descritto nella Vita Agra, il romanzo che diede onori e fama a Luciano Bianciardi. Venuto dalla terra di Maremma con la ferma intenzione di immolarsi contro la sede di una multinazionale simbolo dell'insaziabile ingordigia del costituendo partito della razza padrona che, per sciatteria e colpevole trascuratezza, decimò la vita di una quarantina di minatori in una delle innumerevoli stragi sul lavoro del tempo, il protagonista subirà la lenta metamorfosi che muterà lo spirito di ribellione in una spasmodica ricerca della quotidiana sopravvivenza. Non si scorge traccia di affetto nel suo rapporto con Anna, la compagna, ma solo le tensioni di un rapporto di scambio scandito da datori di lavoro sovra eccitati, femmine compagne dalle aspirazioni piccolo borghesi, meandri della burocrazia di partito che portano ovunque tranne che sulle vie della rivoluzione e i mille sotterfugi per sfuggire all'altra faccia della miseria che sono i "tafani" mandati dai creditori a riscuotere debiti e cambiali in scadenza, venditori ambulanti, committenti impazienti e segretarie nevrasteniche in perenne lotta con il proprio mestruo. E' una descrizione disagiata della vita di quegli anni, ancora troppo ottimisticamente consacrati come il tempo delle vacche grasse. Sono spaccati di interni di piccoli appartamenti ammorbati dal tanfo di sigarette fumate in sequela per attingere forze ed energie per arrivare in fondo agli incarichi assunti, una conta spasmodica delle cartelle tradotte solo per potere contabilizzare la copertura dell'affitto, della rata per i mobili, l'assicurazione per potere campare in caso di malattia. E Milano, che più volte lo rigettò (fu licenziato per scarso rendimento dalla neonata Feltrinelli) non ne esce meglio. Il protagonista, Bianciardi stesso, si è detto, si muove nelle quattro mura di una vita che potrebbe benissimo essere quella di un precario sottooccupato o un disoccupato del terziario degli anni 2000, ovvero i nipoti di quelli che in cinquant'anni non hanno ancora imparato ad amministrare le risorse del Paese. Bianciardi ottenne fama e vita agiata dalla pubblicazione del suo lavoro nel 1962, al culmine cioè della rinascita industriale italiana, ma anche lui non seppe amministrare il suo benessere. Morì alla soglia dei cinquant'anni distrutto dall'alcol e dalla fatica delle vita agra. Ci lascia un testo vivo e toccante che serve ancora, purtroppo, solo per riflettere.
Luciano BIANCIARDI (1971) - La Vita Agra, Rizzoli
martedì 1 aprile 2014
Lavoro tuo e lavoro mio
L'Italia continua a rimanere al palo quando si tratta di impostare delle politiche di miglioramento dello stato dell'occupazione. Sia in termini percentuali, cioè di incremento del numero di occupati sul totale delle persone abili al lavoro, ma , e soprattutto, per quanto riguarda la qualità del lavoro. Ovvero che tutti siano contenti di quello che fanno. Che non sempre significa che il laureato debba fare lavori adeguati alla sua preparazione: se il giovane ingegnere vuole guadagnare qualche soldo facendo il garzone in un supermercato perché ha deciso di farsi il giro dell'Australia a piedi prima di iniziare la sua carriera professionale, è giusto che chi lo assume lo inquadri regolarmente, lo paghi per quello che fa e gli riconosca tutti i diritti che gli spettano. Il lavoro va tutelato sempre, indipendentemente da chi lo svolge. Ma è risaputo che spesso non è così. L'italia rimane ferma, incapace di trovare una via che sblocchi il sistema di reclutamento della forza lavoro dai pregiudizi e che lo liberi dall'applicazione di pratiche sostanzialmente scorrette e leonine. Non è sempre corretto puntare il dito contro la crisi e le dinamiche di profitto delle multinazionali e le manovre della finanza globale. Il dito lo dovremmo, semmai, puntare contro noi stessi e farci carico della colpa di dare troppa poca importanza al lavoro degli altri e a sopravalutare eccessivamente il nostro. Il lavoro è, troppo spesso, solo il nostro. Quello degli altri è una fastidiosa circostanza. Le conversazioni di lavoro tra pendolari sul treno si focalizzano sempre su quanto faticoso e carico di responsabilità sia il proprio incarico e su quanti colleghi scansafatiche e approfittatori si annidino nella propria azienda, chi lavora nel privato critica chi lavora nel pubblico e viceversa, il professionista e l'artigiano criticano l'operato del collega per valorizzare se stessi al cospetto del nuovo cliente, gli automobilisti mandano improperi all'indirizzo del camionista che ostruisce la strada quando lo stesso sta consegnando quello che mangerà a cena. Non sempre il rapporto è dialettico tra il giudice e l'avvocato, tra il tifoso e lo sportivo, fra il genitore del ragazzo somaro e il suo professore. Il marito denigra il lavoro della moglie e la padrona di casa sevizia la domestica accusandola di battere la fiacca. E via dicendo.
