mercoledì 25 luglio 2012

La moto. A quando una campagna contro?


Puntale ogni anno, con l’arrivo della bella stagione, riprende la conta delle tante persone che lasciano la vita a causa di incidenti in moto.
I motociclisti sono un capitolo importante nelle statistiche di morte per incidenti stradali, ma come spesso accade, di fronte a fenomeni immani, lo Stato assiste inetto e imbelle e tollera una scempio di vite umane che lascia impietriti per lo strazio di una vita spezzata, per il raccapriccio di un corpo martoriato e per l’assurda inutilità di una corsa che non porta da nessuna parte.
Essere motociclisti è sicuramente parte di un modo di vivere, di condividere esperienze e conoscenza in nome della tecnica e della velocità e di una scolorita percezione di libertà, ma questo non deve presupporre l’assoluta libertà di rischiare la vita senza una scopo, senza una ragione.
L’Italia è il Paese delle moto: si progettano, si costruiscono, si vendono e si riparano. Il colori nazionali sono spesso portati sul podio più alto da motociclette e piloti italiani. E’ senza dubbio un grande motivo di orgoglio, anche per i più scettici. Ma tutto questo non deve permettere la carneficina che si compie ogni giorno sulle strade. Correre su una pista è, paradossalmente, meno pericoloso che sfrecciare su una strada di periferia o affrontare tornanti durante una gita domenicale. I pericoli della strada sono molteplici, incontrollabili, ineliminabili. E per i motociclisti sono delle vere e proprie trappole.
E’ dunque logica conseguenza che un Paese che vive sui fasti motociclistici passati, presenti e auspica nuovi successi futuri non possa fare altro che incentivare il consumo legato alla moto, ma come combatte la droga, la guida sotto l’effetto di alcol, la velocità, il gioco d’azzardo, l’obesità l’eccesso di sedentarismo, ovvero tutti quei comportamenti che fanno male a noi e agli altri, allo stesso modo dovrebbe attivare campagne per tenere lontano le persone dalle moto. Almeno fino a quando si è giovani e ribelli.
Un ragazzino che a 14 anni inizia a girare in motorino intraprende una potenziale carriera di motociclista destinata ad interrompersi, se gli andrà bene, su una sedia a rotelle. L’escalation della potenza prosegue fino all’età di 21, 22 anni quando la legge gli darà la possibilità di guidare moto dalla potenza impressionante. E a quell’età la morte è solo un nemico facilmente eludibile.
Ma cosa si può fare per impedire ad un ragazzo di iniziare il flirt con la moto? Innanzitutto stimolarlo verso altri mezzi di locomozione, proponendogli, per esempio, dei crediti scolastici se si asterrà dal conseguire la patente per guidare la moto fino a 18 anni. Quattro anni senza guidare la moto sono per lui una ragione per aumentare le sue possibilità di sopravvivenza e arrivare alla maggiore età sano. I crediti potranno essere trasformati in un premio consistente in mezzi di locomozione a zero o basso impatto, come una bicicletta elettrica.  Se poi, proprio non potrà fare a meno della moto almeno inizierà la sua carriera da maggiorenne, con un minimo di sale in zucca in più.
Se un ragazzo su una moto non percepisce il pericolo, potrebbe però percepire che il rischio ogni tanto c’è. Sarebbe dunque opportuno, di concerto con le scuole, gli oratori e i circoli sportivi, proporre un volontariato obbligatorio in affiancamento agli operatori del soccorso ai quali tocca spesso recuperare corpi smembrati di chi, come loro, pensava che la morte fosse un problema di poco conto. Cruento, forse, ma sicuramente edificante.
Per finire, sarebbe opportuno iniziare a smantellare l’immaginario legato alla moto che accompagna il bambino fin dalla tenera età: tricicli a forma di moto, moto elettriche, modellini di moto.
La moto è uno strumento di morte. Meglio tenerlo fuori dalla portata dei bambini.

