martedì 25 gennaio 2011

L'americano che voleva battere l'Everest


Riprendiamo le nostre avventure letterarie puntando nella direzione opposta alla nostra abituale. Questa volta si va ad Est, nel cuore dell’altopiano del Tibet, e la macchina del tempo ci porta al 1948, gli anni dell’irresistibile avanzata delle truppe della Cina comunista e della disperata resistenza dell’esercito nazionalista che ebbe tra gli scenari imponenti e sconvolgenti dell’Asia Centrale, una delle fasi più epiche, ma poco conosciute di quei fatti. Un intraprendente esploratore americano, Leonard Clark, sfruttando la sua influenza di agente governativo riesce a mettersi al seguito di una spedizione voluta dal potente Ma Pu Fang, comandante delle armate anticomuniste dislocate nell’Asia Centrale e intenzionato a sconfiggere le truppe del Generale Lin Piao creando un inedito asse tra i feroci guerrieri tibetani e i fanatici combattenti islamici padroni dei territori che dall’est della Turchia si estendono fino alle propaggini dell’estremo Oriente. Un’alleanza foriera di nefasti risvolti alla luce dei fatti odierni nei medesimi teatri di guerra che tengono oggi impegnati gli stessi attori alle prese con copioni assai diversi. Ma la politica e le strategie sembrano interessare poco all’impudente americano; il suo vero obiettivo è l’esplorazione della mitica catena dell’Amne Machin, allora quasi sconosciuta e portata alla ribalta dell’interesse scientifico e geografico solo per la sventurata, ma fortuita, perdita di rotta di alcuni aviatori americani che durante la Seconda Guerra Mondiale avvistarono la catena riportandone la favolosa altitudine da fare impallidire l’Everest: più di 9.000 metri! La possibilità di essere il primo occidentale a potere rilevare l’effettiva altezza della fantomatica montagna inducono Clark a seguire la carovana militare condotta dall’astuto Colonnello Ma e diretta verso i territori settentrionali del Tibet, quasi alle porte della Mongolia. I diari di Clark sono essenziali, scritti con enorme sforzo di volontà alla luce di fioche lampade alimentate a burro di yak in fredde notti con temperature mediamente molto al di sotto dei 15 gradi. Raccontano di territori sterminati, della vita delle tribù nomadi e della perenne caccia al più debole per la sopravvivenza che allora era rappresentata dalle incursioni delle feroci bande di predoni ‘ngolok, popolazioni originarie del Tibet, la cui ferocia e efferatezza poco si concilia con l’immagine agiografica tutta santità e meditazione consumisticamente costruita oggigiorno intorno agli abitanti di quei luoghi. Ma grazie a Clark conosciamo anche i momenti più toccanti e umanamente significativi degli incontri in mezzo al deserto tra gruppi di uomini che si ritrovano per festeggiare un’amicizia, un incontro o un addio. O rimanere incantati di fronte allo spettacolo unico, potente e inquietante di una sterminata carovana di bestie, genti, merci ed armi che da un confine estremo dell’Asia all’altra attraversano le piste carovaniere per viaggi che potevano durare mesi o anni. L’Amne Machin alla fine è individuata, e sfidando le ire dei ‘ngolok locali che la considerano sacra e inaccessibile, misurata in lunga e in largo per confermare (sbagliando e di molto) l’altezza riportata dai piloti americani. Clark è oggi una figura ingiustamente dimenticata, ma le ragioni possono essere facilmente immaginate. Non è un vincitore e tantomeno l’uomo dei primati (la vera altezza della principale vetta dell’Amne Machin è intorno ai 6.600 metri). Dopo che i comunisti di Mao conquisteranno i territori dell’est, si vede costretto a scappare al seguito di Ma Pu Fang forse più attratto dal carico d’oro che questi si portava nella carlinga dell’aereo con il quale si rifugiava al Cairo che per reale solidarietà. Rimane tuttavia una figura eccezionale: un occidentale che sapeva trovarsi a proprio agio nelle scomode tende di feltro o nei goffi abiti di pelle di pecora, che sapeva dialogare e trattare diplomaticamente con le tribù più selvagge dell’altopiano del Tibet e che sapeva riconoscere nella saggezza dei compagni di viaggio, tra i quali il fedele interprete Dorje colto e raffinato diplomatico Mongolo, i veri numeri (102 per la religione buddista) insiti nella vita, nell’amicizia, nel destino e nella morte. Om mane padme hum.

Leonard CLARK (1975),Alle Porte della Mongolia, Garzanti

Nessun commento:

Posta un commento

L' America in bianco e bianco