mercoledì 30 gennaio 2013

La logica leghista per punti

La logica leghista per punti:


  1. Celebrare i riti celtici (sempre ammesso che si sappia che cosa siamo) pensando che tutto alla fine consista sempre e solo nel mangiare salsicce, polenta, bere birra e ruttare sghignazzando;
  2. Odiare i meridionali, i negri, gli immigrati dimenticando di esserlo stati una generazione prima;
  3. Odiare tutto quello che e' italiano, soprattutto le automobili Fiat perché gli Agnelli facevano gli imprenditori con i soldi dello stato e allora comprano quelle tedesche e poi odiano la Merkel che gli toglie la sovranità;
  4. Detestare tutto quello che viene fatto per il bene comune perché poi bisogna pagare anche per i negri e gli zingari. Dimenticando che non sono immortali anche perché la dieta celtica (vedi punto 1) non lascia indenni da disturbi;
  5. Augurare la morte della Montalcini per poi cagarsi addosso appena hanno un brutto male;
  6. Disdegnare il servizi pubblico trasporti compresi, perché la lega lavora e va in macchina (vedi punto 3) e anzi vorrebbe andare più forte perché le automobili di adesso con i freni che hanno altro che limiti a 130, invece in Germania (vedi punto 3);
  7. Odiare Napoli con tutte le forze e fare tutto per dichiararlo al mondo con cori da stadio e invocazioni al Vesuvio. Salvo poi cantare funiculì, funiculà con l'animatore del villaggio vacanze a Santo Domingo (perché il leghista non fa le vacanze in Italia anche se vola low cost dal terminal 2 di Malpensa, quello vecchio);
  8. Orripilare di fronte alla politica romana, spostare i ministeri al nord per poi cambiare idea quando si scopre che a Roma ci sono più soldi che a Monza;
  9. Fuggire di fronte al più lieve accenno di speculazione logica, artistica o culturale. Il leghista è pratico e non si perde dietro a stronzate. Deve lavorare anche se non ha capito bene per cosa;
  10. Dire sempre che se ci fosse la lega le cose andrebbero meglio per poi non capire neppure quali sono le cose che vanno male. Così i leghisti del futuro potranno sempre lamentarsi e perpetrare la stirpe.



Cosa ci manca per essere felici?

La decrescita c'è. E' già qui. Che cosa aspettiamo ad essere felici?
Forse perché chi parla di crisi continua a crearci illusioni che dopo che sarà finita tutto tornerà come prima. No, dimenticatelo! E' una scusa. E' solo un pretesto per rabbonirci.. Se lo si vuole, la crisi è superabile anche adesso; è solo uno stato mentale. 
E' vero che abbiamo imparato a rinunciare al superfluo, a diminuire i ritmi di consumo, di spesa? Si, ce lo continuano a ribadire le statistiche. Non abbiamo acquisito maggiore consapevolezza di quello che ci serve veramente per vivere? Si; ce lo raccontano sociologi. economisti, vip e meno vip convertiti dell'ultima ora. Allora cosa aspettiamo ad essere felici? Certo c'è chi ha dovuto, suo malgrado, rinunciare a tutto e non solo al superfluo; senza casa, senza lavoro, senza un futuro è sciocco pensare di consolarsi con la decrescita. Ma poniamoci un'altra domanda: non è forse vero che troppa ricchezza crea troppi squilibri che poi portano alla grave situazione che stiamo vivendo? Alla luce dell'ennesimo scandalo finanziario che ha messo nuovamente a nudo il sistema malsano che governa l'economia italiana, nessuno dei candidati in lizza ha svelato il velo sulla vera matrice del nostro malessere: il sistema di produzione e consumo che si vuole con ottusa ostinazione rimodellare secondo criteri che non sono in nessun caso più sostenibili. Il modello di produzione interna  di beni destinati al mercato nazionale, non ha più ragione di essere. Con buona pace dei sindacati che non si sono accorti che la folla che li accompagnava nelle loro rimostranze è ormai sparita. Alle loro spalle solo vie e piazze deserte. Ma anche per colpa dello Stato, che non vanta una fedina penale immacolata per quanto riguarda la dolosa accettazione di situazioni di degrado industriale mai sanate. La vicenda Ilva insegna molto a questo proposito. L'inoperosa sorveglianza delle istituzioni che non hanno tutelato sulla salute e sulla sicurezza di lavoratori e cittadinanza ha contribuito a rimpinguare le tasche di un certo tipo di imprenditori del tutto irresponsabili e facili alla veloce via di fuga di fronte alla responsabilità. E' inutile parlare di omicidio della siderurgia italiana: la Ilva operava sul mercato internazionale beneficiando della tacita approvazione dello Stato. Se si  fosse intervenuti prima con i provvedimenti volti a sanare i rischi per i lavoratori e la cittadinanza oggi la stessa azienda avrebbe avuto un destino diverso. Ma la storia non è diversa per la Eternit, per  la Thyssen, per l'inquinamento delle città e per la dissennata gestione dei rifiuti tossici che viene fatta in Italia. Complice la criminalità organizzata anch'essa libera di prosperare sulle smagliature e sulle inefficienza dello Stato. 
Il nostro disagio di oggi sarà il bene del Paese domani. Consumiamo di meno e produrremo meno scarti inutili da smaltire togliendo fette di business maleodorante alle cosche campane. Usiamo meno l'automobile per tagliere i lucrosi profitti delle compagnie petrolifere e ridurre il traffico di petroliere negli oceani e forse anche il numero di guerre. Ma pretendiamo anche di più sferzando chi governa a volgere la testa verso le risposte che il paese invoca: per il lavoro, per l'integrazione, per l'ambiente e per la serenità degli anni che verranno. La campagna elettorale in corso sta nuovamente sprecando l'occasione per cavalcare lo stato di disagio sociale nel modo corretto. Non c'è stato un candidato che abbia guardato al di là del problema immediato o dell'ennesimo scandalo. Nessuno sa sognare, tutti sanno solo incupirci con i nostri peggiori incubi.  

