La conservazione del paesaggio in una prospettiva
qualitativa accettabile è un aspetto del dibattito culturale italiano che trova
sempre più ampi spazi di confronto e che incontra inevitabilmente pesanti
accuse nei confronti delle scelte attuate dalle amministrazioni comunali negli
ultimi anni. Il punto cruciale della diatriba rimane tuttavia legato ad una
visione prospettica e futura dell’impatto della proliferazione dei nuovi sviluppi
immobiliari come se, fino all’avvento dell’epoca consumistica, lo sviluppo
urbano e architettonico della realtà paesaggistica italiana fosse un elemento
preesistente e non conseguente della nascita della realtà del Paese. Mi
ricollego, a questo proposito, alla recente valutazione fatta dal Daily Telegraph
che ha bollato la Torre Velasca come una delle costruzioni più brutte del
mondo. Tenendo conto che un’opera architettonica è espressione artistica
dell’intelletto umano è inevitabile che essa susciti pareri e dissapori in
merito ai supposti meriti estetici dell’opera, ma non è questo il punto. La
Torre Eiffel a Parigi, la Mole
Antonelliana a Torino sono subentrati nell’impianto neoclassico delle due città
come pugni in pieno volto azzardando linee architettoniche e metodologie
costruttive d’avanguardia. Ciononostante, indipendentemente dal giudizio
estetico espresso ai tempi dai saccenti concittadini, questi edifici si sono affermati come
simboli indiscussi delle due città. La Torre Velasca è un simbolo per Milano,
così come lo è il grattacielo Pirelli che avrà, forse, maggiori valenze
estetiche, ma non supera per forza evocativa l’edificio di piazza Velasca che
racchiude lo spirito di un epoca straordinaria. Dalla seconda metà degli anni
’50 Milano ha messo in campo le migliori intelligenze e le forze propulsive più
tenaci per lo sviluppo del Paese. La crescita urbanistica della città di cui la
Torre Velesca è figlia, è stato un fenomeno culturale unanimemente riconosciuto
ed accettato che ha generato orgoglio da parte di chi in quella città viveva,
ma anche da chi veniva accolto. Oggi non è più cosi. Salvatore Settis pone la
questione su quanto oggi il paesaggio sia sempre stato espressione culturale
dei propri artefici, indipendentemente dal grado di preparazione specifica
detenuta. I paesaggi della campagna padana, con la sublime perpendicolarità del
campanile che svetta e che fornisce un punto cospicuo indiscusso per chi si
spostava sono stati costruiti da uomini che avevano abilità costruttive, non urbanistiche o architettoniche e non
si ponevano questioni in merito all'impatto ambientale. Eppure l’armonia del paesaggio suburbano
è rimasto inalterato fino al secondo dopoguerra, fino a quando, cioè, dissennate
politiche urbanistiche hanno lasciato spazio al fenomeno emergente della
speculazione che ha cancellato completamente la cultura evocativa e il
sommovimento emotivo che un edificio, il suo contesto, il suo contorno e la sua
funzione provocava. Per questo motivo un numero sempre crescente di intellettuali sta affrontando con forza e determinazione la questione del degrado paesaggistico urbano accelerato dalle miopi politiche di cementificazione degli ultimi anni. Cancellare il territorio e la sua cultura può cancellare la memoria di una nazione.
Salvatore SETTIS, (2010) "Paesaggio, costituzione e cemento - La battaglia per l'ambiente contro il degrado civile" - Einaudi ISBN 978-88-06-19871-8
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