giovedì 21 giugno 2012

Il trasporto pubblico secondo Cota


Ci sono molti modi per decidere come spendere meglio i soldi. La regione Piemonte ha deciso di optare per la soluzione più facile e banale e cioè non spendere.
La Regione Piemonte con il consenso della divisione del trasporto locale di Trenitalia ha decretato di procedere alla soppressione di ben 14 linee ferroviarie locali. Motivo: non sono redditizie. Bella scoperta e da quando lo sono? O meglio, come potrebbero essere visto che non si spende un centesimo per promuovere l’uso del treno come mezzo di trasporto, svago e acculturamento?
Questa decisione spiazza definitivamente le illusioni di alcuni comitati di cittadini riuniti sotto gli auspici democratici di Agenda21 che avevano proposto di riattare almeno le tratte più prossime ai principali centri urbani per un utilizzo del treno come metropolitana leggera per dare un minimo di sollievo al traffico in entrata dai piccoli centri o frazioni limitrofe. Molto probabilmente a Cota non interessa sapere che Asti è una della città con la qualità dell’aria peggiore di tutta Italia per colpa dei gas di scarico di un traffico demenziale.
Alcune delle linee dismesse attraversavano territori di particolare valore storico, artistico, enologico e gastronomico. Guarda caso le leve sulle quali la Regione Piemonte sta investendo per la propria promozione. Le ferrovie stesse sono, in alcuni casi, opere di valore architettonico particolare. La Asti-Chivasso realizzata già nel secolo scorso dispone di un unico patrimonio di stazioni arricchite di elementi liberty, stile imperante ai tempi della costruzione. Ovviamente oggi sono tutte in abbandono. Fra l’altro la ferrovia Asti-Chivasso transita a pochissimi metri dall'insediamento proto romano di Industria, un sito archeologico di grandissimo interesse. Che il treno potrebbe valorizzare. Lo stesso vale per il territorio e quello che potrebbe offrire ad un turismo sempre più attento a evitare le proposte becere e banali: le Langhe, il Monferrato con la loro storie e le loro particolari ed uniche espressioni di cultura.
Bella decisione quella di Cota. Ha deciso di rimpiazzare il mezzo ferroviario con corse di corriere aumentando il traffico e l’inquinamento sulle strade. Una decisione che ha i suoi  epigoni nelle scellerate politiche di chiusura delle linee locali praticate dalla fine degli anni ’50 per buona parte degli anni ’60 e ’70. Ma allora si voleva (e si doveva) fare largo all’incursione dell’automobile che avrebbe dotato tutti di un mezzo proprio per muoversi. Con le conseguenze che ben sappiamo. Ma che molti continuano a fingere di non conoscere. Ma Cota, si sa, non guarda indietro, punta dritto al futuro.
Strano bifrontismo quello della regione Piemonte che rivendica l’utilità di linee poco utili e dispendiose come la TAV Torino-Lione in ragione delle emergenti necessità di mobilità per poi eliminare quello che già esiste di buono. Ma strano è anche il bi-frontismo delle associazioni ambientaliste che si sono ben guardate dall’inscenare manifestazioni di protesta contro una così evidente dimostrazione di incapacità di pianificazione. Probabilmente il palcoscenico della Valsusa porta più pubblico pagante che una dimostrazione in una stazioncina frequentati da 4 pendolari emigrati.
Il nodo della questione è sempre lo stesso: in Italia la Ferrovia non piace. E ai pochi che piace spetta quasi sempre trovarsi dalla parte soccombente. Lo spregio per il treno, ma vale in generale per il mezzo di trasporto pubblico, ha sempre comportato finanziamenti con contagocce che hanno contribuito al peggioramento del servizio e di conseguenza alla disaffezione dell’utenza che ha optato per mezzi alternativi, quasi sempre, data la mancanza di alternative, di tipo individuale. Il circolo vizioso non si è mai interrotto e i recenti provvedimenti adottati dalla Regione Piemonte sono la tragica, scontata conseguenza.
Sopprimere le ferrovie locali oggi è una scelta che non ammette ragioni. Una società che sta sempre più abbandonando la realtà del bene fruito individualmente per cedere il passo al bene comune, penalizzare il trasporto collettivo è stata una scelta di una classe dirigente che ha perso di vista l’orizzonte più ampio degli scenari futuri a furia di spulciare bilanci e libri mastri.
Un politico al passo coi tempi dovrebbe perlomeno sapere che la redditività di una ferrovia non è data solo dai biglietti venduti e i costi per il suo esercizio, ma comprende anche tutto quello è un valore oggi difficilmente computabile, ma che qualcuno domani farà pesare sul nostro tornaconto: il degrado del paesaggio, l’imbarbarimento dei modelli di vita, la scarsa attenzione per le necessità dei più deboli.
Ma Cota, si sa, cammina troppo svelto per stare al passo coi tempi. Per andare dove, chissà