mercoledì 23 gennaio 2013

Il ciclo evolutivo



E' singolare osservare come la bicicletta stia diventando un oggetto di investimenti in sviluppo al fine trasformarla in un oggetto di desideri consumistici. Con l’obiettivo, ovviamente, di spingere le vendite e acquisire nuove fette di clientela. 
Eravamo abituati a trovare la differenziazione nell'automobile. Dapprima con la velocità e le prestazioni, poi con i consumi, la sicurezza e da un po' di tempo il rispetto dell'ambiente. La stessa sorte sta toccando adesso alla bicicletta. Fino a poco tempo fa l'evoluzione tecnologica riguardava il mezzo a pedali solo nelle sue valenze agonistiche laddove l'alta tecnologia trovava applicazione solo in modelli destinati alle performance sportive, ma non in quelli destinati all'uso quotidiano. 
E sono quasi tutti ritrovati volti alla sicurezza del ciclista, segno che il ricorso alla bicicletta per il trasporto quotidiano sta crescendo su scala planetaria. Le ultime due invenzioni, a tale riguardo, sono una vernice dalla particolare proprietà che permetta alla bici di illuminarsi durante la notte senza l’ausilio di batterie o altre fonti di energie. Fosforescente, diremmo noi che non siamo avvezzi al linguaggio scientifico. L’altra trovata interessante è un dispositivo che applicato sul retro della bicicletta, oltre a fungere da luce per la circolazione, proietta sulla strada tramite un sistema a led, due righe rosse che simulano un’immaginaria pista ciclabile, con tanto di pittogramma d'ordinanza, mettendo in stato di allerta l’automobilista distratto. In attesa delle piste ciclabili vere, meglio che niente.  