Il valore civile nelle relazioni sociali si misura anche da quanto rispetto e tolleranza si dimostri nei confronti delle diversità, ma nel nostro paese le logiche corporativiste hanno sempre prevalso con conseguenze di lunga gittata che hanno contribuito a creare un sistema fermo da anni incapace di conformarsi alle opportunità offerte dal mercato che cambia costantemente e, soprattutto, di smussare quella disastrosa tendenza a discriminare tra i lavori considerati rispettabili e quelli di basso rango, tra i lavori occasionali e quelli stabili, tra quelli da dipendenti e quelli da autonomi. Di fatto tutti legali, ma tutelati in modo molto diverso e origine delle vistose sperequazioni che oggi saltano all'occhio.
Il valore civile nelle relazioni sociali si misura anche da quanto rispetto e tolleranza si dimostri nei confronti delle diversità, ma nel nostro paese le logiche corporativiste hanno sempre prevalso con conseguenze di lunga gittata che hanno contribuito a creare un sistema fermo da anni incapace di conformarsi alle opportunità offerte dal mercato che cambia costantemente e, soprattutto, di smussare quella disastrosa tendenza a discriminare tra i lavori considerati rispettabili e quelli di basso rango, tra i lavori occasionali e quelli stabili, tra quelli da dipendenti e quelli da autonomi. Di fatto tutti legali, ma tutelati in modo molto diverso e origine delle vistose sperequazioni che oggi saltano all'occhio.
sabato 22 marzo 2014
Improvvide dichiarazioni
Il signor Moretti, amministratore delegato di Trenitalia, deve avere pensato che se fosse stato zitto, adesso sarebbe meno esposto alle migliaia di critiche che gli stanno piovendo da tutte le parti. Critiche scontate, in alcuni casi ingenerose e offensive, ma pur sempre meritate. Non si dice che se qualcuno dovesse decidere di tagliargli lo stipendio, non gli resterebbe che andare all'estero, soprattutto dicendo che in Germania uno come lui lo pagherebbero tre volte tanto. In Germania, ma forse anche da altre parti, se ti pagano bene per fare andare i treni, i treni, guarda guarda, devono proprio andare bene, essere sicuri e offrire gli standard minimi di pulizia. A tutti, non solo a chi viaggia sull'alta velocità, ma anche ai dannati della bassa velocità, quella spina dorsale dell'economia italiana che si muove in treno per andare a lavorare. Al signor Moretti che vuole andare in Germania bisognerebbe dire che appena un pendolare tedesco s'incazza (ne basta uno, non una schiera che minaccia una class action) sarà lui quello tenuto a dovere rispondere delle inefficienze del sistema che governa. Non potrà certo fare spallucce, come pare faccia ogni tanto, scaricando le responsabilità su regioni e sottoposti vari. O sostenere che bisogna fare guadagnare l'azienda solo con quello che rende (vedi alta velocità) e che tutto il resto sono rami secchi. E soprattutto il signor Moretti, per quel che è pagato, che per poco possa sembrargli sono sempre novecento mila euro, dovrebbe comprendere che nella maggioranza dei casi, e soprattutto di questi tempi, certe cose le persone come lui non le dovrebbero dire. Forse il suo omologo tedesco lo pagano di più anche perché sarà più bravo di lui a mordersi la lingua.
