giovedì 24 giugno 2010

I 42,195 chilometri che valgono di più a New York.

"Voglio fare la maratona, la maratona di New York!" Nobile e salutare proposito iniziare ad allenarsi per un impegno così ponderoso come la maratona, ma perché proprio quella di New York? Chiunque si accinga per la prima volta alla corsa, in modo più o meno serio e coscienzioso, mira alla mitica maratona e non perde occasione per annunciare alla cerchia degli amici le ambizioni competitive.
Ma perché, ripeto, proprio quella di New York?
Ci sono maratone in ogni luogo e poi non è mica necessario andare per forza da qualche parte per correre la maratona; 42,195 chilometri sono 42,195 chilometri in
ogni luogo. E' un po' come la domandina tranello che ci ponevano da piccoli e che ci ingannava regolarmente sul fatto che un chilo di piume pesasse di meno di un chilo di ferro.
Potenza del marketing: è riuscito ad apporre il suo sigillo anche sulle nostre aspirazioni sportive. Con tutto quello che ne consegue in termini di annessi e connessi, ovviamente: il viaggio, l'albergo, la logistica, tutte quelle spese che s'impongono per sostenere l'onere. Per correre in una delle città più inquinate del mondo! Meglio iniziare a correre nel campetto dietro casa, anzi meglio correre per quei fatidici 42 (e passa) chilometri e poi vedere come ci si sente e valutare se conviene ridimensionare le aspettative. O forse aspettare qualche ferale notizia da annunciare agli ateniesi. In questo caso la trasferta sarebbe comunque più breve.

domenica 20 giugno 2010

Casa è per sempre. Costruire con il legno e con le buone idee.




