martedì 6 marzo 2012

Quei due ragazzi più uniti che divisi

Chissà se Marco Bruno ha origini meridionali come il carabiniere che ha sbeffeggiato sotto gli occhi delle telecamera. Sarebbe uno sberleffo della sorte che a dividere due ragazzi sia lo stesso treno che molto tempo prima aveva accompagnato le rispettive famiglie dal Sud verso il miracolo del Nord industriale.
Oggi è lo Stato che anela ad un passaggio a nord . E’ disposto a tutto per mantenere un cordone ombelicale con i corridoi di passaggio europeo, talmente disposto che sta sostenendo la ferrovia, un mezzo di trasporto sul quale, in passato, non ha mai creduto.
Attribuire la violenza ad una parte o all’altra non cambia l’interpretazione delle ragioni e delle accuse. Lo Stato ha buon gioco a mantenere un clima di tensione e l’ostinazione a non cedere alle ragioni dei manifestanti è sicuramente colpevole in considerazione che le proteste non sono fuoco di paglia, ma movimenti di resistenza spontanea ormai consolidati e con vaste frange di adesione trasversale.
I due ragazzi che si sono fronteggiati sull’autostrada, il manifestante ei il carabiniere, hanno più cose che li uniscono rispetto a quelle che li dividono: il futuro davanti, una famiglia da formare, gli amici d’oltralpe, l’università in Francia, un lavoro all’estero o i parenti emigrati da andare a trovare. Per fare questo un treno comodo, pulito e in orario è più che sufficiente. L’alta velocità non è necessaria. A loro come a noi.
Lo Stato deve prendere atto che sta portando avanti con irrazionalità le ragioni di un’opera inutile, costosa e destabilizzante. Per l’ambiente e il contesto sociale.
Trovo difficile comprendere le ragioni di tanto e diffuso sostegno bipartisan all’opera, quando nessuno è in grado di spiegare le oggettive necessità. Trovo ancora più difficile comprenderle quanto l’arretrato nel riammodernamento dei treni, quelli che viaggiano a velocità più basse, ma che rispondono ad una necessità fondamentale di trasportare persone e merci per tutto il Paese, è spaventoso.
Le pecorelle, quelle vere, sono i politici, ministri compresi, che recitano la parte di chi si indigna per le violenze e la forsennata resistenza all’avanzamento dell’opera. Non vogliono fare il più piccolo passo indietro e prendere atto dell’inutilità dell’opera.
Marco e il carabiniere sono solo due agnelli da sacrificare. Non pecorelle.

venerdì 24 febbraio 2012

Olimpiadi di Roma 2020. Le polemiche troppo presto sopite.

La rinuncia all’organizzazione delle Olimpiadi del 2020 a Roma non ha lasciato, a differenza di quanto sembrava preannunciarsi, un particolare strascico di polemiche. Dopo qualche moto di orgoglio che non superava il tenore del campanilismo, tutto sembra essersi sopito. Meglio così, d’altra parte. Tutti sapevano come sarebbe andata a finire e ci si è messi l’animo in pace. Tanto un’altra occasione per abbuffarsi prima o poi arriva.
Eppure è stata una decisione del tutto nuova per il nostro Paese, ma anche per l’Europa. Con una portata di aspetti positivi che sarebbe valsa la pena di approfondire, anche per scomodare qualche coscienza. Come quella degli ambientalisti, per esempio, che non hanno adeguatamente “elogiato” questa saggia decisione che presa da sola, vale almeno tre anni di politiche di difesa del territorio. Se qualcuno tanto attento a soppesare il danno ambientale di opere infrastrutturali, magari anche utili alla collettività (non mi riferisco certo alla TAV), si fosse anche preso la briga di valutare il mancato impatto devastante delle opere necessarie ad un evento come le Olimpiadi in termini di consumo di territorio, impiego di risorse naturali, brutture varie, opere incompiute e congestione, avrebbe fatto un favore a questo Governo, ma al tempo stesso avrebbe messo in luce i limiti di queste imprese anacronistiche.
E non solo in conseguenza dei tempi di crisi che attraversiamo, ma per mere ragioni di opportunismo politico economico. In passato, quando le variabili macroeconomiche di stampo keynesiano dettavano legge,  le grandi economie occidentali di concerto con le nazioni che fuoriuscivano dalle distruzioni belliche e i cosiddetti “Paesi in via di Sviluppo” si erano posti ambizioni obiettivi di crescita e eventi come un’Olimpiade avevano il duplice motivo di costruire efficaci leve alla sviluppo grazie alle grandi opere e di ostentare al mondo le proprie capacità finanziarie ed organizzative. Così è stato per le Olimpiadi di Roma del 1960, ma anche per altri eventi minori come le celebrazioni di Italia ’61 di Torino. Poi il sistema si è disgregato sotto il peso delle corruttele e delle speculazioni  che ha raggiunto l’apice con i Mondiali del ’90 che hanno lasciato un'eredità non gradita che pesa ancora oggi.
Il nuovo scenario di cambiamento dell’economie evolute obbliga oggi i Governi a volgere gli occhi verso diversi obiettivi primari, molto meno tangibili di un mega stadio o un villaggio olimpico, ma assai più utili e graditi alla collettività: la creazione di posti di lavoro, il mantenimento del potere d’acquisto delle famiglie, la crescita e evitare il rischio di fenomeni di recessione.Alcuni Paesi li stanno raggiungendo con politiche concrete di aiuti e efficaci armi per il sostegno alla crescita come Germania, Francia e Stati Uniti.
Con la decisione del Governo Monti di rinunciare ad organizzare le olimpiadi non si è voluto oltraggiare, come ha scritto qualcuno, le nostre capacità di impegnarci in opere grandiose. Semplicemente si è voluto sottolineare che il nostro impegno può essere indirizzato in altre opere. Più urgenti e utili. E il fatto che l’eco delle polemiche si stia assopendo da tutti i fronti in lizza, parrebbe sembrare che questa volta, lo si sia capito.