martedì 18 marzo 2014
Macro-regioni e trasporti micragnosi
E' probabile che l'ultima volta che il signor Governatore Maroni, presidente della regione Lombardia, nonché di quella particella settentrionale d'Italia destinata a macroregionalizzarsi, sia salito su un treno fosse in occasione di una qualche gita scolastica in visita alla Fiera di Milano nei bei tempi andati della sua giovinezza. Per chi ha vissuto quell'esperienza, andare in gita con i compagnetti e non vedere l'ora di defilarsi dalla vista dei professori per qualche ora era una bella prospettiva di divertimento e libertà. Anche se i treni di allora risalivano a prima della guerra e nel tepore di Aprile - quello era il periodo della Fiera - salire su una di quelle carrozze significava entrare in una specie di fornace, alla fine in fondo, chissenefregava! Adesso però la fiera di Milano non esiste più e anzi, fra un po' tireranno pure giù tutto per fare qualche bel complesso residenziale. Ma si sa, i tempi cambiamo e il mondo va avanti. Soprattutto se a spingerlo in avanti ci sono uomini politici lungimiranti come lei, signor Governatore. Se però, signor Governatore Maroni, le saltasse in mente di tornare ai bei tempi andati e riassaporare il gusto della scorribande dei tempi le consiglierei di farsi una bella gitarella prendendo il treno in una delle tante stazioncine poste lungo le linee ferroviarie della Regione che amministra con tanto zelo (lo sapeva, vero, che ci sono anche i treni in Lombardia? o se lo era dimenticato?) Dovrebbe salire, per esempio a Busto Arsizio e scendere a Varese, che mi dicono essere anche la sua città, e dovrebbe, per cortesia farsi accompagnare da un amico o un parente con qualche problema a camminare (nulla di serio, per la carità, semplicemente senza più lo scatto e l'agilità di una volta) perché possa capire che per farsi male, questa volta seriamente, basta scendere dal treno visto che tra la carrozza e il marciapiede, chissà come mai, ci sono circa cinquanta centimetri di salto. Una volta c'era l'Orient Express con la pedana e i facchini per aiutare a fare scendere i viaggiatori facoltosi. Ma oggi non ci sono ammomenti neppure i controllori. Potrebbe, per cortesia ripristinare questa antica usanza, almeno per le persone più bisognose perché non sempre si trovano anime caritatevoli che si prodighino per aiutare. Se proprio vuole inviti anche una sua conoscente con una carrozzella da spingere (i bambini nonostante tutto nascono ancora e qualche genitore scriteriato li fa viaggiare in treno) così potrà scoprire quanto sia facile per una signora con prole a seguito riuscire a scendere e risalire due rampe di scale, oltre ad affrontare il simpatico saltino a cui si è già accennato. Eppure dicono che con gli ascensori questo sia un problema ovviabile. Ha presente? E' debole di vescica? Ahi, ahi questo è un problema, signor Maroni, dove può andare un Governatore per la minzione? Al gabinetto. Ma se il gabinetto non c'è bisogna andare al bar della stazione, pagare il caffè al barista cinese, farsi dare le chiavi, pisciare restituire le chiavi e pagare il caffè. Un governatore della lega nord che paga il caffè al cinese? Anche questo non va tanto bene. Meglio farla sui cespugli o contro i muretti come la moltitudine di balordi che affollano gli atrii e le sale d'aspetto abbandonate delle stazioni. Perché nonostante tutto, alla gente in stazione piace venire. Magari anche a dormire. A chi non piace tanto frequentare la stazione sono i pendolari per prendere il treno. Davvero ne farebbero a meno. Davvero non ha mai viaggiato in treno?. Ma venga signor Governatore Maroni, anzi venghi, venghi, sior Maroni, un'esperienza così le aprirà gli occhi. Si spera, beninteso, che lei gli occhi non li apra come il suo omologo della macroregionalizzanda regione Piemonte che avendo scoperto che i treni per spostarsi (e spostare persone) costano qualche soldino, non riuscendo proprio a capire come potesse esistere gente che usa ancora il treno, ha deciso bene di eliminarli tutti. Ma proprio tutti. Tabula rasa. Preferisce forse muoversi con il pullman? Ma si forse è meno plebeo del treno. Un gradino in su. Autopullman si dice, fa molto gruppo leghista di Lecco in trasferta al giuramento di Pontida (bei tempi, quelli). Allora le dico io cosa vuol dire andare da Varese a Busto Arsizio (che farà anche ridere come toponomastica, ma è comunque la seconda città della provincia): un'ora e mezza di bus e due cambi, se va bene. Se no due ore e mezza e tre cambi. Per fare 22 chilometri. Ha qualche problema con la lentezza dei trasporti del sud, Governatore Maroni? Marino, la linea di trasporti che collega l'industriosa Lombardia con la Puglia in due ore e mezza ha già raggiunto Bologna, E dopo poche ore fa già sentire odore di orecchiette ai suoi passeggeri. Dimenticavo: sempre ammesso che riesca a fare il biglietto giusto presso la rivendita giusta al prezzo giusto e nell'orario giusto. Giusto?