Una casa che ci protegge veramente, calda, confortevole e accogliente. Che ci circonda di un'essenza semplice e naturale come il legno lavorato e assemblato da mani che lo rispettano e lo apprezzano da sempre. Una casa che cresce con noi, con i nostri figli, con figli dei figli e con i nipoti dei nipoti.
Quella casa che Max Mauro durante il suo pellegrinaggio ciclistico in Patagonia pensava dovesse avere solo una porta per chiudere il mondo fuori, una finestra per guardarlo da dentro, uno scaffale per i libri che ci raccontano come renderlo migliore e un letto per dimenticarlo.
"Pensiamo di essere protetti solo se ci circondiamo di cemento e ferro" mi dice Emilio Malugani, che insieme al fratello e altri compagni di vita e lavoro ha riscoperto un’antica tecnica di costruzione originaria del nord Europa e che oggi, uniti dalla passione e con la forza propulsiva di capaci imprenditori valtellinesi del settore del legno, stanno riportando a nuova vita. La tecnica di costruzione è apparentemente semplice e veloce, ma solo una profonda competenza rende possibile la perfezione dell’incastro, la chiave magica che sfruttando il naturale processo di adattamento del legno assicura la perfetta tenuta delle pareti e il loro progressivo consolidamento.
Il legno proviene dai boschi della Svizzera, ambienti naturali sottoposti a stretta sorveglianza da parte delle autorità forestali le quali, nella loro assoluta coerenza, impediscono anche ai mezzi meccanici (troppo invasivi) il lavoro di rimozione dei tronchi caduti, preferendo affidare l’incombenza al diligente e attento lavoro di un cavallo da tiro.
Le piante, attraversato il confine, subiscono il normale trattamento riservato al legno per costruzione: pulizia della corteccia con potenti getti d’acqua, rimozione dei nodi e altre imperfezioni che rendono il tronco non perfettamente liscio e, in ultimo, il periodo di stagionatura.
Quando la materia prima è pronta, s’accende il rombo delle motoseghe che iniziano a modellare gli incastri attenendosi a millimetrici tracciati disegnati sul tronco perché, si sa, in natura non c’è un tronco uguale all’altro, ma non c’è neppure un incastro uguale all’altro. Uno strato di lana grezza di pecora, opportunamente trattata per evitare il proliferare di muffe e batteri, frapposto tra un tronco e l’altro rappresenta l’unica materia aliena al legno, ma se vogliamo pur sempre naturale.
Non un chiodo o una vite va a conficcarsi dentro al legno usato per la costruzione.
“Il legno è una risorsa veramente sostenibile, perché la quantità che usiamo per i nostri bisogni è sempre inferiore agli alberi che ricrescono” racconta Milena De Rossi, una delle titolari dell’omonima segheria che ha intravisto l’originalità della tecnica costruttiva e che insieme ai fratelli Malugani e altri ragazzi sta promuovendo in manifestazioni e fiere sparpagliate lungo tutto l’arco alpino. Forse perché l’uomo usa il legno da sempre e ha imparato a riconoscere il momento in cui è necessario dare alla natura il tempo per rigenerarsi. “Il legno”, continua la De Rossi in uno dei rari filmati promozionali fatti veramente per promuovere un' idea e non per venderla “è un materiale che offre una difesa incomparabile dal freddo e dal caldo, e, strano a sentirsi per orecchie profane, anche dal fuoco. E poi una casa in legno è una casa pronta. Una parete di legno è già arredata. Non richiede altro"
Dicono che essere troppo alti non sia un indice di scaltrezza, ma nel caso di Malugani la statura ha permesso ad un’intelligenza sveglia, intrepida e creativa di osservare il mondo da un punto privilegiato e vedere lontano. “La tecnologia BlockBau è in verità un sistema vecchio di secoli, che si basa sulla naturale capacità del legno di fondersi nell'incastro che è stato congegnato, consolidando con il tempo la struttura destinata a proteggerci e proteggere chi verrà dopo di noi per almeno 200 anni. Il sistema è semplice, ma occorre molta precisione e molta attenzione perché usiamo quasi esclusivamente seghe a motore. Lo seguo nel piazzale antistante la bella struttura di legno che ospita la manifestazione di Livigno dedicata all’ospitalità sostenibile. Mi assicura che assistere alle fase della lavorazione è molto interessante. Nei pochi metri quadrati allestiti ad area dimostrativa inizia a incasellarsi la piccola struttura che, molto probabilmente resterà qui per offrire riparo agli escursionisti estivi. Prima di salutarmi mi rinnova l’invito ad andarlo a trovare ad Andalo, dove stanno ultimando la casa esposizione, una vera abitazione completa di tutto.
Inizia a piovere, rientro nel padiglione. Fuori i ragazzi continuano a fare suonare le motoseghe, sotto una pioggerella insistente. Poche gocce in confronto a tutta l’acqua e la neve che vedrà quella casa nei prossimi duecento anni.
www.malugani.com

Vedi anche (da questo blog): Una coerenza ferrea, anzi lignea

sabato 19 giugno 2010

La Bicicletta. Quanta vergogna su quelle due ruote!

