Attraverso le nostre scelte consapevoli è possibile diminuire i consumi per l'affermazione di un'economia sostenibile ed equa. Dai modelli di comportamento, ai trasporti e alle letture tutto è materia per un approfondimento che porti a discriminare tra l'utile e il vacuo, tra la sostanza e l'effimero, tra il modello virtuoso e il pedissequo seguito a richiami di inconsistente benessere.
martedì 26 ottobre 2010
Perchè non produrre meno rifiuti?
Mi ero riproposto di evitare di portare alla ribalta di questo spazio personale fatti o accadimenti che affondassero la propria origine nei puri eventi di cronaca o di attualità. Le ragioni della mia consapevole e cosciente volontà di astensione trova sostegno nella mia personale riflessione che il fatto di cronaca, di qualsivoglia natura, è già oggetto di innumerevoli commenti da parte di altrettanti autori che volenterosamente contribuiscono a formare quella pletora di opinioni espresse nella rete il cui suffragio o biasimo genera la “voce”o il “parlato” della Rete.
Per contro, la questione della spazzatura in Campania, mi ha esortato a trascurare la mia dichiarata volontà di omissione e di intervenire con qualche riflessione, anche in ragione della ripresa di alcuni temi e argomenti trattati da questo blog. La spazzatura, infatti, come tutto ciò che viene banalmente trattato come rifiuto, si coniuga idealmente con il sottofondo continuo delle mie esortazioni al contenimento dei consumi in quanto un rifiuto è un costo e più ne produciamo e più spendiamo. Dato dunque che il mio intendimento è quello di vivere cercando di spendere il meno possibile, meno rifiuti produciamo, meno spendiamo.
Tolto questo sillogismo che vi ho esposto solo per ribadire i confini entro i quali si muovono le mie riflessioni, passiamo subito alle considerazioni che girano intorno al mondo dei rifiuti e ai gravi accadimenti di cronaca che puntualmente la portano alla ribalta in varie parti d’Italia.
Partiamo dalla constatazione generale che il rifiuto è qualche cosa che dipende al 100%da quello che decidiamo di fare noi stessi decretandone, in ragione dei nostri consumi, la quantità che quotidianamente decidiamo di avviare ad attività di raccolta, smaltimento e riciclo. Per intenderci, se mangio una pera normalmente, a meno che non sia affamato come Pinocchio, il torsolo, la buccia e il picciolo lo getto nell’immondizia che diligentemente verserò nella cosiddetta frazione umida. Non esiste però nessuna norma mi obblighi a buttare il torsolo della pera nel cesto: potrò infatti decidere di mangiarlo (come Pinocchio, appunto), buttarlo in giardino per concimare il prato o semplicemente perché sono uno zozzone e butto la roba fuori dalla finestra, farne compost usando il mio impianto domestico oppure darlo alle galline o lasciarlo ai vermi e alla muffa. In tutti i precedenti casi, ho fatto qualche cosa di bello o di brutto, di ammirevole o riprovevole, ma non ho contribuito ad aumentare la massa di rifiuti che una filiera che sta fuori dalla porta di casa mia è sempre disponibile a raccogliere e avviare ad altre attività che riguardano il trattamento di tutte quelle cose che per vari motivi ho deciso di non tenere più in casa mia.
Passiamo a una situazione più complicata, purtroppo molto frequente nelle nostre abitudini quotidiane: al supermercato, quando ho deciso di comprare quella stessa pera che dopo essere stata mangiata mi presentava le varie opzioni di utilizzo descritte prima, ho dovuto anche comprare un vassoi etto di plastica, un foglio di cellofan che le protegge, un’etichetta di carta che indica il prezzo. Se poi le pere dovranno essere trasportate a casa insieme al resto della spesa, dovrò anche comprare un sacchetto di plastica che, inesorabilmente, raccoglierà la vaschetta delle pere vuoto e insieme ripartiranno per un altro viaggio verso la discarica o l’inceneritore (o i bordi delle strade sempre per il medesimo principio che dei rifiuti posso fare quello che voglio).
Se decido di cambiare il televisore che mi propina tanta pubblicità di pere, di succhi di pera, di omogeneizzati di pera, di gelati di pera, di torte di pera, il problema sarà ancora più grande perché dovrò non solo smaltire i grossi quantitativi di cartone, sacchetti di plastica, legacci e fermagli di vario tipo, materiale da imballo, ma anche il vecchio televisore, che sicuramente funziona ancora, ma non so dove mettere e poi,se lo tengo, come faccio a giustificare l’acquisto di quello nuovo?
Il simpatico Babbo Natale che vuole tanto bene ai bambini, riserva trattamenti di genere diverso ai genitori in quanto la mattina del 25 la quantità di immondizia accumulata dopo la frenetica apertura dei regali e spaventosamente elevata rispetto all’esiguità del volume dei doni ricevuti. E non mi riferisco alla carta dorata e ai nastrini di raso per incartare le strenne, ma a tutto quello che si frappone tra l’involucro e il regalo stesso, al netto della decorazione natalizia: anche qui cartone, plastiche, cellophane, ferretti, contro-ferretti, sacchetti, fermi, pellicole, involucri tutto perfettamente distinguibile nel genere di materiale, per carità, per facilitare il riciclo, ma oltremodo voluminoso, invadente e soprattutto “da buttare”.