Governatore, io capisco che lei è oltremodo impegnato in epiche e gloriose battaglie per la terza pista, il quarto passante e il quinto valico, ma a me basterebbe il primo gabinetto a Busto Arsizio, anche con la turca che pare essere più igienico, nonostante la provenienza extracomunitaria. Capisco che il potere leghista è sempre pervaso dal fuoco sacro di andare a scovare le ruberie e gli sprechi della razza ladrona, e che una schiera di animosi Audi-zzati, BMW-izzati e Mercedes-izzati si scapicolla alla ricerca del guadagno serio, onesto e meritato da blindare al sicuro dal prelievo fiscale. Governatore Maroni, ora che si avvera il sogno dell'Expo del 2015, per il quale ha tanto lottato e sfidato i poteri forti che le avrebbero volentieri sabotato l'evento, perché non si fa veramente un giretto in treno. Glielo chiedo perché sembrerebbe che sui treni quelli che devono valutare e poi decidere non ci salgano mai, ma proprio mai. Pare che per evitarsi il disturbo preferiscano costruire una nuova strada, con tante gallerie, ponti e tonnellate di terra da spostare. Oppure per togliersi il problema le sopprimono.
giovedì 13 marzo 2014
Il mondo che riparte con Jérôme
Scrivere una lettera al Papa per farsi ricevere. Incontrarlo e poi decidere di tornare a casa a piedi. Millequattrocento chilometri prima di raggiungere la sua città, Parigi, che poco prima lo aveva visto furoreggiare per il suo spregiudicato agire di spregiudicato trader al servizio di un importante istituto di credito. Che si arricchiva come lui e tanti altri che a fine anno incassavano bonus milionari. Per avere fatto cosa? Quello che andava fatto con il beneplacito di tutti: mettere in atto manovre rischiose per garantire enormi guadagni in poco tempo. Ma una volta che da sani strumenti di arricchimento i future sono diventati la massima espressione di una finanza malata, tutti sono diventati nemici di tutti. E benché ricco, benestante e famoso, anche lui, Jérôme Kerviel è passato dalla parte dei deboli, dalla parte di quelli che il potere della finanza lo possono solo subire. Condannato, deve ora pagare cinque miliardi di euro a Société Gènerale che ovviamente nega candidamente ogni coinvolgimento nelle peripezie del giovanotto rampante. Oggi Jérôme ha in mente altri guadagni: sono i trenta chilometri al giorno che deve percorrere perché vuole tornare a casa. E quando pensa ai soldi pensa solo a risparmiarne il più possibile per potere riuscire a mantenersi con i pochi spiccioli che gli sono rimasti. Ma è sereno, non felice intendiamoci. Ha scoperto cose che per lui non avevano mai avuto valore: una borraccia da riempire lungo il cammino, lo zaino rosso che si porta sulle spalle, i vestiti asciutti dopo un giorno sotto la pioggia, le parole dal Papa che ha voluto parlargli e incoraggiarlo. Forse felice lo sarà dopo che arriverà a Parigi dopo millequattrocento chilometri di via Francigena perché avrà scoperto che si possono fare cose meravigliose anche con molto poco. Sarà felice perché avrà scoperto che è vero che una carriera che finisce non fa finire un uomo, ma è solo l'inizio di una nuova esperienza e che senza quella fine non ci sarebbe stato un nuovo inizio. Sarà felice perché, anche nella disperazione, ha pensato che è di conforto sapere che c'è una strada nuova da percorrere, anche a piedi. E nella sua felicità si chiederà anche perché il suo vecchio mondo, quello che lo ha usato come un zerbino, non finisca mai. Ma non saranno più problemi suoi.