lunedì 18 giugno 2012

L’Europa che riparte da Trás-os-Montes .


Per fronteggiare la gravissima crisi finanziaria che pesa sul Portogallo, il governo ha stanziato 63 milioni di euro per incentivare i giovani al ritorno alla campagna. La regione che beneficerà del riflusso di persone  ben istruite con elevate conoscenze tecnologiche e con qualificate esperienze lavorative è quella di Trás-os-Montes, una delle zone più povere del Portogallo e di conseguenza, d’Europa.
L’obiettivo ufficiale è il ripopolamento, ma la vera sfida è potere dimostrare che un altro tipo di sviluppo è possibile. Uno sviluppo che non integra il sistema costituito, ma procede esattamente nella direzione opposta. Un nuovo sistema che riparte proprio da dove temiamo di rovinare. Dal fondo del tunnel in cui tutti paventano di cadere. Ma un’altra luce proviene dall’oscurità ed è quella della frugalità che salverà i popoli.
Anche in Italia si assiste ad un fenomeno simile. Ne abbiamo già parlato su questo blog. Sono i piccoli centri dell’Appennino ligure che si stanno ripopolando grazie all’afflusso di migranti nordafricani che hanno deciso di ripartire dalla terra. Con la collaborazione di qualche sindaco di buon senso che vede valore e ricchezza in chi viene da lontano.
Non aprono, ben inteso, centri benessere, agriturismo o bed and breakfast per quella fetta di Mondo che continua a ritenersi immune dalle tenaglie dalla crisi. Aprono solo una nuova prospettiva di vita che antepone la sussistenza al guadagno, la dignità alla malversazione e la virtù al vizio.
La terra è una grande opportunità che l’Europa può giocarsi. La  cultura contadina è ancora prevalente in buona parte del nostro continente. Basta solo farla riaffiorare.
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lunedì 4 giugno 2012

