lunedì 8 ottobre 2012

Steve Jobs, un anno dopo.



A distanza di un anno dalla morte di Steve Jobs si celebra due volte la sua grandezza: la prima volta per essere riuscito a inalare il suo spirito immortale all’interno di un oggetto che sarà sempre il più desiderato, irrazionalmente desiderato, perpetrando in un atto consumistico il perenne ricordo del suo inventore. La seconda per essere riuscito a volatilizzare d’incanto le polemiche sui fattacci di schiavismo medioevale che occorrono nelle fabbriche che assemblano le sue modernissime reliquie. Ebbene si; Marchionne dovrebbe scendere a più miti consigli. Farsi spirito per assurgere agli altari del salvatore della modernità e dell’evoluzione affinché la pubblica opinione possa rendere finalmente merito alle sue dichiarazioni biforcute.
Nessuno ha gridato allo scandalo su quanto risulta chiaramente dai resoconti che arrivano dalla fabbriche cinesi impegnate nel “tour de force” per assecondare la kermesse delle file di fronte alle vetrine dei sancta sanctorum. In fondo un minimo aggancio con la giustizia (divina, anche in questo caso) è perlomeno ravvisabile: soffri tu per costruirlo, ma io di più che faccio la coda di notte per comprarlo.
Nessuno ha evidenziato cartelli di protesta per segnalare gli accadimenti. Neppure quei fanatici di SEL, anche detta Sinistra e Libertà che un anno fa, in occasione del lutto che colpì gli smarriti accoliti del superfluo, tappezzarono Roma di manifesti per rendere onore al Genio. Del libero mercato, del marketing, della mercanzia e del mercanteggiare (sulla pelle degli operai cinesi). Insomma di quel mercato che da sempre va combattuto. Scusate devo scaricare la nuova app per scoprire quanto Gramsci c’è in me.