mercoledì 12 marzo 2014
Budapest 2014
Il senso della storia può essere
compreso in vari modi. Uno è sicuramente quello di leggere un libro che
racconta fatti di ieri e alzare gli occhi per accorgersi che gli stessi fatti stanno accadendo nello stesso momento da un’altra parte. Leggere per puro caso un accuratissimo resoconto dei fatti di Budapest nell'autunno del 1956 mentre televisioni e giornali propongono in diretta le immagini in diretta delle recenti sommosse di Kiev è sicuramente una di quelle coincidenze che aiutano a capire molte cose. Una su tutte che la Storia bisogna studiarla e non farsela cadere addosso. Eppure sembra che a molti gli insegnamenti di quello che è successo nel passato prossimo non siano serviti a evitare epiloghi drammatici. L’Ungheria del 1956 è un Paese dove l’oppressione sovietica era particolarmente crudele e malvagia. In quanto alleata della Germania nazista aveva dichiarato guerra all'Unione Sovietica insieme alle altre forze dell’Asse, inclusa l’Italia. Ovviamente alla resa dei conti questo fatto avrebbe pesato in modo considerevole e le purghe di stampo staliniano non sarebbero mancate. Il gruppo dirigente del Paese, cresciuto e alimentato nel tetro Hotel Lux di Mosca, adottava in modo pedissequo gli strumenti di programmazione economica sovietici con risultati ancora peggiori della stessa nazione guida. In ultimo il saccheggio sistematico delle miniere di uranio ungheresi a condizioni capestro che non garantivano il minimo beneficio economico per le casse del Paese. Odio, inefficienza della classe politica, sistemi di giustizia sommari, povertà e mancanza di prospettive portarono la popolazione a ribellarsi, contribuendo, a prezzi altissimi, a scrivere le pagine di quella eroica sconfitta che pesò per molti anni sulle coscienze dei Paesi occidentali. L’Ucraina di oggi, è per molti versi simile: le nuove prospettive che un’apertura verso l’Europa avrebbe dato ai cittadini vengono tarpate da un’azione di repressione violenta, senza mediazioni e senza vie di scampo. La rivolta di Budapest costò la vita a quasi tremilacinquecento persone tra soldati sovietici male armati, affamati e demotivati, partigiani e membri dell’esercito regolare passati dalla parte dei rivoltosi e civili tra i quali tantissimi ragazzi in età giovanissima. Come in tutte le rivoluzioni anche Budapest ebbe i suoi eroi tra i quali la leggendaria figura di Imre Nagy capo del Governo di transizione che sconfessò il patto di Varsavia e Pal Maleter, il generale che per primo vide nei germogli della ribellione del suo popolo le speranze di un mondo nuovo. Entrambi pagarono con la vita la loro scelta di fondo: il primo impiccato un anno dopo a seguito di un processo farsa, il secondo attirato in una roccaforte sovietica e lì trattenuto e poi giustiziato. I giorni di Budapest pesarono come macigni nelle coscienze dell’occidente; in Europa la fede di comunisti intelligenti e sensibili cominciarono a disallinearsi con casi clamorosi di fuoriuscita di intellettuali famosi ed influenti. Sugli Stati Uniti pesò per lungo tempo l’imbarazzo di avere voluto mettere mano alle polveri – anche grazie ai focosi messaggi trasmessi da Radio Free Europe – ma di non avere altrettanto voluto mettere a disposizione il braccio nel momento in cui questo era l’ultimo appiglio prima del massacro. Oggi la storia si ripete. Anche se non ci saranno tante coscienze da scuotere e governanti con il senso di colpa.
Victor SEBESTYEN (2006), Budapest 1956 - La prima volta contro l'impero Sovietico, Rizzoli - ISBN 88-1704042-1
racconta fatti di ieri e alzare gli occhi per accorgersi che gli stessi fatti stanno accadendo nello stesso momento da un’altra parte. Leggere per puro caso un accuratissimo resoconto dei fatti di Budapest nell'autunno del 1956 mentre televisioni e giornali propongono in diretta le immagini in diretta delle recenti sommosse di Kiev è sicuramente una di quelle coincidenze che aiutano a capire molte cose. Una su tutte che la Storia bisogna studiarla e non farsela cadere addosso. Eppure sembra che a molti gli insegnamenti di quello che è successo nel passato prossimo non siano serviti a evitare epiloghi drammatici. L’Ungheria del 1956 è un Paese dove l’oppressione sovietica era particolarmente crudele e malvagia. In quanto alleata della Germania