martedì 14 febbraio 2012

Evasore parassita? Solo se mi conviene

Chi è l’evasore?
Un parassita? Come vorrebbe farci passare un certo di tipo di pubblicità progresso?
Un essere infame che si beffa dei destini del Paese e pensa solo ai suoi turpi affari per ingrassare le sue sudice finanze?
Sia ben lungi da me ogni intenzione di giustificare i ripetuti crimini commessi da chi ha costruito le proprie fortune sull’occultamento sistematico dei propri redditi allo Stato, ma il nostro sentimento nei confronti di questi “parassiti della società” non è poi cosi malevolo. Non per malcelata invidia, ma per un mero calcolo di opportunismo. L’evasore mi fa risparmiare, mi fa spendere meno. Insomma mi aiuta a mantenere un tenore di vita accettabile. e in tempi di crisi non è poi così male.
Suvvia, ma che pensavate: che la guerra all’evasore fomentasse gli animi sdegnati degli italiani impegnati in una guerra all’ultimo sangue senza compromessi?
La delazione fiscale non avrà colpito che qualche barista particolarmente antipatico o sgarbato che ha avuto la sfortuna di incappare nel zelante cittadino che ha denunciato (anonimamente) il mancato rilascio delle scontrino al centralino della guardia di finanza. O la comitiva di studenti universitari impregnati di civismo e animo non ancora corrotto dalle brutture della vita che mette nei guai l’oste incauto che non ha rilasciato la ricevuta ammiccando al solito sconticino. Tutto si ferma qui. Si perché alla riprova degli oneri che non sono voluttuari, ma spese che ci servono veramente per stare bene, per vivere meglio e per dare benessere a chi ci è caro, la delazione cala sottozero.
Pensiamoci: il dentista che non mi fa pagare l’iva, il medico che non mi rilascia la ricevuta se pago in contanti, il tappezziere che mi fa il lavoro in nero. Difficilmente incappano nelle reazioni sdegnate del buon cittadino che sa fare bene i conti nelle proprie tasche. E che di risorse ne ha sempre di meno.
Ebbene, allora se evadere le tasse crea un reciproco beneficio personale, poco propizio però alla ricchezza dello Stato, come si può immaginare di estirparla senza interventi strutturali, contando solo sul senso civico della cittadinanza e sui rarefatti interventi da palcoscenico della guardia di finanza?
Semplice. Non si può. O peggio, non si vuole.
Se si volesse veramente creare una mentalità che ripudia l’evasione non la si combatterebbe con spot che fomentano rancore e biasimo verso una figura che di fatto non esiste e che stentiamo a riconoscere nel nostro barbiere, nel pizzaiolo sotto casa, nel dentista amico, bensì con un sistema di benefici vicendevoli che implichino un apprezzabile vantaggio per entrambe le controparti della transazione. Se questo sistema venisse applicato per il maggior numero possibile di transazioni la tentazione di evadere svanirebbe come neve al sole, perché si creerebbe una rete di vantaggi che andrebbe a beneficiare tutte le categorie di percettori di reddito: autonomi, statali, dipendenti, precari, flessibili e meno flessibili.