Appurato dunque che il volume dei rifiuti che produco dipende dalla quantità e qualità della roba che mi porto a casa, mi pongo legittimamente una domanda. Posso fare qualche cosa affinché io possa decidere di comprare una pera o un televisore senza trascinarmi dietro quantità enormi di materiale che dovrò buttare? Si è no. Si, perché nessuno mi obbliga a comprare un televisore nuovo ogni volta che esce un modello nuovo anche perché un televisore più antiquato che funziona in casa ce l’ho già. No, perché nessuno, per lo meno in Italia, ha pensato a studiare e promulgare leggi che limitino il proliferare di materiale da imballo il cui onere dello smaltimento ricade interamente sul consumatore.
Nel nostro Paese esistono i consorzi obbligatori per il corretto smaltimento di rifiuti pericolosi e il riciclo industriale di materiali destinati a diventare nuove materie prime. I produttori e gli importatori e di oggetti che implicano attività successive di smaltimento o riciclaggio pagano un obolo al consorzio per le contribuire alle spese che il consorzio deve sostenere per riciclare il materiale, renderlo adatto a determinate produzioni industriali e convincere i potenziali clienti della bontà della materia riciclata. Questo è il motivo per cui nella campana di vetro siete autorizzati a mettere le bottiglie di vino vuoto e i vasetti di conserva, ma non lo specchio rotto o il vetro della finestra. Infatti chi produce vetro per usi diversi dalla conservazione del cibo non è tenuto a partecipare al consorzio obbligatorio. Lo sapevate? Io per esempio che lo so, se mi capita di buttare il vetro del cornice a giorno che è caduta per l’ennesima volta continuo a buttarlo nella campane perché altrove mi sembra da incivile.
Finora abbiamo parlato del materiale da imballo. Materiali puliti e intonsi che appena vedono la luce del sole vengono presi e buttati in un cassonetto puzzolente a contaminarsi con schifezze immonde che di fatto renderanno poco redditizio la riconversione in nuove materie prime. Non abbiamo ancora preso in considerazione i cosiddetti oggetti che arrivano al “fine vita”. E il nostro bidone della spazzatura è già quasi pieno. Che poi fine vita non è mai. Semmai eutanasia illegale di milioni di telefonini, computer, schermi, televisori, elettrodomestici e, attrezzi per lo sport, utensili, ricambi, borse, scarpe e cinture, cappotti, giacche e maglioni, giocattoli, bambole, peluche, armadi, suppellettili, quadri, piatti, bicchieri, radio, … che sebbene destinabili ad un uso assai più duraturo, vengono inevitabilmente buttati nella loro interezza, l’esatto opposto del maiale, di cui, è risaputo, non si butta niente. E non è solo moda o impellente attitudine verso il nuovo, ma reale impossibilità di sostituire ciò che veramente deve essere buttato con il pezzo che ripristini le originarie condizioni d’uso del mio oggetto. Date un’occhiata alle spazzole tergilunotto della vostra auto: quello che si consuma è solo la spatola di gomma a contatto con il vetro. Il resto, il traliccio di ferro e plastica che si muove insieme ai bracci del tergicristallo durerebbe almeno quanto la vostra auto. Tuttavia l’elettrauto mi cambierà tutto il pezzo, spatola e braccio compreso. La spatola è giunta a fine vita, ma il pezzo di ferro che la conteneva avrebbe voluto continuare a viaggiare con noi, sotto la pioggia, per molti altri chilometri. Sarà difficile spiegargli perché deve morire con le spatole come una vedova indiana destinata alla pira del marito. Esiste qualcuno che produce solo le spatole? Ebbene si, presso i centri di bricolage OKI, ma fate attenzione perché gli adattamenti sono diversissimi fra loro.
Altra domanda: perché i produttori di articoli destinati ad essere cambiati con una regolare frequenza, non pensano a progettare i loro oggetti pensando alla sostituibilità delle parti più vulnerabili o soggette ad usura al fine di rendere meno imponente lo spreco di materiale buono da destinare alla discarica? Facile rispondere: nessuno glielo impone!