nazista aveva dichiarato guerra all'Unione Sovietica insieme alle altre forze dell’Asse, inclusa l’Italia. Ovviamente alla resa dei conti questo fatto avrebbe pesato in modo considerevole e le purghe di stampo staliniano non sarebbero mancate. Il gruppo dirigente del Paese, cresciuto e alimentato nel tetro Hotel Lux di Mosca, adottava in modo pedissequo gli strumenti di programmazione economica sovietici con risultati ancora peggiori della stessa nazione guida. In ultimo il saccheggio sistematico delle miniere di uranio ungheresi a condizioni capestro che non garantivano il minimo beneficio economico per le casse del Paese. Odio, inefficienza della classe politica, sistemi di giustizia sommari, povertà e mancanza di prospettive portarono la popolazione a ribellarsi, contribuendo, a prezzi altissimi, a scrivere le pagine di quella eroica sconfitta che pesò per molti anni sulle coscienze dei Paesi occidentali. L’Ucraina di oggi, è per molti versi simile: le nuove prospettive che un’apertura verso l’Europa avrebbe dato ai cittadini vengono tarpate da un’azione di repressione violenta, senza mediazioni e senza vie di scampo. La rivolta di Budapest costò la vita a quasi tremilacinquecento persone tra soldati sovietici male armati, affamati e demotivati, partigiani e membri dell’esercito regolare passati dalla parte dei rivoltosi e civili tra i quali tantissimi ragazzi in età giovanissima. Come in tutte le rivoluzioni anche Budapest ebbe i suoi eroi tra i quali la leggendaria figura di Imre Nagy capo del Governo di transizione che sconfessò il patto di Varsavia e Pal Maleter, il generale che per primo vide nei germogli della ribellione del suo popolo le speranze di un mondo nuovo. Entrambi pagarono con la vita la loro scelta di fondo: il primo impiccato un anno dopo a seguito di un processo farsa, il secondo attirato in una roccaforte sovietica e lì trattenuto e poi giustiziato. I giorni di Budapest pesarono come macigni nelle coscienze dell’occidente; in Europa la fede di comunisti intelligenti e sensibili cominciarono a disallinearsi con casi clamorosi di fuoriuscita di intellettuali famosi ed influenti. Sugli Stati Uniti pesò per lungo tempo l’imbarazzo di avere voluto mettere mano alle polveri – anche grazie ai focosi messaggi trasmessi da Radio Free Europe – ma di non avere altrettanto voluto mettere a disposizione il braccio nel momento in cui questo era l’ultimo appiglio prima del massacro. Oggi la storia si ripete. Anche se non ci saranno tante coscienze da scuotere e governanti con il senso di colpa.
Victor SEBESTYEN (2006), Budapest 1956 - La prima volta contro l'impero Sovietico, Rizzoli - ISBN 88-1704042-1
domenica 9 febbraio 2014
Foto, passato e futuro
E' sicuramente una bella iniziativa quella
della Stampa di Torino. Sul proprio sito ha reso visibili le foto scattate dai
suoi reporter ai tempi degli sbarchi delle ondate migratorie del sud, piene di
baffi, fazzoletti in testa, coppole e valigie di cartone. Oggi queste foto sono
la storia del nostro Paese come le saranno tra trent'anni quelle degli sbarchi in Sicilia. Ma sono soprattutto le biografie di quei
visi di ragazzi e bambini che di lì a poco sapranno dare un corso nuovo alla
propria vita e alla storia del Paese. L'iniziativa del giornale di Torino cercava una sponda che ha
trovato nelle decine persone che si sono riconosciute e hanno deciso di
raccontare il film della loro vita partendo da quel primo fotogramma. Sono
storie dal sapore deamiciano: la paura, la voglia di tornare, la fabbrica, lo
stipendio, la sicurezza che comincia a consolidarsi, i benefici della vita di
città, i ritorni al Sud per le vacanze. Le raccontano pensionati con la faccia rotonda,
i capelli bianchi e un sorriso tranquillo sulla faccia. Sono pochi,
certamente, rispetto alle centinaia di visi ritratti nelle foto, ma le loro
storie riscattano una città, un'industria, una classe dirigente che non ha mai goduto di molte simpatie in giro per il Paese. La Stampa ha voluto raccogliere questa
sfida e, tenuto conto degli anni che sono passati, sembrerebbe che la città, la
sua industria e la sua gente, ne venga fuori abbastanza bene. Una testimonianza
in particolare mi ha colpito: un “ragazzo” di allora ha ritenuto doveroso
tributare a uno dei suoi insegnanti il discreto livello di benessere raggiunto.