La rabbia e i limiti degli imprenditori italiani



Marchionne non sta suscitando molte simpatie in questo momento. Adesso  anche gli imprenditori italiani si sono uniti al coro delle rimostranze nei suo confronti accusandolo di una politica industriale di rapina e di opportunismo. Le antipatie nei suoi confronti hanno origine lontana e non ricadono interamente su di lui e sulle sue spregiudicate azioni e dichiarazioni. Il germe dell’antipatia nazionale verso la Fiat è sorta sin dai tempi  in cui in Italia automobile faceva rima con Agnelli, famiglia di imprenditori che da tali facevano quello che altri imprenditori vorrebbero fare adesso: andarsene o chiedere aiuti allo Stato per rimanere. L’avvocato Giovanni Agnelli era un abile uomo d’affari e la sua azienda ha contribuito con l’estro, la genialità e le capacità di ottimi ingegneri e tecnici a costruire modelli che hanno tracciato il solco per lo sviluppo dell’automobile. Purtroppo l’”Avvocato” ha perseverato in un errore, ovvero cercare di convincere gli italiani a comprare le sue macchine, quando agli italiani le sue macchine non interessavano più: non per esterofilia, come si è portati a pensare, ma per una crescente ostilità nei confronti della sua progenie.
Se vent’anni fa ai vertici dell’azienda di Torino fosse asceso un manager senza storia e legami affettivi come quello attuale, la Fiat avrebbe tolto il disturbo da tempo dislocando impianti e competenze al di fuori dell’Italia e forse anche dell’Europa. Ma questo non è successo e per altri vent’anni l’azienda in perenne stato di crisi ha vivacchiato sulle spalle dei contribuenti acuendone l’acrimonia nei suoi confronti, del marchio e degli stessi Agnelli rei di essere solo in grado di chiedere aiuto in tempi di ristrettezze e accumulare fortune in tempi di vacche grasse.
In realtà nulla è diverso da quanto accade adesso: gli imprenditori chiedono aiuti. Chi non li ottiene va all’estero. Chi non li ottiene e non può andare all’estero, chiude. Oggi lo Stato non è più in grado di fornire sussidi, neppure in modo selettivo discriminando in base alle priorità o alle criticità.
La Fiat corre con l’affanno di un mercato stanco sotto gli sguardi di rimprovero di consumatori che ormai diffidano di tutto quello che gli viene proposto. Ovvio che non esistano più i presupposti per rimanere, soprattutto quando mercati emergenti sono ben disposti a recepire livelli di produzione tali da giustificare impianti produttivi che abbiano un minimo di senso.
Se però Marchionne (e i suoi aspiranti epigoni) se ne vanno, lo Stato, anzi gli Stati, in questo caso,  non rimangono immuni da colpe. L’incapacità subordinare i sussidi ad imposizioni di rinnovamento tecnologico ha di fatto contribuito a fare avvitare il mercato dell’auto su se stesso. In Europa sono basate le principali industrie automobilistiche del mondo con ottimi centri studio e ricerche, ottimi ingegneri, tecnici e meccanici. Se i Governi avessero subordinato la concessione di aiuti in cambio di un serio impegno verso il rinnovamento dell’attuale tecnologia energivora a favore di modalità di trasporto più equilibrate oggi le cose sarebbero molto diverse. I sussidi dello governo avrebbero potuto essere investimenti per il futuro e a beneficiarne sarebbero stati i cittadini, i lavoratori, gli industriali e, in ultima istanza, lo Stato stesso. Eppure, sebbene il destino dell’auto fosse segnato da tempo si è voluto rimandare la morte di un settore che oggi non ha futuro. E il presente è fatto di auto che inquinano, vendite che ristagnano, fabbriche che chiudono e personale che resta a casa.  Se ci fosse stato un impegno congiunto di tutti gli Stati Europei a favore di mezzi di locomozione a basso impatto, oggi i problemi di inquinamento di molte città sarebbero solo un brutto ricordo, il problema del costo della benzina una preoccupazione relativa solo alle finanze di magnati appassionati di corse. Eppure venti anni fa Fiat ha ceduto ai francesi la divisione ferroviaria senza che il governo di allora muovesse un dito per evitare che esperienze e tecnologie utili per la modernizzazione dei trasporti italiani andasse in mano straniera. Oggi gli imprenditori che hanno puntato sull’auto elettrica stentano ad affermare i propri prodotti e tecnologie a perché il sostegno al settore è ancora troppo timido ed impacciato.
Gli italiani vorrebbero insegnare a Marchionne come si fa ad essere imprenditori con ben chiari i parametri etici della categoria come  il mantenimento dei posti di lavoro, la creazione di nuovi, lo sviluppo dell’industria Italiana, la garanzia di investimenti e la lo loro continuità. La classe dirigente italiana, ancora una volta, chiama in causa la più grande industria italiana a fare da paravento alla propria mediocrità e assoluta incapacità di porsi veri e concreti obiettivi di rinnovamento. 

mercoledì 19 settembre 2012

Considerazioni sulla mobilità sostenibile



L’evoluzione della specie.

Darwin fu messo a dura prova quando dovette fornire riscontri attendibili sulla durata del processo evolutivo della specie. Ma quantomeno  si parlava di centinaia di migliaia di anni. Oggi è possibile assistere ad un inedito processo evolutivo, o per meglio dire, assistere a come all’interno della stessa specie alcuni individui riescano a sopravvivere adattandosi al mutato contesto mentre altri, meno duttili, soccombono. Il tutto nel giro di pochi anni. Alcuni esemplari della razza umana stanno abituandosi  a muoversi riacquistando l’uso dei mezzi propri, ovvero camminano invece di andare in macchina, vanno in bicicletta, anzi in treno e in bicicletta per spostarsi nella grande città e muoversi in piena libertà senza vincoli, restrizioni e balzelli, si portano una piccola bicicletta nel baule della macchina per parcheggiare il mezzo ingombrante ai  limiti del traffico ed addentrarsi senza il delirio delle code.  Questi individui destinati una probabile futura sopravvivenza cominciano ad elaborare il concetto che spostarsi senza ausili a motore è possibile. Senza sforzi eccessivi e a bassissimo costo. Altri invece continuano imperterriti a sedersi al volante di automobili per spostamenti di pochi chilometri. E non sopravvivranno.