giovedì 17 gennaio 2013

A Napoli l'oro non brilla più


Anche se il Vesuvio non è ancora esploso e le sue ceneri non hanno compiuto l’inevitabile catastrofe che tutti si aspettano, un’altra cenere si è depositata su Napoli offuscando la lucentezza di quell’oro che ha originato uno dei capolavori del nostro cinema e una delle migliori prove di uno dei suoi maestri, Vittorio De Sica.
Nessun prologo avrebbe potuto sintetizzare meglio lo spirito del film, che poi è quello della città dove è stato girato, della sua gente: l’oro è la fede, la speranza, la pazienza e la capacità di sopportazione che fanno di questo popolo un esempio, nel bene e nel male, odiato ed invidiato in tutto il mondo. E i cinque episodi del film ne descrivono magistralmente le virtù, i guizzi d’ingegno, le paure, le meschinerie e i moti di orgoglio che portano ogni giorno il cuore di questa città a vincere la perenne battaglia contro la miseria.
Il film è stato girato nel 1954, un’epoca relativamente recente con alcuni attori tuttora viventi e ben conosciuti, ma sufficientemente lunga per avere banalizzato il significato che ha Napoli per l’Italia e il valore che avrebbe essere italiani senza Napoli.
Non saprei dire con quanta certezza la Napoli dei primi anni del secondo dopoguerra coincida con quella di oggi. Temo molto poco. La fede e la speranza, purtroppo, si sono assottigliate negli animi come d’altra parte in buona parte di noi. Per il resto dell’Italia Napoli è solo una città del Sud con tanti problemi. Anzi una fucina di problemi e chi vive a Napoli il principale artefice dell’impossibilità del suo riscatto. Ma senza la rinascita di Napoli non ci sarà mai la rinascita del nostro Paese. Chi lo ama veramente (e disinteressatamente) ne è consapevole.
L’oro di Napoli è un film ad episodi diretto da Vittorio De Sica nel 1954 tratto da una serie di racconti di Giuseppe Marotta sceneggiati da Cesare Zavattini. Gli episodi sono cinque. Ognuno riprende più aspetti dell’animo della città sottolineando con indovinate combinazioni di situazioni e personaggi il pathos incombente. Gli episodi sono tutti contraddistinti da un accadimento precedente o contestuale alla narrazione e diventano il pretesto per dare libero sfogo all’atteggiamento del napoletano davanti alla cattiva sorte. Sia che si tratti dell’insopportabile menage familiare di Totò tiranneggiato dall’amico ospite sgradito da una decina di anni, della scomparsa dell’anello di fidanzamento dal dito di Donna Sofia che accende le brame di avidità dell’arido marito, del vizio malsano per il gioco di un conte interdetto dalla moglie,  della ragazzina innamorata del guappo che metterà fine ai propri tormenti con un gesto scellerato e, in ultimo, la pervicacia del nobile arrogante che se ne infischia delle vite altrui e che verrà ripagato con la rara moneta del “pernacchio”, il film coglie le vibrazioni più intense del fatalismo e della fede incrollabile degli abitanti di questa città, sia che provengano dai più infimi tuguri dei quartieri popolari a dai ricchi palazzi animati da una nutrita servitù asservita ai capricci di una nobiltà morbosa.  Interpretato magistralmente da attori di bravura eccelsa, complice anche una certa dose di vicinanza anagrafica alla città partenopea, come Vittorio de Sica, Sofia Loren e Edoardo De Filippo, gli episodi sono ormai annoverati come classici del cinema, ma soprattutto, quadri animati di una città che ormai non sa più vivere se non attraverso la nostalgia di se stessa.
In alcune versioni il film presentava anche l’episodio del "funeralino", l’ultimo viaggio di un bambino accompagnato dalla madre e dai compagni di scuola. Esigenze di spettacolo non ammettevano una parentesi così drammatica in un film che, a tutti gli effetti, avrebbe dovuto essere un film di evasione. E’ una perla, una trovata geniale del regista che ha saputo rappresentare con delicatezza il senso più assoluto della fede e della speranza. Forse il momento che dona, allo spettatore più sensibile, una percezione di pace e beatitudine. Il contegno della madre che sbriga con il piglio pratico della donna di casa le incombenze del trasporto della piccola bara, della sua disposizione sul carro funebre, il controllo sulla compostezza del corteo, l’organizzazione del tragitto e del rito del lancio dei confetti bianchi, il suo tormento e il pianto che a stento trattiene. Il tutto assecondato dal solo rumore degli zoccoli dei cavalli che attraversano le strade ancora poco trafficate della città e dalla magnifica recitazione di Teresa De Vita (per la cronaca mancata solo pochi giorni fa) che ha saputo trasmettere all’immagine del dolore di una madre un’intensa, unica e commovente rappresentazione. 

sabato 5 gennaio 2013

Mi sento vicino a tutti i sacerdoti che dai pulpiti delle parrocchie diffondono e difendono la parola di Cristo, sempre, anche contro le ingerenze della Chiesa, quando con la sua ortodossia e la sua limitata sensibilità verso i tempi che cambiano, non favorisce la comprensione delle parole della gioia, della speranza e della vita.
"Pensate a quello che piace a Cristo" dice don Luigi, sacerdote di missione, con tanti anni d'Africa e di orrori  invitando a trascurare quello che pontifica la Chiesa sui gay, sulle loro unioni, sul matrimonio dei preti, sulla procreazione assistita e sulle tribolazioni che contraddistinguono il rapporto tra lo Stato e la Chiesa.  Pensate a quello che dice e ha predicato Gesù. Pensate da cristiani, non da gente di Chiesa. 
Non è facile, ma è possibile. La vita di Don Luigi, il suo coraggio e la sua percezione del giusto ne sono la riprova.