giovedì 17 gennaio 2013

A Napoli l'oro non brilla più


Anche se il Vesuvio non è ancora esploso e le sue ceneri non hanno compiuto l’inevitabile catastrofe che tutti si aspettano, un’altra cenere si è depositata su Napoli offuscando la lucentezza di quell’oro che ha originato uno dei capolavori del nostro cinema e una delle migliori prove di uno dei suoi maestri, Vittorio De Sica.
Nessun prologo avrebbe potuto sintetizzare meglio lo spirito del film, che poi è quello della città dove è stato girato, della sua gente: l’oro è la fede, la speranza, la pazienza e la capacità di sopportazione che fanno di questo popolo un esempio, nel bene e nel male, odiato ed invidiato in tutto il mondo. E i cinque episodi del film ne descrivono magistralmente le virtù, i guizzi d’ingegno, le paure, le meschinerie e i moti di orgoglio che portano ogni giorno il cuore di questa città a vincere la perenne battaglia contro la miseria.
Il film è stato girato nel 1954, un’epoca relativamente recente con alcuni attori tuttora viventi e ben conosciuti, ma sufficientemente lunga per avere banalizzato il significato che ha Napoli per l’Italia e il valore che avrebbe essere italiani senza Napoli.
Non saprei dire con quanta certezza la Napoli dei primi anni del secondo dopoguerra coincida con quella di oggi. Temo molto poco. La fede e la speranza, purtroppo, si sono assottigliate negli animi come d’altra parte in buona parte di noi. Per il resto dell’Italia Napoli è solo una città del Sud con tanti problemi. Anzi una fucina di problemi e chi vive a Napoli il principale artefice dell’impossibilità del suo riscatto. Ma senza la rinascita di Napoli non ci sarà mai la rinascita del nostro Paese. Chi lo ama veramente (e disinteressatamente) ne è consapevole.
L’oro di Napoli è un film ad episodi diretto da Vittorio De Sica nel 1954 tratto da una serie di racconti di Giuseppe Marotta sceneggiati da Cesare Zavattini. Gli episodi sono cinque. Ognuno riprende più aspetti dell’animo della città sottolineando con indovinate combinazioni di situazioni e personaggi il pathos incombente. Gli episodi sono tutti contraddistinti da un accadimento precedente o contestuale alla narrazione e diventano il pretesto per dare libero sfogo all’atteggiamento del napoletano davanti alla cattiva sorte. Sia che si tratti dell’insopportabile menage familiare di Totò tiranneggiato dall’amico ospite sgradito da una decina di anni, della scomparsa dell’anello di fidanzamento dal dito di Donna Sofia che accende le brame di avidità dell’arido marito, del vizio malsano per il gioco di un conte interdetto dalla moglie,  della ragazzina innamorata del guappo che metterà fine ai propri tormenti con un gesto scellerato e, in ultimo, la pervicacia del nobile arrogante che se ne infischia delle vite altrui e che verrà ripagato con la rara moneta del “pernacchio”, il film coglie le vibrazioni più intense del fatalismo e della fede incrollabile degli abitanti di questa città, sia che provengano dai più infimi tuguri dei quartieri popolari a dai ricchi palazzi animati da una nutrita servitù asservita ai capricci di una nobiltà morbosa.  Interpretato magistralmente da attori di bravura eccelsa, complice anche una certa dose di vicinanza anagrafica alla città partenopea, come Vittorio de Sica, Sofia Loren e Edoardo De Filippo, gli episodi sono ormai annoverati come classici del cinema, ma soprattutto, quadri animati di una città che ormai non sa più vivere se non attraverso la nostalgia di se stessa.
In alcune versioni il film presentava anche l’episodio del "funeralino", l’ultimo viaggio di un bambino accompagnato dalla madre e dai compagni di scuola. Esigenze di spettacolo non ammettevano una parentesi così drammatica in un film che, a tutti gli effetti, avrebbe dovuto essere un film di evasione. E’ una perla, una trovata geniale del regista che ha saputo rappresentare con delicatezza il senso più assoluto della fede e della speranza. Forse il momento che dona, allo spettatore più sensibile, una percezione di pace e beatitudine. Il contegno della madre che sbriga con il piglio pratico della donna di casa le incombenze del trasporto della piccola bara, della sua disposizione sul carro funebre, il controllo sulla compostezza del corteo, l’organizzazione del tragitto e del rito del lancio dei confetti bianchi, il suo tormento e il pianto che a stento trattiene. Il tutto assecondato dal solo rumore degli zoccoli dei cavalli che attraversano le strade ancora poco trafficate della città e dalla magnifica recitazione di Teresa De Vita (per la cronaca mancata solo pochi giorni fa) che ha saputo trasmettere all’immagine del dolore di una madre un’intensa, unica e commovente rappresentazione. 

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