"Vietato introdurre biciclette nel cortile interno". Avvisi come questi sono, purtroppo, ancora frequenti in molti palazzi di "città", dove un'emergente borghesia reclamava il diritto ad una discriminazione positiva tra chi poteva affermare il proprio benessere e chi ancora si arrabattava tra le rovine del dopoguerra e le costrizioni di una grama esistenza rurale.
Da un certo punto di vista l'arretratezza strutturale accumulata dall'Italia nei riguardi di un sistema di mobilità collettiva realmente efficiente deriva anche dall'incapacità a guardare ai mezzi di trasporto collettivi ed individuali e a basso costo, senza percepire le ferite e le umiliazioni di una non remota esistenza di stenti, fatiche e privazioni alla quale si è tentato di apportare una mano di vernice attraverso il ricorso sfrenato all'utilizzo del mezzo privato a motore, per anni l'unico intoccabile feticcio di un supposto sviluppo di benessere.
Per sistema di trasporto efficace e a basso costo intendo una rete intermodale che unisca la mobilità personale (piedi, bicicletta) a mezzi collettivi (treni, tram e metropolitane) in grado di rivaleggiare per aspetti di praticità, tempi di percorrenza e convenienza economica con lo strapotere dell'automobile.
A partire dalla metà degli anni '50 ai primi anni '70, in nome dell'efficienza e della razionalizzazione sono state soppresse decine di linee ferroviarie locali, sostituite da autolinee a motore che hanno aggiunto traffico all'inadeguata rete stradale dell'epoca. E' curioso che la vicina Svizzera abbia sempre tenuto in piena efficienza la rete ferroviaria locale nella sua interezza, valorizzando il patrimonio di linee e rotabili anche per fini turistici e storico-culturali e, soprattutto, rendendo obbligata la scelta del treno per raggiungere molte località turistiche. Sconcerta che la Svizzera abbia tenuto in funzione non solo la rete, ma anche tutte le strutture collegabili al trasporto ferroviario; per esempio anche la più piccola stazione ha il suo scalo merci funzionante al servizio di una rete di trasporto dedicato alle merci che fornisce un notevole sollievo al traffico di mezzi commerciali sulle strade. In Italia gli scali merci sono ruderi pericolanti invasi da erbacce e lo stato delle nostre strade è sotto gli occhi di tutti.
E' risaputo che le autorità governative ed amministrative che per decenni hanno regolato lo sviluppo del Paese abbiano avuto un atteggiamento gianobifrontista nel determinare scelte che favorissero veramente la mobilità a basso costo e la piaggeria al cospetto della voracità dei potentati dell'industria automobilistica. E' tuttavia assai incomprensibile come questo atteggiamento permanga ancora oggi quando l'industria automobilistica nazionale non sia più così pervasiva e abbia rivolto gli sguardi verso altri ambiti di potere ed influenza.
Non dovrebbe stupire che nel Paese che ha sconsideratamente concesso auto blu a migliaia di "nullapotenti" (indissolubile è il binomio tra l’essere arrivati e spostarsi su 4 ruote) e che immancabilmente si titubi nel sottrargliele a pieno titolo, si continuino a costruire strade ed autostrade che puntualmente verranno saturate di automobili, che gli unici investimenti in infrastrutture ferroviarie riguardino solo linee ad alta velocità e ad alto costo che sottraggono investimenti e risorse alla mobilità dei fatidici "40 km" che è il raggio di spostamento che coinvolge la maggioranza dei cittadini italiani che si muovono per motivi di studio e lavoro con regolare frequenza e su tratte definite. Colpisce l'attenzione il fatto che nelle grandi e medie città si prolunghino discussioni che perennemente portano ad un nulla di fatto sulle piste ciclabili, l'investimento più contenuto per migliorare la vita ai cittadini e evitare gli oneri milionari di nuove strade e di nuovi parcheggi.
La diffidenza nella bicicletta ha radici antiche e non ci si è messi d'impegno per eliminarla come hanno fatto invece molti altri Paesi in Europa. A maggiore ragione oggi che la povertà di un tempo si sta riaffacciando, la bicicletta con la sua immagine austera, nera di fuliggine in qualche periferia industriale, delle tute blu e delle strade di campagna costellate di pozzanghere, torna a fare paura e evocare fantasmi. Forse è il caso di guarire.
Per concludere: Mauro Corona racconta, in uno dei suoi libri, gli epici spostamenti del nonno che dopo il forzato inverno dedicato alla creazione di manufatti in legno, partiva in bicicletta dalla valle del Vajont alla volta delle città dell’ovest industriale per vendere i suoi mestoli e i suoi cucchiai. Un lungo spostamento fatto di libertà, osterie, fame e sete, pioggia e sole, notti all’addiaccio e accessi negati ai cortili dei palazzi delle città. Un ricordo antico di un bambino che ha vissuto per molti anni nella paura e nell’incertezza. Un ricordo, non una paura.

giovedì 17 giugno 2010

La Mesciua come metafora. Cucinate senza vergogna!

