All'Istituto Piepoli che mi ha interpellato per un'intervista telefonica chiedendomi quale fosse stata la notizia che più mi ha colpito, se solo mi avesse chiamato una settimana dopo, avrei potuto rispondere senza esitazione di essere rimasto tremendamente impressionato dal ritrovamento delle pietre preziose, improvvisa manifestazione di un'antica e dimenticata sciagura aerea avvenuta sul Monte Bianco quasi cinquant'anni fa.. C'è tutto quanto possa suscitare interesse per l'intreccio del romanzo di spionaggio, il film d'avventura e la sferzante atmosfera di un periodo. Siamo nel 1966 e l'aereo partito da Bombay sarebbe dovuto arrivare a New York se non fosse stato per un errore del pilota che sbagliò a valutare l'altitudine e si schiantò sul Monte Bianco prima della discesa verso Ginevra. Da allora il tesoro che viaggiava con lo sconosciuto passeggero è rimasto in balia delle mutevoli condizioni del paesaggio d'alta quota: è stato sepolto, è riaffiorato per sparire nuovamente per chissà quanti anni e per chissà quante volte. Fino a che un alpinista l'ha trovato e ne ha denunciato il ritrovamento. Ci sono già due elementi che fanno di questa storia una fiaba, una novella da Mille e Una Notte: le pietre preziose e l'uomo onesto che le ritrova. Non un portafoglio con fogli di banconote destinate ad andare fuori corso o trasformarsi in poltiglia, ma pietre preziose incorruttibili destinate a preservare il loro valore a beneficio di un provvido rinvenimento. C'è il rude, almeno nell'immaginario, e onesto uomo di montagna che quasi cinquant'anni dopo denuncia la scoperta e se ne rimane in attesa dell'erede che lo ringrazi e gli commisuri la giusta ricompensa. Ma soprattutto c'è l'India dei maraja con gli zaffiri sul turbante, proprio come quello cantato da Capossela, e il fantomatico scienziato indiano che trasportava piani segreti per permettere al suo Paese di costruire la bomba atomica e distruggere l'odiato Pakistan con il quale, guarda caso, continuano a scrutarsi in cagnesco sugli strapiombi delle montagne più alte del mondo. Forse sarebbe sceso a Ginevra per perorare la sua causa e fare valere i propri diritti. Perchè allora, più di oggi Ginevra valeva il buon senso dell'Occidente sulle questioni mondiali. Non poteva essere una storia di poco conto per sparire così, nel nulla. Allora si speculò anche che l'aereo fosse stato abbattuto da un velivolo militare, italiano pare. Tutto era troppo fantastico, imbevuto di un fascino, che almeno per quelli della mia generazione,continua ad alimentare fantastiche atmosfere d'altri tempi. L'India era quella dei santoni e nel 1966 i Beatles si fecero ammaliare dalla loro religione al punto da influire anche sulla loro produzione musicale. Iniziavano a diffondersi le pratiche di meditazione delle religioni animiste che avrebbero per anni influenzato la moda, l'arte, l'alimentazione e la letteratura. C'era anche la città dalla quale è decollato l'areo, Bombay, che oggi si chiama con un altro nome. Sicuramente non sapremo se il bravo alpinista francese riceverà la giusta mercede per il suo atto disinteressato e stringerà la mano al discendente di quell'antico trasvolatore. Difficilmente viene dato un seguito a notizie di questo tipo. L'obiettivo era creare un humus favorevole all'evasione. E con me ci sono riusciti.
Attraverso le nostre scelte consapevoli è possibile diminuire i consumi per l'affermazione di un'economia sostenibile ed equa. Dai modelli di comportamento, ai trasporti e alle letture tutto è materia per un approfondimento che porti a discriminare tra l'utile e il vacuo, tra la sostanza e l'effimero, tra il modello virtuoso e il pedissequo seguito a richiami di inconsistente benessere.
lunedì 30 settembre 2013
mercoledì 11 settembre 2013
Il magico boom
I
tentativi del nostro Paese per uscire dalla crisi cominciamo ad evidenziare i
nodi scorsoi che si stringono intorno al collo della nostra economia. In tutti
i Paesi dell’Unione gli indicatori macroeconomici stanno prendendo la rincorsa per una decisa
ripresa, mentre da noi si stenta a prendere la direzione corretta. Fino a
quando il male era comune il gaudio era quello di sapere che eravamo in
compagnia. Oggi rischiamo di rimanere soli. Eppure le cause della nostra
debolezza e scarsa capacità di competere sono risapute e riconosciute: scarsa
innovazione, nanismo aziendale, tendenza alla frammentazione, bassa propensione
ad investimenti di lungo periodo, incapacità a creare e consolidare competenze.