Si tratta della tanto invocata proposta di rendere detraibile ai fini fiscali tutte le transazioni economiche che una persona fa nella vita quotidiana. Non solo il medico o il dentista, ma anche la pizza o la cena la domenica con la famiglia, il viaggio di piacere, l’ingresso al museo, al cinema, l’acquisto di capi di vestiario, di apparecchiature elettroniche, le spese di manutenzione della casa e dell’auto.
Ovviamente dovranno ricorrere determinati pre-requisiti di reddito, carichi familiari, plafond mensili, ma l’idea è quella di rendere detraibile tutto, ma proprio tutto.
In molti Paesi è già così benché non si arrivi alla quasi totalità delle spese. In Italia un’applicazione estensiva di questo regime sarebbe giustificato dalle condizioni di partenza, e cioè un tasso di economia sommersa che non ha eguali nell’Europa dell’Euro.
Il sistema può funzionare per  un duplice semplice motivo dato dalla constatazione che se posso portare tutte le mie spese in detrazione ho sicuramente interesse a chiedere l’opportuna documentazione che attesta le mie spese e che, d’altro canto, anche “l’evasore” ha una vita come tutti noi:  mangia la pizza, va in vacanza, rompe la macchina e cambia i mobili ottenendo in contropartita gli stessi vantaggi dei suoi clienti ai quali chiede di farsi pagare in “nero”
I vantaggi per lo Stato sarebbero immediati: ripresa dei consumi e conseguente maggiore gettito di imposizione diretta, emersione del sommerso e incremento dei cespiti tassabili. Il vantaggio acquisito a seguito delle maggiori entrate dovrà andare, ovviamente, a finanziare il sistema a fronte dell’entità degli sgravi di cui beneficeranno i contribuenti che porteranno le spese in detrazione e, non da meno, sostenere il poderoso apparato di controlli che dovrà verificare l’effettiva sussistenza dei requisiti per potere accedere ai benefici. Ma sono sacrifici che un governo serio sarebbe ben lieto di affrontare sapendo di riportare il Paese nel binario di una convivenza impositiva degna di un Paese moderno.
Questo sistema, semplice e immediato per la sua efficacia, è spesso tacciato di non essere compatibile con il nostro regime fiscale. Non ne vedo le ragioni, ma ammettendo che sia così, perché non dovrebbe essere possibile modificarlo? Guarda caso tra coloro che si oppongono all’instaurazione di un sistema di tale fatta è spesso facile annoverare convinti sostenitori della riforma del mercato del lavoro che molto spesso a difesa delle proprie argomentazioni si peritano di attaccare i capisaldi della dottrina gius-lavoristica asserendo che nulla è immutabile.
Un gioco basato sull'accumulo di piccoli grandi vantaggi a favore di tutti i giocatori, piuttosto che un grande vantaggio a favore di uno solo, l'evasore. In questo caso quadagnerebbero tutti, compreso lo Stato che sino ad oggi ha sempre e solo perso.