La signora dei campi che aiuta chi vuole ripartire dalla terra


In occasione della manifestazione “MiFaccioImpresa” organizzata dalla provincia di Milano con il patrocinio del Ministero per lo Sviluppo Economico, è stata premiata un’imprenditrice agricola a capo di una fattoria improntata a metodologie di coltura ed allevamento non intensive o, per dirla tutta, di permacoltura.  Niente di strano premiare un’imprenditrice di successo. La faccenda diventa curiosa quando si viene a scoprire che “MiFaccioImpresa” si propone di sostenere lo sviluppo dell’imprenditoria che punta all’innovazione.
Allora dove sta l’innovazione? Semplice nell’idea.
La signora Irene di Carpegna Brivio ha valorizzato il concetto della terra, non tanto fine a se stessa, ma in forza dell’antico vincolo che la lega all’uomo. Un vincolo particolare, di cui oggi, assoggettati alla logica della macchina che lavora per noi, si è persa la vera essenza.
Condurre una fattoria che rispetta gli animali per quelle che sono le loro necessità fisiologiche non aiuta solo a produrre alimenti di migliore qualità che posso vendere a prezzi più alti del supermercato, ma serve ad imparare che le galline possono e devono razzolare in uno spazio aperto perché quello spazio fornirà a loro il cibo migliore ricevendo, grazie ai loro escrementi,  anche il nutrimento migliore. Lo stesso vale per i maiali che devono grufolare, le mucche, le capre.  Di questo avevamo perso la memoria perché abbiamo voluto ricompattare la cultura della terra alla dimensione industriale dei pollai a batteria, degli allevamenti intensivi, delle monocolture. Oppure l’abbiamo semplificata sopprimendo le infinite varietà di frutta e verdure per concentrarci solo su quelle più spendibili per ragioni commerciali.
Oggi abbiamo gli orti in casa; ci riprendiamo spazi naturali pensando di assumere comportamenti sostenibili e rispettosi dell’esiguità di risorse che attanaglia le economie occidentali. Ma sono mode, non espressioni di una cultura che non abbiamo più.
Ha detto la signora Irene ritirando il premio che lei non vuole solo fare l’imprenditrice agricola, ma vuole creare un humus per fare capire, a chi lo vorrà, che il ritorno all’agricoltura può essere una grande risorsa per ammortizzare la fuoriuscita dal sistema consumistico ormai alle corde, a patto che si voglia capire che cosa significhi - fuor di metafora - vivere dei frutti della terra.
La terra non è uno strumento che possiamo impiegare a nostro piacimento, ma è l’elemento fondamentale della nostra sopravvivenza. Ridicolizzarla, sminuire le sue prerogative e cercare di addomesticarla ai nostri bisogni, non è mai salutare. L’uomo dovrebbe avere imparato ormai.  
La fattoria si chiama Cascina Santa Brera ed è vicino a Pavia in  un luogo ameno che invita alla riconciliazione con le cose semplici e naturali. Come una vacanza in un isola in mezzo al mare. Ma non è alla vacanza che ci invita a pensare la signora Irene, ma ad un diverso modo di vivere concentrato su poche cose fondamentali depurato degli orpelli che appesantiscono la nostra vita fino a renderla, purtroppo per molti, insopportabile. Certo, non è una vita facile, ma dura e piena di incognite; ma in molti vogliono provarla: in Grecia i figli e nipoti di chi anni fa si inurbò nelle grandi città lasciando il villaggio sull’isola o sulla costa stanno tornando a vivere di pesca e agricoltura. In Italia, molti paesini dell’entroterra ligure spopolati durante gli anni della febbre dell’emigrazione stanno tornando ad essere abitati (e vissuti) da extracomunitari che hanno ancora fresca l'immagine dalla fatica quotidiana.
Perché è proprio la fatica alla base dell’idea di cultura agricola che vuole infondere la signora Irene. Non c’è niente di rilassante, non è meglio della palestra, non aiuta a dimagrire. Magari a fine giornata non ci si fa neppure la doccia. Di sicuro c’è solo sudore, ma i frutti non tarderanno ad arrivare.
Scavate nella vigna, perché è lì che troverete il tesoro. 

martedì 22 maggio 2012

Abilità e riuso uccidono il mercato dell'usa e getta?