Proseguiamo nella nostra disamina: in Germania e in molti altri Paesi con legislazioni a tutela dell’ambiente più avanzate e meno ossequianti nei confronti degli interessi dei potentati, sono state concepiti metodi a cascata per limitare l’impiego di imballi facendo ricadere l’onere dello smaltimento non su chi compra, ma su chi vende. Come funziona questo metodo di equità dello smaltimento? Semplicemente andando a minacciare i margini di profitto che i vari elementi della catena produttiva contribuiscono a generare nel processo distributivo. Se il punto vendita che ha venduto la televisione al cittadino tedesco è obbligato, come succede in realtà in quel Paese, a destinare spazi altrimenti destinati ad attività commerciale per disporre i contenitori che dovranno accogliere le varie tipologie di scarto generate dall’acquisto del mio televisore, subirà una perdita di opportunità. Se deve anche prelevare il materiale una volta che i contenitori sono pieni dovrà pagare un commesso perché lo faccia bene e senza farsi male o fare pasticci. Se poi deve anche prendere il tutto e portarlo ad un centro di raccolta dovrà anche usare un camioncino e perdere del tempo in cosa in attesa del suo turno. A questo punto il titolare del magazzino dirà ai suoi fornitori di usare meno imballo o in alternativa, chiederà ai produttori che lo riforniscono di contribuire ai costi dello smaltimento. Probabilmente una via d’accordo la troveranno e il consumatore tedesco non solo continuerà a non pagare una tassa perché qualcuno gli porti via la spazzatura dalle strade, ma sarà anche contento perché quando acquisterà il nuovo televisore avrà meno immondizia da riportare indietro. Semplice, no? Per alcuni versi geniale. E’ una legge e la si rispetta, nell’interesse di tutti. In Italia? No, niente di tutto questo perché da noi c’è la tassa spazzatura. Dimmi in quanti metri quadri vivi e ti dirò quanto devi pagare e poi produci tutta la spazzatura che vuoi. E non dite che in Italia non si promulgano leggi o decreti a favore dell’ambiente: siamo stati il primo Paese dell’Unione che ha deciso di anticipare la messa al bando dei sacchetti di plastica per la spesa. Avete visto: animi sensibili sempre pronti a recepire tutto quello che a noi non costa niente e ci fare bella figura.
Passo dunque ad enunciare il primo postulato della mia riflessione: se il problema della spazzatura è legato al suo smaltimento, perché non si impiegano risorse ed energia per arginare la quantità di rifiuti prodotti piuttosto che spendere soldi per fronteggiare emergenze che, perlomeno da quello che si osserva, non giungono mai a radicali soluzioni?
Facciamo un altro esempio; ripercorriamo le vicende che interessano una bottiglia di acqua minerale che, dopo l’appassionato bocca a bocca, gettiamo via senza tanti rimpianti. Dal cassonetto della plastica questa viene prelevata da un camion che la conduce in un centro dove sistemi automatizzati provvederanno alla separazione della plastica dagli altri materiali che hanno condiviso il regime condominiale del cassonetto come metallo, latta e alluminio. E a questo punto sorge già il primo nodo in quanto la plastica non è tutta uguale. Essa infatti ha determinate composizioni a seconda dell’utilizzo per la quale è pensata e per essere perfettamente riciclabile il materiale di origine deve avere una connotazione omogenea come PET, PE, PP, PMMA, sigle che identificano il nome del polimero utilizzato. Facendo un minestrone di tutto, come è logico aspettarsi a meno di non obbligare il cittadino a gettare i rifiuti facendo un’ulteriore differenziazione sulle tipologie di plastica da riciclare con costi e oneri improponibili, il risultato è che il prodotto derivante dal riciclo non sarà utilizzabile se non per un campo di applicazioni molto limitato: vengono esclusi, per esempio gli impieghi per usi alimentare, le applicazioni industriali con elevata componente tecnologica come l’elettronica e l’ottica ma trovano impiego nei materiali più utilizzate per i rivestimenti meno appariscenti delle automobili, per le giostre e altre attrezzature per parchi giochi, tavole da windsurf e fibre tessili come il pile.
E’ ovvio che di fronte a queste difficoltà e in ragione di modesti ritorni in termini economici, qualcuno si sia chiesto se tutto questo valesse la candela. Se teniamo conto che se la stessa bottiglia avesse preso per sbaglio la strada del termovalorizzatore, essa avrebbe contribuito, bruciando, a creare energia dato che il numero di calorie necessarie ad incendiarla è minore rispetto a quelle che produce. A tutti gli effetti questa energia può essere considerata proveniente da fonte rinnovabile visto che la spazzature non può essere certo definita una risorsa scarsa. Come si fa, pertanto, a trovare intese che portino ad una maggiore collaborazione per una minore abbondanza di rifiuti se qualcuno obbietta che i rifiuti sono una ricchezze e più ne produciamo più sono, appunto, valorizzati?
I motivi che determinano l'abbondanza di rifiuti che poi, per svariati motivi non riusciamo a smaltire senza incappare in periodiche crisi, vanno individuati sostanzialmente in tre ordini di motivi: il primo di scarsa predisposizione individuale a collaborare per ottimizzare la raccolta differenziata; se le amministrazioni intervenissero con sanzioni (sempre minacciate, ma mai effettivamente praticate), il processo di differenziazione funzionerebbe meglio e tutta la filiera ne trarrebbe beneficio. Il secondo punto è il concetto di onere da pagare per lo smaltimento dei rifiuti che, sebbene si definisca tariffa, opera come un vero e proprio balzello da pagare e che ci legittima a produrre rifiuti senza nessun incentivo a ridurre la quantità. Se le stesse amministrazioni di cui sopra invece di pascersi degli introiti derivanti da quanto i cittadini pagano per i rifiuti trovassero modalità per premiare gli atteggiamenti virtuosi il consumo di rifiuti potrebbe ulteriormente ridursi. A Verona, per esempio il comune premia con sconti sulla tariffa chi evita di sprecare il cibo e si organizza per donare il surplus a chi ne ha bisogno. In ultimo chi produce, distribuisce e soprattutto, vende materiale che diventerà materiale destinato alla discarica deve contribuire in modo diretto (e non indiretto con l'adesione ai consorzi che poi generano oneri che ricadono sul prezzo finale) allo smaltimento dei "loro" rifiuti" E a questo deve provvedere il Governo con opportuni provvedimenti.