Le origini di questi grandi impedimenti vanno ricercate in tempi lontani quando
la nostra economia fece boom e milioni di persone poterono assaporare il
benessere e la soddisfazione di avere creato qualche cosa dal nulla. Anche se
ogni tanto qualche miliardario con velleità di politico cerca di farci credere
che sia possibile tornare a quel periodo magico, sarebbe opportuno fare qualche
riflessione. In quel contesto apparentemente benevolo e propizio, lo Stato non
fece la sua parte, proprio come oggi, dove la latitanza delle istituzioni su
molti segmenti della nostra realtà economico sociale è sempre molto sentita. In
quegli anni l’economia e la capacità produttiva crebbero a dismisura. Ma non fu
un bene perché i benefici ebbero scarsa possibilità di produrre effetti a lungo
termine. Era una crescita senza controlli e senza regole. A chi ci
governava allora andava bene così: c’era piena occupazione e questo impediva il
disagio sociale e i tentativi di sommossa dormivano sotto la cenere; in
ossequio alla morale cattolica l’integrità della famiglia era preservata grazie
soprattutto al proliferare di aziende a carattere famigliare, un fenomeno
talmente diffuso da impedire, negli anni successivi, la costituzione di un
tessuto produttivo organico. Eravamo
affamati di crescita. Questo ha tollerato scempi paesaggistici che tuttora
feriscono la dignità del nostro Paese. Il ricordo della povertà e del disagio
era ancora troppo fresco per proporre modelli di sviluppo maggiormente inclini
alla solidarietà e alla condivisione. Furono realizzate grandi opere, ma solo
per favorire modelli di crescita basata sulla individualità come autostrade e
strade, trascurando e mandando in rovina quello che di buono esisteva già come
le ferrovie locali e i sistemi di trasporto merci su rotaia. Dalla fine degli anni
’50 fin verso la metà degli anni ’60 il nostro prodotto interno lordo cresceva
a dismisura e questo faceva dormire sonni tranquillo alle istituzioni, troppo
tranquilli. Si produceva, si guadagnava e quello che si produceva andava
comprato. Il circolo era apparentemente virtuoso per andarlo a modificare,
magari riducendo le possibilità di spesa con politiche fiscali di riequilibrio.
La scelta è stata quella di tollerare evasione ed elusione. Adesso si cerca di
correre ai ripari. Non che lo Stato stette semplicemente a guardare
compiaciuto: più colpevolmente fece molto poco per prevenire le conseguenze che
inevitabilmente sarebbero intervenute al termine del “boom”. Ebbe timore di
toccare quel prodigioso meccanismo che in modo del tutto casuale si era messo
in moto per un’eccezionale spinta dal basso e che se si fosse inceppato nessuno
sarebbe stato capace di fare ripartire. Scarsa capacità di prevedere il futuro, poca
immaginazione, una innata propensione e ridurre i problemi per la loro portata
e a procrastinare le decisioni. Esattamente come in tempi attuali le
istituzioni non sono state in grado di comprendere il fenomeno della crisi,
soprattutto per le conseguenza strutturali che è destinata a lasciare sul
nostro sistema. La ripresa non potrà più passare per le attività produttive dei
“distretti” onore e vanto della nostra economia degli anni passati. Le
dimensioni della competizione globale ce lo impediscono. E non è solo una
questione di costo della manodopera e di mancanza di infrastrutture. Basta
guardare le nostre scelte di consumatori che premiamo le aziende globalizzate perché
offrono un valore riconoscibile costante nel tempo. Nel passato non si è fatto
a sufficienza per investire verso sistemi di distribuzione di merci e servizi efficienti,
moderni, concepiti sulla beneficio per l’acquirente finale, ma si è spesso
indugiato su sistemi di accrescimento della catena per favorire un numero
irragionevole di intermediari. Si sono tutelate, spesse volte con un tornaconto
elettorale, categorie professionali per garantire rendite lucrose senza proteggere il fruitore finale dei servizi.
Tutto
questo in ragione di un magico e misterioso tocco di re Mida che aveva tirato
fuori dalla miseria un Paese con quasi 50 milioni di persone che combattevano
con la miseria, l’arretratezza e la mancanza di un ruolo di prestigio in
Europa.
Oggi
le cose non sono diverse. L’incapacità che i Governi, a partire da quello
guidato da Berlusconi, hanno evidenziato nell'errata lettura dei dati dell’economia
reale, il malcontento che cresceva sono lo specchio dell’atteggiamento dello
Stato di 50 anni fa.
Adesso,
per rimanere in tema di boom, c’è anche chi pensa a candidare l’Italia per le
Olimpiadi del 2024, giusto per rinverdire i fasti dei giochi di Roma del 1960. Da
come stanno litigando Milano e Roma sembrerebbe proprio che qualcuno ci crede
veramente. Ed è questo che preoccupa.
mercoledì 4 settembre 2013
Noblesse oblige
Passate le feste ci si dimentica velocemente degli inganni denunciati da scontrini esosi per quattro misere consumazioni al tavolino di un locale esclusivo. Ho volutamente aspettato qualche giorno prima di esprimere il mio punto di vista su vacanzieri colti da raptus di presenzialismo che si trovano loro malgrado buggerati e sbeffeggiati da quel mondo che tanto inutilmente perseguono. Ho voluto vedere quanto seguito potessero lasciare notizie così insulse e prive di valore e ho constatato che le polemiche e le proteste di qualche miliardario in via di redenzione sono ricordi agostani, completamente assorbiti dagli scontrini non meno esosi del supermercato che, nonostante gli aumenti, nessuno metterà mai in rete. Rimane solo la beffa, non dell'esborso sostenuto, ma per la magra figuraccia fatta mostrando al mondo un tentativo maldestro e impacciato di spacciarsi per quello che non si potrà mai essere: uomini di mondo. Nel frattempo mi è anche capitato di venire a conoscenza di quanto costasse il biglietto di prima classe sul viaggio inaugurale del Titanic: l'equivalente di più di 72 mila sterline di oggi. Una cifra considerevole se paragonata al passaggio in terza classe che prosciugava le tasche dei disperati in cerca di fortuna, ma che era comunque abbordabile. Eppure mi sembra che i vari Astor, Guggenheim e compagnia non abbiamo sollevato polemiche sull'esosità dell'esborso. Noblesse oblige, miei cari, anche se la nave va a fondo.
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