L'idea arriva dall'Olanda, ma è possibile replicarla ovunque nel mondo, ovunque esistano persone disposte ad offrire gratuitamente la propria esperienza a coloro che abbiano compreso l'assurdità della cultura del consumo che ci ha attanagliato per decenni. Tutti hanno da dare qualche cosa soprattutto se finalizzata a prevenire la spirale perversa dell'uso-consumo-riacquisto. Un ingegnere in pensione che aggiusta gratis la televisione, un tecnico che dà una regolata al computer, una signora con pochi impegni familiari che rammenda e adatta vestiti lindi e perfettamente mettibili da bambini più piccoli figli di genitori non necessariamente indigenti.
Tutto in un'accogliente atmosfera di un caffè dove fare due parole per condividere un vissuto troppo a lungo sostenuto se confrontato con il breve ciclo di vita degli oggetti che ci circondano e che, sostanzialmente, ci dovrebbero facilitare la vita. Ferri da stiro che non sputano vapore perché nessuno li vuole disincrostare, vecchie segreterie telefoniche che possono riprendere a registrare con un'opportuna oliatura e pulitura, apparecchi elettronici che necessiterebbero di una revisione per togliere fastidiosi gracchiamenti, un paio di scarpe che necessitano solo di un po' di colla e di manualità, le riparazioni dell'automobile, del motorino, della casa.
L'Europa ha perso il suo primato perché non ha saputo valorizzare le competenze. In Italia la crisi produttiva nasce dal depauperamento delle abilità. Che hanno un prezzo più alto e meno confrontabile di un'ora di lavoro di un operaio cinese o rumeno. Non sono state valorizzate semplicemente perché per decenni ci siamo illusi di poterne fare a meno. Il mercato offriva roba pronta. Riparare un oggetto prevede tempi lunghi che il consumo non si può permettere.
L'esperienza, le competenze e l'abilità dell'ingegnere, del tecnico, della sarta possono ritrovare una giusta collocazione in un circolo produttivo che per molti anni è stato considerato anti-mercato. In Olanda, ma anche in altri Paesi si sta scoprendo che il Mercato è altrove. E lo si è scoperto ripercorrendo a ritroso la filiera che porta milioni di oggetti prodotti e ancora in buone condizione verso i luoghi di smaltimento, che sono, come disse qualcuno riferendosi ai cimiteri di automobili, i peggiori monumenti della nostra civiltà.
Leggi anche: "Un po' alla volta, contro la cultura dell'usa e getta", articolo di Sally McGrane pubblicato sul New York Times del 9 Maggio 2012. (traduzione su eddyburg.it)

lunedì 21 maggio 2012

La torre Velasca e il Daily Telegraph: la cultura, il Paese e il paesaggio


La conservazione del paesaggio in una prospettiva qualitativa accettabile è un aspetto del dibattito culturale italiano che trova sempre più ampi spazi di confronto e che incontra inevitabilmente pesanti accuse nei confronti delle scelte attuate dalle amministrazioni comunali negli ultimi anni. Il punto cruciale della diatriba rimane tuttavia legato ad una visione prospettica e futura dell’impatto della proliferazione dei nuovi sviluppi immobiliari come se, fino all’avvento dell’epoca consumistica, lo sviluppo urbano e architettonico della realtà paesaggistica italiana fosse un elemento preesistente e non conseguente della nascita della realtà del Paese. Mi ricollego, a questo proposito, alla recente valutazione fatta dal Daily Telegraph che ha bollato la Torre Velasca come una delle costruzioni più brutte del mondo. Tenendo conto che un’opera architettonica è espressione artistica dell’intelletto umano è inevitabile che essa susciti pareri e dissapori in merito ai supposti meriti estetici dell’opera, ma non è questo il punto. La Torre Eiffel  a Parigi, la Mole Antonelliana a Torino sono subentrati nell’impianto neoclassico delle due città come pugni in pieno volto azzardando linee architettoniche e metodologie costruttive d’avanguardia. Ciononostante, indipendentemente dal giudizio estetico espresso ai tempi dai saccenti concittadini, questi edifici si sono affermati come simboli indiscussi delle due città. La Torre Velasca è un simbolo per Milano, così come lo è il grattacielo Pirelli che avrà, forse, maggiori valenze estetiche, ma non supera per forza evocativa l’edificio di piazza Velasca che racchiude lo spirito di un epoca straordinaria. Dalla seconda metà degli anni ’50 Milano ha messo in campo le migliori intelligenze e le forze propulsive più tenaci per lo sviluppo del Paese. La crescita urbanistica della città di cui la Torre Velesca è figlia, è stato un fenomeno culturale unanimemente riconosciuto ed accettato che ha generato orgoglio da parte di chi in quella città viveva, ma anche da chi veniva accolto. Oggi non è più cosi. Salvatore Settis pone la questione su quanto oggi il paesaggio sia sempre stato espressione culturale dei propri artefici, indipendentemente dal grado di preparazione specifica detenuta. I paesaggi della campagna padana, con la sublime perpendicolarità del campanile che svetta e che fornisce un punto cospicuo indiscusso per chi si spostava sono stati costruiti da uomini che avevano abilità costruttive, non urbanistiche o architettoniche e non si ponevano questioni in merito all'impatto ambientale. Eppure l’armonia del paesaggio suburbano è rimasto inalterato fino al secondo dopoguerra, fino a quando, cioè, dissennate politiche urbanistiche hanno lasciato spazio al fenomeno emergente della speculazione che ha cancellato completamente la cultura evocativa e il sommovimento emotivo che un edificio, il suo contesto, il suo contorno e la sua funzione provocava. Per questo motivo un numero sempre crescente di intellettuali sta affrontando con forza e determinazione la questione del degrado paesaggistico urbano accelerato dalle miopi politiche di cementificazione degli ultimi anni. Cancellare il territorio e la sua cultura può cancellare la memoria di una nazione.