Torniamo al torsolo della mia pera, protagonista dell'inizio di questo post e seguimolo nel suo ultimo viaggio dal cassonetto alla sua destinazione finale. Se prenderà la volta per l'impianto di compostaggio verrà trattato in modo da diventare concime per le aiuole e i giardini degli stessi comuni di provenienza. Se invece andrà in discarica inizierà a decomporsi generando quell'effetto che immediatamente si collega al concetto stesso di spazzatura: la puzza.
Il motivo che scatena l’ira dei manifestanti contro le discariche a Terzigno e adesso a Giuliano è sostanzialmente l’odore. La puzza persistente di materiale organico in decomposizione che accompagna la giornata e ti fa prevedere il tempo che farà dalla maggiore o minore intensità. Il materiale organico, ovvero quello che doveva raggiungere già da qualche anno la soglia del 35% sul totale dei rifiuti raccolti, in alcune zone della Campania non è mai partita anche se trai soldi destinati all’emergenza sono stati spesi circa 2 miliardi di euro (leggete bene) per farla partire dopo innumerevoli distribuzioni di cassonetti, contenitori e altro materiale che ha raccolto di tutto tranne che spazzatura accuratamente distribuita. Ricordate Suor Emmanuelle? Ve ne avevo parlato in un post di qualche giorno fa. Questa religiosa francese che non aveva neppure avuto un momento di imbarazzo quando doveva affondare fino alle ginocchia per portare il suo aiuto ai miserevoli spazzini di Città del Cairo che nella spazzatura ci vivevamo perché era l’unica fonte di sostentamento, è stata una delle prime a fiutare il valore della spazzatura come risorsa aprendo impianti di compostaggio in Egitto e in altre zone del mondo diseredato. Con pochi soldi, con l’aiuto di pochi e con tanta forza di volontà. Quella che manca a chi il problema dei rifiuti non lo vuole risolvere.
lunedì 18 ottobre 2010
Le inique sanzioni
Ogni tanto le prime pagine dei giornali riportano notizie di sanzioni di importo molto elevato che vengono comminate dalla AGCM, l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato presieduta da Antonio Catricalà, nei confronti di importanti aziende per pratiche commerciali scorrette, abuso della posizione dominante o concertazione di attività di cartello che sfuggono alle maglie dei controlli ufficiali. Normalmente queste notizie rimangono elementi di cronaca isolati i quali, sollevato lo scalpore e l’indignazione iniziale, si perdono nei ricorsi e controricorsi per ritornare ad essere argomento di lettura solo su quotidiani e riviste di economia, bollettini degli organi professionali coinvolti (avvocati, periti, consulenti,manager), ma quasi mai ripresi dalla stampa quotidiana. Normalmente si tratta di aziende che operano nel settore delle utilities come forniture di gas o energia elettrica e che operano in regimi commerciali assai simili agli oligopoli dove i beni proposti hanno le caratteristiche di commodities per le quali il costo e i suoi incrementi non sono sufficienti a determinare la rinuncia al servizio (non posso rimanere senza luce e gas) o a stimolare la ricerca di un fornitore più a buon mercato. L’entità delle sanzioni è molto elevata perché il calcolo di questa comporta la determinazione del periodo in cui la pratica incriminata è rimasta attiva e il numero di persone coinvolte come, per esempio, il totale degli abbonati attivi o il bacino potenziale della audience obiettivo di un messaggio pubblicitario.