Il pungolo intelligente e appassionato di quella sconosciuta professoressa che ha
saputo convincerlo che lo studio sarebbe stata la leva del suo riscatto, la
capacità e la costanza che ha profuso disinteressatamente per distoglierlo da
ben altre strade non sono rimaste lettera morta. Questo riconoscimento è un
simbolo forte di un’Italia che non si è diradata nelle nebbie di quella Torino,
ma continua in tutte le scuole del nostro Paese dove maestre, maestri e insegnanti
volenterosi lavorano con forza e idee per aprire le porte a chi arriva oggi su
ben altri treni della speranza. E creare ancora una volta i presupposti di un nuovo volto del nostro Paese.
martedì 21 gennaio 2014
Boccaccio 2014
La vicenda della suora madre che
sta tenendo banco sulla stampa in questi giorni alimenta gli inevitabili
sprazzi di ilarità dall’antico sapore boccaccesco sia da parte dei più beceri
commentatori di fatti di vita quotidiana da parte di quotati comici
televisivi (vedi la Littizzetto durante la trasmissione di domenica scorsa). In
fondo nulla è successo se non quello che capita da secoli a questa parte: le
suore che figliano, i frati che copulano, i preti che si spretano e si sposano
o, peggio ancora che non si privano della tonaca e abusano del proprio
status e soddisfare illecite voglie. Quanta letteratura ad alto peso specifico ha ricamato sulle
tentazioni secolari di uomini e donne di fede. La forza comica della situazione
sta proprio nella banalità di un fatto che non dovrebbe succedere. Il tabù che si infrange ha sempre suscitato
le risa tanto più grasse e fragorose quanto più alta è la voglia di infrangere le regole e di deridere l’autorità costituita
che le impone.
Eppure oggi le cose sono diverse.
Sebbene si voglia continuare a dare al fatto la solita gravità morbosa, ci sono
molti aspetti che, al contrario, contornano la vicenda di un luce nuova ed
inedita, almeno mass-mediaticamente parlando. Innanzitutto la libera scelta
della madre che ha scelto di tenersi il figlio, di onorarlo con il nome del
Papa abbandonando la vita monastica per la più prosaica carriera di madre e
compagna. Tutto questo con il pieno appoggio delle istituzioni ecclesiastiche
che stanno proteggendo la ragazza difendendola dagli assalti della curiosità
becera di chi riduce tutto all’icona grossolana e volgare della suora incinta. Infine l'assenza di qualunque atto di accusa: nessuno, superiora, consorella, monsignore et similia,
ha giudicato la condotta della ragazza. Certamente ha infranto una regola che le
comporterà l’esclusione da una vita che sicuramente non le si addiceva, ma non c'è stato accanimento sulle sue doti morali. L'atteggiamento
della Chiesa è cambiato. E di molto: ha decisamente preso la strada difficile che porta a privilegiare la libera scelta piuttosto che alimentare lo scandalo, che ridimensiona la vergogna per fare prevalere la
bellezza di una vita da vivere, che toglie un'infelice da una vita disgraziata nel buio di una
sagrestia per restituirla alla luce e alla libertà e che, soprattutto, al silenzio renitente
preferisce la presa di coscienza della realtà. La Chiesa sta cambiamo. Molto velocemente. Più
in fretta di quanto si pensasse, ma soprattutto più in fretta di quanto siamo
disposti a credere.
E’ sorprendente scoprire che per
quanto invocato, reclamato, pubblicizzato in tutte le salse, il cambiamento
quando arriva veramente, ci metta a disagio. Non siamo pronti. Non siamo
attrezzati a misurarci con lui. Preferiamo, piuttosto che una riflessione
aperta e sincera le armi spuntate della derisione e del pettegolezzo.
giovedì 9 gennaio 2014
Le vite meravigliose che non vogliamo
Il nostro Paese deve ripartire da una rinnovata fede verso i valori della Costituzione. L’Italia ha bisogno di bruciare nuove energie per potere ripartire. La nostra pulsione verso i principi fondanti della Democrazia e delle sue istituzioni si stanno affievolendo a causa di un naturale processo di assuefazione e di un, meno naturale, senso di scoramento scaturito dalle penose condizioni della nostra politica. Ma la forza della Carta della nostra Repubblica è ancora in grado di trascinare chi la abita verso azioni di valore finalizzate al bene comune? La domanda non dobbiamo farla a noi stessi, ma a chi tra i precetti della nostra Costituzione riesce ancora a ravvisare la possibilità di una nuova vita e di una nuova speranza. Chi viene da zone di povertà, di guerra e di prevaricazione non può non trovare conforto nelle parole scritte dai costituenti che, allora, coltivavano la stessa utopia per se stessi e per le generazioni a venire. Quello slancio e quel fervore hanno prodotto, nel corso di molti decenni, grandi risultati a beneficio di tutti. Oggi la spinta si sta esaurendo. E' necessaria ricaricarla. Noi non possiamo farlo, ma chi arriva disperato si. E' necessario che l'Italia sappia gestire in modo più propizio a se stessa, l'accoglienza verso chi sbarca come profugo, rifugiato e reietto. Il nostro non è solo un Paese con tanta costa per permettere sbarchi clandestini, ma è soprattutto una Costituzione ad elevatissimo senso civico, calibrata sulle pari opportunità, livellata sull’uguaglianza, sull’equità e sulla visione sociale dell’azione collettiva; un insieme che se ben recepito può garantire ottime opportunità di giustizia, senso civico e uguaglianza. Basta solo saperlo. E crederci. Noi lo sappiamo, ma ormai, ci crediamo poco. Chi arriva disperato non lo sa, ma è pronto a scommetterci.