Salvatore SETTIS, (2010) "Paesaggio, costituzione e cemento - La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile" - Einaudi ISBN 978-88-06-19871-8

L'evoluzione dell'umano errare




I pellegrini in viaggio verso i monasteri e le terre Sante, le prime guide per viaggiatori in terre incognite e gli armatori veneziani primi "tour operators" ante litteram, l'impervio, ma edificante "gran tour" degli intellettuali europei. Tutto questo e altro ci viene proposto nel saggio di Roberto Lavarini che ripercorre le vicende dell'umano viaggiare per ricercare i semi culturali che costituiranno in seguito le connotazioni di una delle principali attività d'evasione dell'uomo contemporaneo: viaggiare.
I modelli di turismo attuali, anche se ormai sfrontatamente orientati a cliché consumistici attingono dall'irrinunciabile fabbisogno di sicurezza dell'uomo in movimento: sicurezza di non perdersi, di potere disporre di vitto e alloggio e di sostanze economiche adeguatamente protette contro furti e ruberie. Fino alla sicurezza di non perdere il proprio stato sociale, sormontato dalla mescolanza di pulsioni, antipatie e simpatie che il viaggio, specie di gruppo, impone. Oggi al bisogno di sicurezza dei viaggiatori moderni sopperiscono strumenti molto evoluti di trasporto, informazione, comunicazione e pagamento, ma il distacco dal luogo abituale continua a rimanere anche per il più incallito globe trotter un momento rottura l'essere stanziale e lo spirito nomade. Lavarini espone anche un'interessante interpretazione antropologica dell'evoluzione del viaggiare che è stato oggetto, nel corso dell'era industriale, di una riconfigurazione concettuale facendolo diventare sinonimo di vacanza stravolgendo ancor di più i connotati di riposo che la vacanza presuppone e le fatiche che comporta una lunga trasferta, per esempio, per tornare al villaggio o al Paese d'origine. In ultimo una considerazione particolarmente condivisibile da chi viaggia molto sui libri riassunta da una frase dell'antropologo-scrittore- viaggiatore francese Franck Michel: "Quanti viaggiatori da camera, scopritori di mondi attraverso la lettura di libri, esploratori senza pretese, alla fine vanno più lontano, più in profondità, più liberamente della masse di viaggiatori che hanno fretta di fare tutto, di vedere tutto..."

Roberto LAVARINI (2005) "Viaggiatori - Lo spirito e il cammino" - Hoepli - ISBN 88-203-3362-7