Al di là di questi casi clamorosi, che in realtà vengono portati agli onori delle cronache abbastanza raramente, il lavoro dell’Autorità è molto più intenso, assiduo e soprattutto, molto accurato e puntiglioso. Per farsene un’idea basta andare sul sito dell’Autorità www.agcm.it e iniziare a scorrere i bollettini periodici che escono con l’elevata frequenza di uno alla settimana e che riportano pagine dense di dati, fatti e circostanze e elementi a difesa sui quali vengono poi fondate le decisioni dell’Autorità. Dalla lettura dei documenti risulta subito chiaro che le competenze a disposizione dell’organo sono molto affilate in termini di conoscenze giuridiche, economiche e contrattuali. Tuttavia, se le competenze sono affilate, sono le armi di offesa ad essere un po’ spuntate; infatti se si va a vedere l’entità delle sanzioni elevate ad aziende che hanno assunto comportamenti sfociati successivamente in pratiche commerciali scorrette e diffusione di messaggi pubblicitari artatamente destinati a confondere l’ignaro destinatario, si rimane sorpresi dell’esiguità degli importo comminati. Talmente irrisori che non fungono neppure da deterrente nel perseverare negli stessi “errori” già sanzionati.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, per esempio, nella sua adunanza del 26 agosto 2010 (1) ha ritenuto che la società farmaceutica Bracco, che ha fatturato nel 2009 1 miliardo di euro generando utili per 49 milioni di euro, abbia calcato un po’ troppo la mano nell’ illustrare le proprietà terapeutiche di alcune specialità da lei prodotte, fornendo un quadro che, alla riprova dei fatti, ha dimostrato effetti terapeutici assai più modesti di quanto prospettato. Nella fattispecie si trattava di due integratori alimentari, Cogiton e Stenovit, rispettivamente capace, il primo, di prevenire e di contrastare le patologie neuro-degenerative cellulare e, nel caso di Stenovit, utile per pazienti a rischio di danno cardiovascolare. L’atto di censura dell’Autorità ha preso di mira il materiale informativo destinato al personale medico, reo di fornire un’informazione eccessivamente sovradimensionata rispetto alle effettive possibilità terapeutiche. E non si tratta di cosa da poco, visto che l’intento era di convincere i medici del valore di un prodotto destinato a contrastare malattie potenzialmente in grado di affliggere una consistente quota della popolazione, ormai sempre più vecchia e bisognosa di cure croniche. Ebbene, volete sapere che cosa paga di sanzione la Bracco per essere stata un po’ troppo ottimista nel comunicare i propri meriti? 70.000 euro di sanzione amministrativa per Cogiton e 80.000 per Stenovit. L’autorità ritiene congrua l’entità della sanzione, per carità, ma questa azienda fa 50 milioni di utile e si trova adesso a pagare una sanzione pari a quello che guadagnano in una settimana i suoi principali dirigenti. Se non fosse stato per la Sharper Healtcare che ha mosso un legittimo sospetto sulla veridicità delle affermazioni della società concorrente, per quanto tempo avrebbe perseguito la Bracco nella sua ottimistica campagna di promozione delle proprie specialità? E quanto avrebbe guadagnato nel frattempo? Una multa di entità così modesta può fare accusare all’azienda contraccolpi tali da mettere in atto precauzioni per evitare ulteriori “ricadute”?
Passiamo ad un altro settore, quello della telefonia mobile e più precisamente del mondo che ruota intorno alle proposte commerciali che hanno per destinatari i giovanissimi innamorati del proprio strumento di comunicazione personale e sempre desiderosi di personalizzarlo con nuovi orpelli. Nel caso specifico parliamo di Vodafone Omnitel Omntel NV che è l’ultima in ordine cronologico a finire nel mirino dell’autorità di controllo (2). La segnalazione parte da una denuncia inviata da un utente nel 2009 che sottoponeva all’autorità la presunta ingannevolezza di un messaggio promozionale volto a diffondere e promuovere una suoneria polifonica gratuita per cellulare, senza specificare che gli oneri relativi alla ricezione del messaggio che avrebbe successivamente attivato il gadget, comportava un costo di 1,58 euro addebitati direttamente dal conto telefonico dell’ignaro utente. Il comportamento è stato censurato dall’autorità che ha ritenuto il messaggio promozionale diffuso ingannevole in quanto, cito per intero la sentenza “presentando in modo ambiguo e incompleto informazioni rilevanti in merito alle caratteristiche e alle effettive condizioni economiche della promozione pubblicizzata, è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio in relazione al servizio offerto e suscettibile di indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. Sanzioni? 60.000 € calcolando circa 100.000 suonerie scaricate nel periodo settembre 2007 dicembre 2009, aggravate di alti 15.000 euro perché l’azienda risulta essere già stata in passato destinataria di altri provvedimenti in violazione del Codice del Consumo. E abbiamo fondati motivi di pensare che l’entità della sanzione per un’azienda che ha prodotto nel 2009 a livello globale, 8.310 milioni di euro di utili non fornirà seri motivi per astenersi dal compiere, in futuro, comportamenti altrettanto scorretti.