L’autostop 2.0

E’ ritornato in auge il sistema dell’autostop. Non si tratta più di caricare giovani barbuti con il pollice a moto oscillante, ma di digitare il proprio tragitto abituale o occasionale su una piattaforma condivisa e aspettare che qualcuno scelga di rinunciare alla sua macchina e fare il viaggio con voi. Il classico “mi dai uno strappo visto che vai da quelle parti”.
Le regole del gioco prevedono che l’autista possa chiedere un minimo di contributo rapportato alla distanza percorsa e parte delle spese sostenute (calcolate automaticamente dal sistema), ma per rimanere fedele all’etica dell’autostop dovrebbe ricambiare con un sorriso e un arrivederci. Ma coi tempi che corrono.
L’usuale e proverbiale diffidenza reciproca fonte di dubbi che attanagliavano il passeggero e il guidatore nei pochi istanti che intercorrevano tra la frenata e la salita dell’autostoppista dovrebbero essere ora dissipati dalla possibilità di vedere in anteprima la faccia del conducente e dell’occasionale passeggero, sapere chi è, cosa fa e dove abita. Il sistema non difetta di certi accorgimenti di marketing come la possibilità di sapere in anticipo se i fumatori e gli animali sono graditi, la musica che si ascolta e gli argomenti preferiti.
Bello, ma non funzionerà. Ci sono stati in passato altri sistemi simili, ma non hanno avuto successo. Il motivo? Oggi sono ancora troppi quelli che sano disposti ad offrire il passaggio e troppo pochi quelli disposti ad accettarlo. Ma l’evoluzione di cui si è parlato prima potrebbe fare cambiare le cose a breve.
 www.blablacar.it           

L’odio di classe

Il Corriere della Sera, all’interno della sacrosanta edizione milanese, ospita regolarmente molte lettere che illustrano la feroce guerra in atto tra pedoni e ciclisti. O meglio della guerra che i pedoni  vorrebbero muovere  ai ciclisti rei di fregarsene delle leggi del traffico ed attentare alla vita dei passanti, gli unici titolati all’uso del marciapiede.  Sarà anche vero. Non sarebbe saggio negare l’esistenza di qualche scalmanato.  Ma un fatto al quale ho assistito alcuni giorni fa in una città lombarda egualmente assillata dai problemi di un traffico caotico e una mobilità demenziale mi ha dato un pretesto per, non dico schierarmi dalla parte dei ciclisti indisciplinati, ma per invitare il pedone ad essere più comprensivo nei confronti di questi. La signora attrice nella pantomina alla quale ho assistito, ha mandato male parole all’indirizzo di uno dei rari  ciclisti in circolazione che le è sfrecciato acconto sul marciapiede, peraltro largo, ma senza minimamente sfiorarla. Purtroppo la signora non ha valutato attentamente il contesto in cui si trovava: una strada completamente intasata di macchine, camion e furgoni che avanzano incolonnati coi motori accesi. Vi lascio immaginare come saranno stati contenti i polmoni della iraconda signora. Ci pensi signora: se tutti quelli chiusi in quelle macchinette puzzolenti fossero ciclisti, come quello oggetto delle sue ire,  l’aria che respira lei, i suoi figli e i suoi nipoti sarebbe migliore di quella di adesso. Che fa pure male.

martedì 28 agosto 2012

Lassù qualcuno ci ama (e ci tassa)