Frank Capra, nella sua autobiografia “Il
nome sopra il titolo” ha saputo raccontare bene il senso di forza e coraggio
generato dalla comprensione dei chiari, potenti e riconosciuti precetti
fondanti degli Stati Uniti. Lui, arrivato bambino dalla Sicilia, senza un
soldo, senza istruzione, senza nulla, figlio di braccianti agricoli sbarcati in
California per raccogliere le arance, diventerà il regista per eccellenza del
sogno americano. Nessuno più di lui, né prima né tanto meno dopo, è riuscito a
trasmettere i valori dell'America vera: libertà, solidarietà, forza della legge
e rispetto delle Istituzioni. Nei suoi innumerevoli film Capra ha rappresentato
i drammi personali di chi pensa di essere arrivato alla fine e decide di
buttarsi nel fiume proprio la notte di Natale; ha celebrato il senso dell’onestà
dell’uomo che crede nelle parole di uno dei Padri della Patria scritte nel
marmo e a queste darà seguito per fare trionfare verità e giustizia. Lui, con
quella faccia da uomo del Sud ha fatto tornare a credere nei valori
fondamentali gli americani con gli occhi azzurri e le bocche sottili, riuscendo
anche a diventare il più fidato cineasta di guerra durante il conflitto per
convincere, con i cortometraggi commissionati
dal Governo, il suo popolo che stavano preparandosi per una guerra giusta. Frank Capra ricorda spesso nel
suo libro che è stato grazie al fatto che ha potuto studiare, frequentare persone
al di fuori dalla cerchia della dannata povertà dentro la quale la sua
estrazione lo avrebbe costretto, che ha potuto prendere coscienza delle opportunità
che gli avrebbe potuto offrire il grande Paese dove era venuto a vivere. E il commosso
ringraziamento che traspira da ogni pagina del racconto della sua vita è quello
di gratitudine nei confronti di un Paese che lo ha accolto senza emarginarlo perché
la sua legge avrebbe punito la discriminazione, la disonestà e le
diseguaglianze.
Nel nostro Paese i governi che si sono
succeduti negli ultimi due decenni non hanno saputo cogliere, al pari di
persone come Frank Capra, questa grande opportunità di cambiamento. Un vero
cambiamento che avrebbe portato dei risvolti epocali di cui però continuiamo ad
avere paura. Non ci fidiamo di chi viene da fuori per un atavico senso di
possesso e di difesa, scordandoci che i capitoli della nostra costituzione sono
stati concepiti per permettere l’esercizio delle nostre libertà anche in
presenza di elementi esterni, estranei e differenti. Eppure nessun Governo,
nessuna legge ha affrontato il problema dell’immigrazione con la mente aperta
di chi vede solo il bene, con la sicurezza e la serenità di potere contare su
un ordinamento che tutela e che protegge, ma allo stesso tempo incoraggia e
rincuora chi di diritti ne ha sempre avuti pochi. Questo slancio vitale, questa
sete di rivalsa, questa energia nuova per il nostro Paese spesso si spegne sui
fondali del Canale di Sicilia, si smorza dentro i centri di accoglienza e lo si
umilia per le strade delle nostre città. Eppure la speranza e la volontà di
emergere dalla dramma può portare tutti a immaginare una vita meravigliosa.
Un invito e un augurio per il nuovo anno a
politici impauriti, cittadini disillusi, studenti demotivati, imprenditori
rassegnati: apriamo le porte ai nuovi italiani. La loro felicità di oggi sarà
la nostra serenità domani.Frank Capra (1989) - Il nome sopra il titolo. Autobiografia - Ed. Lucarini - 88-7033-368-X
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