L’Autorità presieduta da Catricalà si è anche occupata di Sky Italia, la rete televisiva privata che ha fondato il proprio successo sull’offerta di rivolta agli appassionati di sport, in particolare di calcio. Nel caso specifico, su segnalazione di RTI (Reti Televisive Italiane) che gestisce la piattaforma di programmazione commerciale Mediaset Premium, è stato sottoposto al parere dell’organo di controllo il contenuto di spot radio-televisivo che pubblicizzava l’offerta “Tutto Sky a 29,90 Euro al mese”. La società concorrente, sentendosi implicitamente tirata in ballo dai testi dei comunicati della società concorrente, in data 22 febbraio 2010 ha presentato una richiesta di intervento all’Autorità segnalando una presunta ingannevolezza nei messaggi pubblicizzati che non informavano adeguatamente relativamente ai vincoli contrattuali e ai costi complessivi dell’offerta come per esempio il fatto che l’utente sottoscrittore rimaneva vincolato per un anno e non per i soli tre mesi dell’offerta, e, ovviamente, del fatto che dopo il primo trimestre i costi sarebbero inesorabilmente lievitati. Il parere dell’autorità è stato nettamente in favore del ricorrente in quanto gli elementi omissivi della proposta, si parla anche di costi di attivazione non esplicitati, costi per il decoder sottaciuti, erano di natura e in quantità tale da connaturare l’offerta come in grado di fornire informazioni non corrette o ingannevoli nei confronti dell’utente medio. L’entità della sanzione? 100.000 euro che avrebbero potuto essere “solo” 85.000 se il soggetto non fosse stato recidivo. E non dubitiamo che per una società che nel bilancio del 2009 ha potuto mettere un utile di 163 milioni di euro, correre il rischio di dovere pagare un’ammenda così irrisoria sia un blando monito dal commettere altre leggerezze.
In realtà non sarebbe corretto affermare che, alla luce della lieve entità delle sanzioni elevate, le armi in mano all’Autorità siano spuntate o poco efficaci. Tutto va valutato in una prospettiva di eque sanzioni da una parte, ma anche di efficaci strumenti per muovere azioni di rivalsa nei confronti dell’operatore “maldestro” o disattento, dall’altra. Se in Italia esistesse una procedura regolamentata che desse corpo alle intenzioni della legge sulle azioni di rivalsa collettiva, la famosa “class action” le possibilità che il reo ricada nella tentazione di peccare ancora sarebbero nettamente inferiori rispetto a quello che accade nella realtà. Purtroppo sembra che ci sia ancora molta diffidenza verso questo istituto, riscontrabile in molti ambienti: nei contesti associativi con Confindustria in primis, ma anche in ambito forense poiché gli avvocati non dispongono ancora di un protocollo interno per regolamentare le singole spettanze in caso azioni che possono arrivare a coinvolgere migliaia di persone.
E intanto le pratiche ingannevoli prosperano.
(1): Bollettino n°34 del 20 Settembre 2010 Provvedimento n.° 21494 pp 29-47
(2): Bollettino n°37 dell’ 11 Ottobre 2010 – Provvedimento 21598 - pp. 61-67
(3) Bollettino n° 29 del 29 Agosto 2010 – Provvedimento 21384 pp. 111- 118
giovedì 14 ottobre 2010
L'economia della strada
Alcuni anni fa ebbi la possibilità di partecipare ad un incontro organizzato dall’amministrazione comunale, allora di sinistra, della città in cui vivo, per discutere se e dove fare le piste ciclabili. L’impressione che ricevetti fu quella di un’amministrazione distratta da altre questioni che dedicava, suo malgrado, del tempo ad ascoltare dei tipi un po’ eccentrici che proponevano un proprio modo di gestire i trasporti in una piccola città con meno di sessantamila abitanti.
Mi permisi di fare due osservazioni. La prima di fondo,forse un po’ troppo azzardata che enunciava un principio, a mio avviso basilare per il quale se l’obiettivo era quello di ridurre il traffico di auto private in una città, l’unica via da percorrere era quella di togliere o limitare il primo presupposto che permette di usare una macchina: la strada. In altri termini prendendo in prestito un concetto degli economisti di scuola scozzese, se la strada è una risorsa limitata l’ingresso di un novo concorrente, la bicicletta, avrebbe comportato l’insorgere di un modus vivendi accettabile tra automobilisti e ciclisti. Mi azzardai a fare questa obiezione a fronte del fatto che l’orientamento del comune era quello di fare piste ciclabili sottraendo fette di marciapiede pedonale per non intaccare l’ampiezza della carreggiata delle strade collaterali. Una guerra tra poveri, praticamente.
La seconda osservazione scaturì dalla domanda che l’assessore alla mobilità pose in merito a dove si ritenesse opportuno costruire piste ciclabili e anche in questo caso mi lanciai in azzardati postulati affermando che se l’intento dell’amministrazione era quello di sottrarre traffico motorizzato agli spostamenti cittadini, una pista ciclabile sarebbe dovuta passare laddove esistessero affermati e robusti flussi di movimento come presso ospedali, scuole, uffici pubblici e centri commerciali. Dato che allora era in fase di costruzione il nuovo ospedale e sorgevano centri commerciali come funghi la mia enunciazione mi sembrò non poi così fuori luogo.
Da allora sono passati alcuni anni, l’amministrazione è cambiata, l’ospedale è stato terminato ed è diventato, come era prevedibile, un mostruoso generatore di traffico di automobili, di piste ciclabili ne sono state fatte poche e in malo modo e, soprattutto, inutilizzate in quanto tracciate su percorsi del tutto marginali ai grandi flussi di traffico cittadino. Centri commerciali? Ovviamente. Due per la precisione e per potere renderli accessibili ai clienti è stato necessario un ulteriore contributo di asfalto e cemento in termini di strade, rotonde e cavalcavia. Di piste ciclabili, manco a dirlo, neppure l’ombra.