Perchè ho ritenuto pertinente la Mesciua con il tema a cui ho dedicato questo spazio nella Rete? Innanzitutto la Mesciua è un ottimo e gustoso piatto. Non è molto conosciuto a differenza di altre specialità della cucina ligure, ma nella zona della Spezia e Portovenere si trovano ancora dei locali che la preparano rispettando, nei limiti, la vecchia tradizione. Ma è soprattutto la validità di questo piatto sia come metafora di come si possa vivere riducendo il tenore dei nostri consumi, sia come monito al contenimento degli sprechi, quegli eccessi del nostro benessere che tendiamo sempre più a trattare come scorie da smaltire, quando in verità potrebbero offrire beneficio e sostentamento a noi e agli altri.
Le comari del Golfo della Spezia andavano a raccogliere granaglie e legumi sulle banchine del porto e con quello che portavano a casa riuscivano a sfamare la famiglia. Si desume pertanto che ci fosse materia prima in abbondanza: gli scarti del commercio di granaglie poteva tollerare la perdita di quello che cadeva per terra. Oggi la Grande Distribuzione può economicamente tollerare le tonnellate di cibo "non commercialmente proponibile" che quotidianamente vengono avviate allo smaltimento.
Le comari della Spezia non si timoravano nell'andare al porto e raccogliere gli ingredienti necessari all'alimentazione della famiglia. Oggi siamo talmente soggiogati dal timore di ricevere l'altrui disapprovazione per comportamenti "consumisticamente reprobi" che anche raccogliere un po' d'acqua da una fontanella usando una bottiglietta usata può gettarci nel discredito.
Fateci caso: i nostri comportamenti di consumo sono spesse volte la scelta meno impegnativa per evitare lo stato di reietti della società civile. Il collega che si porta il pranzo da casa è un asociale un po' fissato con la qualità del cibo; il compagno di scuola che usa le scarpe dei fratelli più grandi ha problemi ecomomici; usare la bicicletta ci equipara agli immigrati, andare in treno a lavorare sottolinea la pochezza del nostro incarico. Io penso che la cosa che più di ogni altra implichi sconcerto all'altrui vista sia vedere una persona "normale" che va a piedi lungo la strada. Fateci caso: se è un immigrato è un poveraccio. Se è una persona che non connotiamo come diverso, ma come nostro assimilato, è matto. Forse sta solo facendo due passi. O forse ne ha abbastanza di farsi prendere in giro.

martedì 15 giugno 2010

Premium. Di più per cosa?

Vi siete mai chiesti che cosa significhi la dicitura "Premium" che compare sull'etichetta o sulla confezione di alcuni prodotti quali bevande alcoliche, cibi, articoli di lusso?
Premium o "primium" come direbbe chi opera nel marketing e nella pubblicità (ma chi non opera oggi nel marketing o nella pubblicità?) contraddistingue un prodotto destinato ad un target disposto a spendere di più per avere di più.
Di più?
Che cosa c'è di aggiuntivo tale da giustificare un costo marginale notevolmente più elevato? Niente. Assolutamente niente nella sostanza; solo il piacere di sapere che il nostro acquisto o la nosta scelta "premium" ci posiziona come target di maggior pregio nelle scelte di posizionamento strategico delle aziende produttrici. Un aggravio sul costo totalmente inutile, ma molto, molto gratificante.
Oggi il termine Premium è un po' desueto e tende ad essere trasferito dal prodotto al servizio, per esempio l'abbonamento o l'offerta "premium". Premiun è stato oggi soppiantato dal termine "lusso". Il settore del "lusso" (o "laxari" come direbbero sempre quelli della comunicazione)è la nuova terra promessa dei consumi; basato su un diabolico meccanismo promozionale imperniato sulla convinzione che i vertici di un'azienda importante siano desiderosi di darci il massimo e di trattarci come vecchi amici strizzandoci l'occhio per dire "meno male che c'è gente come te che sa spendere per le cose giuste, mica come quella massa di poveracci che sta attenta all'euro". L'offerta è individualizzata al massimo. Il catalogo di un marchio del settore del lusso parla a me, facendomi capire che sono io l'eletto che percepisce il valore della sua offerta. Mi fa capire che solo io sono in grado di apprezzare la loro prestigiosa collezione di generi di lusso. Gli altri farebbero meglio ad andare al mercato rionale del mercoledì. Un messaggio sublimato ad altre decine di migliaia di me stesso in giro per il mondo che contribuiscono ai fatturati milionari di queste aziende.