venerdì 27 gennaio 2012

Simbologia del naufragio

L’immagine della nave da crociera semiaffondata a pochi metri dalla costa ha suscitato non poca morbosa attenzione da parte dei media di tutto il mondo.
Si avverte, infatti, una beffarda e irriverente presenza dell’elemento liquido che sovrasta ormai arredi, suppellettili, tappeti che mai e poi mai si sarebbero immaginati ghermiti dall’acqua marina, di quell’elemento che la moderna epopea dei viaggi per mare, dal Titanic in avanti, ha cercato di dimenticare e di oscurare con cortine di lusso e sfarzo. O di miseria e puzza di sudore (come direbbe De Gregori) se parliamo della terza classe.
Una forte connotazione simbolica della nave ha sempre trovato nella ricerca del lusso e delle comodità, una risposta all’atavico terrore dell’uomo a navigare sulla superficie dell’abisso marino, colmo di misteri e creature mostruose. I crescenti agi che le imbarcazioni hanno riservato nel corso dei secoli ai primi argonauti sino ai facoltosi passeggeri dell’epoca d’oro dei transatlantici, sono state un illusorio paravento al baratro che separa il fasciame del vascello all’oscuro abisso marino. Con l’avvento della navigazione di massa, che ha coinciso con le punte dei flussi migratori oltreoceano di eserciti di persone del tutto ineducate al mare e alla navigazione, le navi si sono gradatamente adeguate alla necessità di nascondere o limitare il più possibile la vista dell’elemento che di per se giustifica il mezzo, e cioè il mare.
L’esplosione, poi, del business delle crociere d’evasione, dove la nave non è più un mezzo di trasporto per raggiungere una meta prefissa, bensì una scusa per potere esercitare stili di vita altrove non possibili, il mare viene addirittura eliminato, oscurato alla vista, dimenticato. E’ soltanto una superficie abbastanza tranquilla per potere fare muovere una costruzione metallica di enormi dimensioni, un “non luogo” galleggiante che contiene tutto quello serve per il divertimento e che non può stare da nessuna altra parte.
A bardo delle crociere si fa di tutto: si mangia, si gioca, ci si trastulla, si fanno conoscenze e si cercano avventure galanti. Tutto tranne ricordarsi che siamo in navigazione e andare per mare racchiude sempre una certa dose di rischio.
Ecco perché l’immagine della nave semiaffondata esercita una fortissima dose di sgomento in chi la guarda che non riesce a capitarsi di come sia stato possibile un affronto del genere alla magnificenza della nave, al suo bianco immacolato, alle sue comode cabine, ai suoi lussuosi saloni, alle divise dell’equipaggio e all'ostentata sicumera di chi le indossava.
Ancor più sconvolgente è l’immagine di quel relitto beffardamente adagiato a pochi metri dalla terraferma che riprende un’altra simbologia del naufragio caro, questa volta, ad un filone di pittori del tardo XVIII secolo che amavano raffigurare il vascello ormai ingovernabile nei pochi istanti che precedevano lo schianto contro la scogliera. La rappresentazione dello scenario di contorno alla nave – le ondate che frangono contro la scogliera, gli alberi sulla costa sferzati dal vento, il lampo che ammanta di bagliore sinistro le vele lacerate della nave - servivano ad enfatizzare la potenza dei fenomeni naturali, che nel loro insieme, offrivano a chi rimirava la pittura, un’idea di maggiore potenza rispetto al naufragio della nave in mezzo al mare.
Non possiamo parlare della simbologia del naufragio senza nominare il naufrago e lo stato di smarrimento che genera nel sopravvissuto l’idea di avere perso parte di se stessi in fondo al mare. Anche oggi, nonostante assicurazioni, risarcimenti e indennizzi, lo stato di depauperamento che si avverte dopo essere scampati ad un naufragio è avvilente. Proprio per questo motivo i marinai portavano l’orecchino d’oro: in caso di naufragio tutti i loro averi li avrebbero sicuramente seguiti nella buona o cattiva sorte. E’ andata bene ai naufragi della Concordia che si sono subito trovati al sicuro, tranne pochi sfortunati, ovviamente.
L’ultimo elemento simbolico del naufragio, la zattera, ovvero l’estremo tentativo di ridare fisionomia al motivo della navigazione intrapresa, mediante mezzi di fortuna e senza la minima possibilità di controllo se non i capricci degli elementi. Ma proprio a causa dell’assoluta mancanza di possibilità fare rotta verso una destinazione voluta, il mito della zattera ha generato meravigliose idee letterarie dove il mistero, l’ignoto e l’indole dell’uomo si dimostrano capaci di creare mondi di assoluta perfezione o baratri di abbruttimento e abiezione come nel caso dei naufragi della fregata francese Meduse, che tanto colpì l’immaginario popolare dell’epoca, per dichiarati episodi di cannibalismo.