Dovrebbe destare sospetti questo improvviso interesse dello Stato nei confronti della nostra salute. L’idea di tassare le bibite gassate per contenerne il consumo, soprattutto da parte dei più giovani, è l’ultima trovata per estorcere quattrini accampando scuse che hanno solo un flebile fondamento.
Cominciamo a parlare delle priorità: se la nostra salute fosse così importante da imporre delle rinunce perché non si stabiliscono delle regole per contenere l’uso di veicoli a motore che ammorbano l’aria? L’inquinamento da traffico in Italia ha punte elevatissime nelle nostre città, soprattutto presso scuole, ospedali e centri urbani. Eppure non vi è stata una, dico una, legge nazionale che abbia definito delle linee chiare per il contenimento del traffico a motore nelle città a favore di mezzi meno inquinanti.
Questo il ministro non lo mette tra le priorità. E’ molto più pericoloso ed insidioso il pericolo che si cela dietro le bottiglie delle bibite gassate ad una festicciola di compleanno. Sia chiaro: un eccesso di zuccheri è sicuramente nocivo per la salute, soprattutto durante la fase della crescita. Un bambino sovrappeso oggi è un adulto obeso domani con tutte le patologie che ne deriveranno: ipertensione, scompensi cardiocircolatori e malattie invalidanti come il diabete. Ma non è sicuramente una tassa sul consumo che incoraggia a comportamenti virtuosi. Vogliamo infatti parlare del fumo, del gioco, delle scommesse tutte attività sulle quali lo stato lucra in modo sconsiderato. E non si può dire che siano attività che non lascino segni sul fisico e sulla psiche. Il gioco, poi, è una piaga che non compromette solo l’equilibrio di chi vi si dedica in modo compulsivo, ma anche di quelli che gli stanno attorno. E lo stato che fa? Si lava la coscienza ammonendoci di giocare in modo responsabile. Come dire ad un pilota di formula uno di non superare i limiti di velocità.
E il consumo smodato di alcolici, peraltro già gravato da balzelli ed imposte, oltre che regolato da leggi spesso disattese, che sta dilagando tra i giovani? Anche questo è meno importante?
Gli introiti andranno a sostenere campagne ed iniziative per contrastare l’obesità infantile. Come fanno in Francia, dice il ministro Balduzzi. Già. Peccato che la Francia abbia una lunghissima esperienza di politiche di lotta all’obesità e al sovrappeso. Il programma Epode, partito in Francia circa 15 anni fa e che si è esteso ad altri Paesi europei come la Spagna, la Grecia e il Belgio, ha contribuito ad una significativa riduzione dell’indice di massa corporea di migliaia di bambini residenti in comuni campione scelti in tutto il paese. L’esperienza di Epode, che è stata possibile grazie alla collaborazione congiunta di genitori, medici scolastici, insegnanti ed allenatori (Epode è l’acronimo di Ensemble, Prévenons L’Obésité des Enfants) ha raccolto un’elevata partecipazione da parte dei bambini che sono oggi molto più consapevoli delle proprie scelte alimentari. Non a caso uno degli spot televisivi che fungevano da supporto alla campagna rappresentava la mano di un bimbo che davanti al frigo indugiava sulla confezione di yogurt alla frutta per poi scegliere senza esitazione quello naturale, molto più salutare. Ma non servono solo gli spot televisivi lava-coscienza come vorrebbe fare il nostro ministro: serve un vero impegno, costante assiduo e duraturo. E soprattutto molti investimenti e non solo finanziari. A proposito di coerenza: l’Italia che vanta una percentuale record di bambini obesi o sovrappeso non ha mai voluto aderire al programma Epode.
Sarà curioso vedere come se la caverà il ministro di fronte alle rimostranze dei colossi della ristorazione commerciale come MacDonald, Autogrill per non parlare dei produttori di merendine e bevande zuccherate come Coca Cola, Ferrero e Bacardi che non vedranno di buon occhio un’ulteriore contrazione dei consumi. In Francia, la Danone ha avuto parecchio da ridire sullo spot del bambino salutista che sceglieva lo yogurt magro. Ne aveva chiesto addirittura il ritiro. Ma il governo francese ha tirato dritto. Riusciranno anche i nostri paladini della salute pubblica?

Vai al sito del progetto Epode