Arrivano le vacanze. Se non spendiamo non siamo felici

Le vacanze alle porte saranno la consueta vetrina di una nuova esplosione di modelli frustri e abusati di oneri del tutto infruttiferi finalizzati solo alla partecipazione della grande esibizione del nulla e dell'inutile: smisurato ricorso all'automobile per trasportare materiali e attrezzature totalmente inutili, ore sprecate sotto il sole in coda in autostrada, decine di euro spesi in aree di sosta per azzannare panini omologati dai nomi ridicoli, uno stillicidio continuo di euro per assaporare le inutili comodità di ombrelloni, sdraio, pattini, bibite, panini, riviste.
Perchè siamo portati a ritenere che la vita non si possa godere appieno se non si spende?
Forse perchè nascondiamo timori atavici di subire lo sprezzo di chi apparentemente conduce modelli di vità gaudenti e dispendiosi?
Perchè tendiamo ad associare maggiore valore a beni e servizi che sono più facilmente apprezzabili per quello che costano piuttosto che per quello che valgono?
Le grandi multinazionali hanno capito da molto tempo che quello per cui siamo disposti a pagare non è quello che ci piace, ma quello che sappiamo che piace: ai figli, al partner, al nostro entourage sociale di amici, colleghi, conoscenti. I modelli che ci vengono proposti sono simili per molti settori: il divertimento, il tempo libero, le scelte culturali, i modelli di vita, i viaggi, le scelte per i figli. Un sistema calibrato e implacabile che rapporta la nostra felicità a quanto abbiamo speso, a quanto vorremmo spendere e a quanto non siamo in grado di spendere. Nessuno ci dice, invece quello che potremmo non spendere.

lunedì 14 giugno 2010

E' possibile vivere senza spendere?

Mi sto sempre più rendendo conto che i pedaggi che la società dei consumi impone stanno diventanto sempre più pervasivi, subdoli, ammiccanti. Nonostante i tempi di crisi i riti del consumo collettivo stanno mangiando margini sempre più consistenti del nostro reddito, delle nostre risorse, del nostro futuro.

Penso che sia molto difficile potere condividere quelli che si chiamano rit
i della vita conviviale senza disperdere quantità di danaro impressionanti e del tutto ingiustificate. Riti come la colazione al bar, caffè con i colleghi, pranzi di lavoro, aperitivi, pizze, ristoranti, palestre, week-end, vacanze e viaggi sono oggi imposti per convenzione piuttosto che per effettiva necessità.

Io non penso che sia possibile vivere senza spendere, ma spendere molto meno certamante.

Mi rendo conto che esulare da questi oneri sociali imposti possa implicare una ghettizzazione a livello personale, famigliare e professionale, ma sinceramente sono convinto che una graduale consapevolezza di quante energie e risorse vengano disperse senza un effettivo ritorno possa convincere dell'inutilità delle nostre consuetudini, abitudini, manie, vizi e incapacità di attuare delle rinunce.

Mesciua?

Le massaie di La Spezia, tradizionalmente legate alla vita di mare solevano andare, con i figli al seguito, sui moli del porto a raccogliere le granaglie cadute durante le operazioni di carico e scarico delle navi.

Il "raccolto" che consisteva in grano, orzo, legumi di varie specie veniva poi cotto in modo molto semplice, insaporito con quello che si aveva in casa per diventare la Mesciua, anzi la Mesc-ciùa, un piatto molto appetitoso che, con le dovute cautele igieniche, è arrivato intatto fino ai giorni nostri.

Come tutti i piatti della tradizione culinaria ligure, è un prodotto povero, semplice, sostazioso e gustoso. E soprattutto molto economico!