Per una lettura su pittura e naufragio  Esperanza Guillén (2004), Naufragi, immagini romantiche della disperazione, Bollati Boringhieri – ISBN 978-88-339-1999-7

mercoledì 11 gennaio 2012

La montagna che si ribellò alla globalizzazione

Nel 1996, nel mese di maggio, a pochi metri dalla vetta dell’Everest si consumò una delle più assurde e drammatiche tragedie dell’alpinismo moderno. Nove persone di differenti nazionalità lasciarono la vita sulla montagna più alta del mondo a seguito di un improvviso peggioramento delle condizioni metrologiche che colse di sorpresa gli alpinisti impreparati ad affrontare l’addiaccio a quelle altitudini.
Questa sciagura coincise anche con l’apice delle cosiddette spedizioni commerciali, comitive di alpinisti volenterosi e poco addestrati che per parecchie migliaia di dollari potevano coronare l’ambizione di ogni escursionista della domenica: scalare l’Everest e tornare in ufficio a raccontarlo ai colleghi.
In quegli anni fiorirono moltissime società specializzate in spedizioni in alta quota comandate da alpinisti di vasta esperienza e discreto buon senso, ma estremamente affaccendati ad accaparrarsi i clienti più in vista e prestigiosi che in cambio della loro ascesa in vetta non si sarebbero risparmiati in commenti entusiasti - magari in occasione di qualche talk-show televisivo - nei confronti della società artefice dell’impresa. Alimentando, però, un business che portò quel giorno del maggio del 1996 alla perdite di molte vite umane.
I fatti, le speculazioni sul prima e sul dopo, sono ben descritti dal famoso best seller di Jon Krakauer  “Aria Sottile” che fece da apripista ad altre pubblicazioni a cura di altri protagonisti di quegli eventi ognuno con un pezzo di storia in più da raccontare o qualche elemento a propria discolpa.
Ed è a questo libro che vi rimando se vi interessa approfondire i dettagli della storia e dei personaggi.
Lo spunto della mia riflessione va invece a toccare un altro aspetto che mi è parso di percepire da questa vicenda la quale, se proprio vogliamo a vedere i fatti da un punto di vista statistico non aggiunge granché alla contabilità di tributi di vite umane che la montagna richiama ogni anno visto che il rapporto di morti sacrificati per persone che hanno calpestato la vetta è di 1 a 4 e questo valore non cambia da decenni.
E’ piuttosto una riflessione di come la storia di questo microcosmo montano riprenda per moltissimi versi le dinamiche cha hanno attraversato il più grande cosmo dove ci troviamo a vivere e come la tragedia immane sia pronta a colpire chi non vede i pericoli che la natura sfruttata, svilita e banalizzata, possa, con l’istinto dell’animale braccato, sferrare la zampata letale.
Già l’origine del nome affibbiato alla  montagna mi sembra abbastanza sintomatica: Everest era il cognome di un cartografo inglese in forza al servizio di rilevamenti geodetici in India, attivo nella prima metà dell’800. Il nome vero della montagna è un altro, anzi tanti altri, a seconda che lo si guardi da sud o da nord. Infatti i Tibetani la chiamano Jomolungma (Dea del Mondo) mentre per i nepalesi che vivono sul versante sud della montagna è Sagarmata (Dea del Cielo). Nomi sicuramente più aulici di un oscuro funzionario inglese al servizio delle mire colonialistiche britanniche. Per tutti era comunque una montagna sacra e di conseguenza inviolabile. Gli sherpa, etnia oriunda proveniente dalle steppe del nord e fortificata dall’altitudine si sono però ben prestati a fornire la manovalanza al diletto degli occidentali. E la sacralità è stata dileggiata a suon di dollari. L’avvicendarsi di tentativi di scalate, alcune di successo, molte fallimentari, altre finite in tragedia ha contribuito a lasciare sulle pendici della montagna tonnellate di rifiuti praticamente impossibili da rimuovere: migliaia di bombole di ossigeno vuote, brandelli di tende sfilacciate dal vento, rifiuti di bivacchi e l’impatto che i campi base posti a più di 5.000 metri di altitudine e che arrivano ad ospitare anche qualche migliaio di persone tutte in una volta, ha sull’ecosistema della montagna.
Per continuare con le similitudini delle brutture che hanno caratterizzato la permanenza in alcuni luoghi degli uomini cosiddetti civilizzati e che hanno contribuito al loro decadimento riflettiamo sull’ultimo atto della tragedia: lo sfruttamento dell’immagine dell’Everest per irretire gli avventurosi della domenica in imprese oggettivamente difficili, ma trasformate in permanenze e attività diversive da resort esclusivo grazie a perfette operazioni di promozione e di marketing che hanno contribuito all’errata percezione che una guida ben pagata possa rendere immune anche gli inesperti dai pericoli.
Quindici anni fa la Montagna sacra si è ribellata e si è scossa di dosso un bel po’ di presenze a suo giudizio divenute troppo invadenti. Da allora le spedizioni commerciali si sono rarefatte e anche il riconoscimento dell’impresa tende ad essere più selettiva di prima attribuendo il primato solo a chi arriva in vetta senza l’ausilio della maschera di ossigeno. Le spedizioni con finalità commerciali sono riprese, ma stavolta non si prefiggono di portare decine di persona in vetta in una giornata, ma tonnellate di rifiuti a valle per ripulire la montagna sacra.
Nella breve parabola di un centinaio d’anni questa zona ha attraversato tutte le epoche che hanno contraddistinto la nostra storia degli ultimi tre secoli – il colonialismo, lo sfruttamento, la logica della produzione intensiva, la globalizzazione - e precorre le soluzioni che vanamente qualcuno raccomanda per evitare il disastro finale ovvero il ritorno a ritmi più naturali e una maggiore sintonia con i ritmi di crescita e rigenerazione dell’ambiente che ci circonda.
Jon Krakauer (1998), Aria Sottile, Casa Editrice Corbaccio - ISBN 88-7972-268-9