Ho ripensato a quella grottesca ed inutile pantomina di rappresentazione degli interessi collettivi, leggendo un articolo curato da Alfredo Dufruca e Damiano Rossi, scaricabile integralmente da Eddyburg.it dall’aulico titolo di “la città gentile” e che prende spunto dall’esperienza del comune di Settimo Milanese, un piccolo centro alle porte del caos della grande città che ha saputo dare un segnale concreto dell’impegno dell’amministrazione per la riduzione del traffico di automobili diventando un modello virtuoso di diffusione dell’uso della bicicletta. Senza realizzare centinaia di chilometri di piste e senza particolari investimenti in infrastrutture, ma semplicemente insegnando le regole della buona creanza a chi va per strada e punendo coloro che le trasgrediscono. Solita guerra santa tra il ciclista circondato da un alone di mistica santità e l’automobilista diabolico prevaricatore senza leggi? No, o meglio, forse solo in parte. Se chi va in macchina si sente autorizzato ad assumente atteggiamenti aggressivi, non sono lo si punisce, ma si mettono in pratica quelle trasformazioni che inducono l’autista malanimo a diventare più gentile. Come? Esattamente come mi immaginavo io qualche anno fa e come Dufruca e Rossi espongono nel loro articolo ispirato alla realtà di Settimo Milanese e cioè che "per contenere il dilagare di comportamenti aggressivi bisogna provvedere ad una attenta rigerchizzazione delle strade, con il severo ridimensionamento degli spazi di circolazione e con l’inserimento di elementi diffusi di controllo dei comportamenti degli automobilisti".
Che cosa insegna poi l’esperienza di Settimo Milanese che desta l’attenzione dei due giornalisti? l'attenzione verso l’organizzazione urbanistica che non deve essere “segregata e segregante” e la prevenzione "nei confronti del gigantismo dei centri commerciali che concentrano molte funzioni in pochi luoghi lontani costringendo a spostamenti lunghi e motorizzati". Esattamente quel tipo di riflessione che avevo invitato a fare all’imbelle assessore che ha preferito assistere ad uno scempio urbanistico territoriale di una piccola città circondata dalla campagna piuttosto che andare a contrastare la tracotanza degli automobilisti togliendoli qualche metro quadrato di asfalto.
Un altro esempio di città che ha saputo impartire regole ferree per sopravvivere al traffico è Berlino. In questo caso non si parla di un piccolo centro di periferia, ma di una delle più grandi, belle, popolose e vitali città d’Europa. E’ uscito sul Corriere della Sera di martedì 12 Ottobre un articolo di Danilo Taino, corrispondente da quella città per il giornale che mette in luce, ancora una volta, come gli sforzi per addivenire ad una riduzione del traffico su quattoruote e ingentilire il volto della città anche grazie al maggiore ricorso alla bici (a Berlino una persona su otto si muove pedalando), siamo passati attraverso una capillare azione di rispetto delle regole. Esempi: abbigliamento di sicurezze per il ciclista, luci funzionanti, rispetto delle precedenze a favore dei ciclisti. A questo proposito, voglio infierire ancora una volta sul povero ex-assessore all’ambiente del mio comune: pare che a Berlino abbiamo scoperto che costruendo le piste ciclabili usando il sedime stradale (e pertanto togliendo spazio vitale al movimento delle macchine), non solo si riduca il traffico, ma si garantisca una migliore visibilità a chi circola sulle strade evitando investimenti di ciclisti sbucati improvvisamente dal marciapiede. Anche più sicuro.
martedì 12 ottobre 2010
A proposito di Pil e Robert Kennedy
A proposito di PIL e del discorso di Robert Kennedy che ho parzialmente riportato sul mio post precedente, vi segnalo che Sergio Marchionne ha ripreso la stessa frase in occasione di un suo intervento pubblico a Firenze qualche giorno fa.
Un'ulteriore riprova di come tutti siamo d'accordo, ma molto poco propensi ad agire.
Un'ulteriore riprova di come tutti siamo d'accordo, ma molto poco propensi ad agire.
sabato 2 ottobre 2010
Benessere e “ben avere”. Il nodo del calcolo della ricchezza
Da alcuni anni seguo il dibattito sull’attualità dei sistemi di computo della ricchezza pro capite e del PIL e la supposta necessità di addivenire a modelli di rendicontazione che tengano conto anche dei valori intangibili quali la solidarietà, l’impegno dei volontari e l’assistenza in ambito familiare. Il dibattito è interessante anche se il punto cruciale della questione non è tanto conciliare le diverse opinioni per arrivare a perfezionare il metodo, ma piuttosto ritenere possibile l’avvento di un nuovo sistema di produzione e distribuzione delle risorse. Consumare risorse in eterno non è possibile, ma il calcolo del PIL per misurare l’indice di prosperità di un Paese, prende in considerazione solo quante risorse vengono trasformate e consumate e quanta ricchezza ne deriva. E fino a che gli Stati non si adegueranno a diversi modelli macroeconomici, la rincorsa non si esaurirà. Non è possibile consumare risorse in eterno per il semplice motivo che prima o poi queste finiscono e l’aggravio sul conto finale, non è solo che rimarremo a secco, ma che avremo nel frattempo arrecato danni irreversibili al nostro eco-sistema. E a quel punto non sarà tanto importante sapere che avremo messo a punto modelli di misurazione della ricchezza diversi. Non ci sarà più ricchezza, ma solo desolazione.
