Anche se il Vesuvio non è ancora
esploso e le sue ceneri non hanno compiuto l’inevitabile catastrofe che tutti
si aspettano, un’altra cenere si è depositata su Napoli offuscando la
lucentezza di quell’oro che ha originato uno dei capolavori del nostro cinema e
una delle migliori prove di uno dei suoi maestri, Vittorio De Sica.
Nessun prologo avrebbe potuto
sintetizzare meglio lo spirito del film, che poi è quello della città dove è stato
girato, della sua gente: l’oro è la fede, la speranza, la pazienza e la
capacità di sopportazione che fanno di questo popolo un esempio, nel bene e nel
male, odiato ed invidiato in tutto il mondo. E i cinque episodi del film ne
descrivono magistralmente le virtù, i guizzi d’ingegno, le paure, le
meschinerie e i moti di orgoglio che portano ogni giorno il cuore di questa
città a vincere la perenne battaglia contro la miseria.
Il film è stato girato nel 1954,
un’epoca relativamente recente con alcuni attori tuttora viventi e ben
conosciuti, ma sufficientemente lunga per avere banalizzato il significato che
ha Napoli per l’Italia e il valore che avrebbe essere italiani senza Napoli.
Non saprei dire con quanta
certezza la Napoli dei primi anni del secondo dopoguerra coincida con quella di
oggi. Temo molto poco. La fede e la speranza, purtroppo, si sono assottigliate
negli animi come d’altra parte in buona parte di noi. Per il resto dell’Italia Napoli
è solo una città del Sud con tanti problemi. Anzi una fucina di problemi e chi
vive a Napoli il principale artefice dell’impossibilità del suo riscatto. Ma senza
la rinascita di Napoli non ci sarà mai la rinascita del nostro Paese. Chi lo
ama veramente (e disinteressatamente) ne è consapevole.
L’oro di Napoli è un film ad
episodi diretto da Vittorio De Sica nel 1954 tratto da una serie di racconti di
Giuseppe Marotta sceneggiati da Cesare Zavattini. Gli episodi sono cinque. Ognuno
riprende più aspetti dell’animo della città sottolineando con indovinate
combinazioni di situazioni e personaggi il pathos incombente. Gli episodi sono
tutti contraddistinti da un accadimento precedente o contestuale alla narrazione
e diventano il pretesto per dare libero sfogo all’atteggiamento del napoletano
davanti alla cattiva sorte. Sia che si tratti dell’insopportabile menage
familiare di Totò tiranneggiato dall’amico ospite sgradito da una decina di
anni, della scomparsa dell’anello di fidanzamento dal dito di Donna Sofia che
accende le brame di avidità dell’arido marito, del vizio malsano per il gioco
di un conte interdetto dalla moglie, della ragazzina innamorata del guappo che metterà
fine ai propri tormenti con un gesto scellerato e, in ultimo, la pervicacia del
nobile arrogante che se ne infischia delle vite altrui e che verrà ripagato con
la rara moneta del “pernacchio”, il film coglie le vibrazioni più intense del
fatalismo e della fede incrollabile degli abitanti di questa città, sia che
provengano dai più infimi tuguri dei quartieri popolari a dai ricchi palazzi animati
da una nutrita servitù asservita ai capricci di una nobiltà morbosa. Interpretato magistralmente da attori di
bravura eccelsa, complice anche una certa dose di vicinanza anagrafica alla
città partenopea, come Vittorio de Sica, Sofia Loren e Edoardo De Filippo, gli
episodi sono ormai annoverati come classici del cinema, ma soprattutto, quadri
animati di una città che ormai non sa più vivere se non attraverso la nostalgia
di se stessa.
In alcune versioni il film
presentava anche l’episodio del "funeralino", l’ultimo viaggio di un bambino
accompagnato dalla madre e dai compagni di scuola. Esigenze di spettacolo non
ammettevano una parentesi così drammatica in un film che, a tutti gli effetti,
avrebbe dovuto essere un film di evasione. E’ una perla, una trovata geniale
del regista che ha saputo rappresentare con delicatezza il senso più assoluto
della fede e della speranza. Forse il momento che dona, allo spettatore più sensibile,
una percezione di pace e beatitudine. Il contegno della madre che sbriga con il
piglio pratico della donna di casa le incombenze del trasporto della piccola
bara, della sua disposizione sul carro funebre, il controllo sulla compostezza
del corteo, l’organizzazione del tragitto e del rito del lancio dei confetti
bianchi, il suo tormento e il pianto che a stento trattiene. Il tutto assecondato
dal solo rumore degli zoccoli dei cavalli che attraversano le strade ancora
poco trafficate della città e dalla magnifica recitazione di Teresa De Vita (per
la cronaca mancata solo pochi giorni fa) che ha saputo trasmettere all’immagine
del dolore di una madre un’intensa, unica e commovente rappresentazione.
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