lunedì 2 gennaio 2012

Tutela del territorio: difendere le aree vulnerabili

Un consiglio che mi sento di dare a chi amministra le città è quello di dedicarsi con maggiore impegno alla sorveglianza e alla cura di quelle porzioni di territorio che attorniano l’area urbana del comune. Boschi, brughiere, rive dei fiumi, campagne sono porzioni di territorio facile preda di chi, in enorme spregio al rispetto della cosa comune, scarica tranquillamente rifiuti, a volte anche pericolosi, godendo di una relativa certezza di farla franca.
Le aree agricole, boschive e fluviali che costituiscono la prevalente quota di territorio dei comuni italiani sono zone vulnerabili che vanno tutelate con maggiore impegno. Non sempre le amministrazioni sono disposte ad attuare provvedimenti dissuasivi, forse perché preferiscono spendere in più ambiziosi programmi di fiere, feste, notti bianche e palchi danzanti più facili far pesare nel momento del tornaconto elettorale.
Dalla tipologia di rifiuti che capita sovente di vedere abbandonati lungo strade di campagna, brughiere, rive di fiumi è facile comprendere che si tratti di residui che piccoli imprenditori edili, artigiani, titolari di officine gettatano via per non dovere incorrere negli oneri amministrativi ed economici dello smaltimento fatto secondo le regole. E’ vero che si tratta molto spesso di materiali inerti come macerie di demolizioni, fili e cavi elettrici, gomme di automobili, ma capita anche di trovare lastre di eternit, latte di solventi e vernici o peggio. Senza considerare ovviamente l'obbrobrioso e avvilente spettacolo di discariche disseminate in luoghi votati e ben altre attività.
Eppure un’ efficace opera di prevenzione può essere fatta. Con strumenti relativamente semplici, ma soprattutto tramite una forte determinazione da parte delle amministrazioni a proteggere l’integrità del proprio territorio.
Innanzitutto precludendo la facoltà di accesso alle zone predilette degli sversatori abusivi come i viottoli di campagna, le strade che portano agli alvei dei fiumi e i sentieri che si perdono nella brughiera. Se per motivi di transito questo accorgimento non è attuabile, si possono posizionare delle telecamere in grado di riprendere ingressi ed uscite.
Un ulteriore provvedimento è quello di facilitare lo smaltimento di rifiuti industriali agendo il Comune in concorrenza con le società appaltatrici di servizio di raccolta di rifiuti, fornendo luoghi di raccolta a prezzi più bassi, magari in ragione che l’interessato ha la possibilità di conferire con mezzi propri i rifiuti risparmiando sui costi di ritiro.
In ultimo, attuare iniziative che portino i luoghi che diventano scariche abusive a essere meno isolati, trasformandoli in aree destinate alle escursioni e alla scoperta dell’ambiente circostante l’ambito cittadino. 
Lungo il Tanaro in prossimità di Asti. Rifugio di uccelli e pneumatici abbandonati
Rifiuti abbandonati lungo gli argini del Tanaro
La recinzione abbattuta della Oasi del WWF. A pochi metri rifiuti e spazzatura