Uno dei più strenui e accesi fomentatori di critiche al modello del PIL è il filosofo francese Serge Latouche che ha recentemente scritto un articolo apparso in Italia sul Manifesto dello scorso 17 settembre e riportato integralmente su Eddyburg.it intitolato Abbondanza Frugale. Nella sua interessante dissertazione, Latouche va a ricercare il momento in cui il concetto di benessere si sovrappone a quel filone di pensiero economico datato metà ‘700 fortemente connotato da un orientamento portato a trovare un fondamento “statistico” del bene comune. La ricerca curata da Latouche e esposta nel suo articolo, e che costituisce anche l’ossatura di un intervento a Pordenonelegge, si snoda attraverso i capisaldi dell’economia classica con l’intento dichiarato di di “decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite” capendo i motivi che hanno portato al suo consolidamento negli ultimi secoli.
E’ peraltro vero che la “de-materializzazione del benessere” ha cominciato ad essere oggetto di speculazioni di economisti più vicini alla sociologia come Max Weber e Karl Polany e, per arrivare in tempi più recenti, Jean Baudrillard. A questo proposito, vorrei rendere merito la lungimiranza del caro professore di sociologia economica, Alberto Martinelli, per avere, in anni di pieno fervore edonistico consumistico, saputo proporre nel giusto contesto questi autori.
Ripensare a come calcolare su basi diversi la ricchezza di uno Stato non è una nuova frontiera, o meglio non è un argomento inedito di propaganda politica se a fine anni ‘60 Robert Kennedy in uno dei suoi ultimi discorsi (se non l’ultimo) ammoniva che “il PIL include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulla strade…” Peralto, continuava il giovane Kennedy “il Pil non conteggia la salute dei bambini, la qualità della loro istruzione e la loro allegria. Non prende in considerazione il coraggio, l’integrità e l’intelligenza di ognuno di noi” E conclude: “il Pil misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta”.
Le bestemmie di Berlusconi e il pragmatismo dell’Economist
In fondo hanno ragione Berlusconi e il suo entourage quando fanno quadrato intorno al fatto che una storiella volgare, offensiva e blasfema se raccontata nella cerchia degli amici buontemponi debba rimanere nell’ambito dei fatti privati e ogni estensione mediatica diventi una strumentalizzazione in mano agli oppositori.
Il punto della questione è che, se il fatto viene circoscritto al semplice fatto, non è possibile dare ragione a chi si scaglia contro l’ennesima uscita maldestra del premier, ma se viene relativizzato al contesto in cui costui opera e che rappresenta, la questione sarebbe comunque più complessa e meno difendibile. Sarebbe. Infatti anche nell’ipotesi dell’ufficialità che il capo dell’esecutivo di un Paese inevitabilmente si trascina dietro tanto da non potere discernere quello che è privato da quello che è pubblico, rimane apertissima e vulnerabilissima l’incapacità di questa persona di adottare minimi accorgimenti di buon senso per evitare scivoloni di popolarità, di immagine e di reputazione.
E nel caso della barzelletta su Rosy Bindi raccontata all’Aquila le precauzioni sarebbero state quelle di evitare di lasciarsi andare a situazioni di grassa ilarità in una terra offesa e ancora sofferente; di astenersi da profferire bestemmie e battute volgari su un avversario politico, di essere consapevole che in un contesto di multimedialità e affannata ricerca di “contenuti” da affidare a qualche social network c’è sempre in agguato una telecamerina pronta a riprendere il fatto da mettere in rete. Tutto questo, anche se stupisce che colui che ha portato il protagonismo televisivo a sventolare sopra ogni cosa, Berlusconi non lo sa, o se lo dimentica nel momento meno opportuno.
Così è stato per le Escort, per le tragicomiche uscite al Parlamento europeo, per le altre barzellette, le corna, i cucù, le sfuriate della Regina Elisabetta e mi fermo.
Nell’aprile del 2001, l’Economist, il settimanale liberale britannico pubblicò un dossier che metteva analiticamente in luce le lacune che l’allora esponente capo dell’opposizione evidenziava e che lo avrebbero reso inadatto a guidare il Paese, il nostro Paese. Penso che la politica italiana dovrebbe andare a rileggersi quell’articolo e imparare dal pragmatismo anglosassone. Soprattutto l’opposizione dovrebbe smetterla di criticare Berlusconi, tout court, e iniziare ad apprezzare i suoi meriti oggettivi: è un abile imprenditore, generoso a modo suo, fascinoso col gentil sesso, fine oratore, simpatico, un compagnone con cui andare a mangiare una pizza e bere una birra. Tanti meriti, ma una pecca: incapace a governare l’Italia.
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