Sto leggendo l'autobiografia di Suor Emmanuelle del Cairo, al secolo Madeleine Cinquin, la religiosa di origini franco-belghe che non esaurì mai, sebbene avesse sfiorato il secolo di vita, la propria sete di donarsi agli ultimi degli ultimi per dare a chi aveva perso ogni speranza di riscatto l’unica cosa in grado di risollevare un essere umano dall’infimo livello di miseria: la dignità.
Suor Emmanuelle, come Madre Teresa di Calcutta è l’emblema di come le paurose diseguaglianze che attanagliano il nostro pianeta, possano acquisire un corso più confortante grazie all’immensa forza di queste donne apparentemente fragili e disarmate, ma dotate di forza interiore e volontà ferrea che nasce solo dopo il sacrificio di tutto ciò che è superfluo per ottenere uno stato di libertà, puro, assoluto, domato solo dai confini rigidi della Regola che si è deciso di seguire.
Mi ha colpito Suor Emmanuelle, che per scelta decise di vivere
in mezzo alle montagne di spazzatura che costituivano l’unico mondo degli straccivendoli del Cairo, quando scrive nel suo libro “finalmente, vivo povera con i poveri e non sono più ignara degli affanni dei mortali. Faccio parte dell’immensa maggioranza dei miei fratelli umani condannati a una vita frugale e priva di comodità…”
Ecco lo spirito che guiderà il corso delle società evolute nei prossimi decenni, dopo la piena accettazione dei fallimenti del capitalismo e del consumismo: la consapevolezza diffusa di appartenere ad una casta costituita da pochi individui se confrontata con i miliardi di persone che lottano ogni giorno per vivere. Solo il tempo e la dedizione di chi non è assillato dal bisogno di sopravvivere sarà fonte di nutrimento per chi si dibatte nelle bidonville di tutto il Pianeta.
Il riconoscimento di Suor Emmanuelle di avere fatto voto di povertà, ma “di non averla veramente conosciuta nel senso biblico” se non quando decide di andarla a conoscere per potere “come Cristo partorire l’Amore”, relativizzata al nostro stato di credenti dovrebbe farci riflettere sulle nostre convinzioni di cristiani che si agitano negli affanni solo per ricercare i beni materiali che fungono da paravento alla povertà che non vogliamo vedere.
Suor Emmanuelle (2010), Confessioni di una religiosa, Jaca Book ISBN 978-88-16-30476-5
Attraverso le nostre scelte consapevoli è possibile diminuire i consumi per l'affermazione di un'economia sostenibile ed equa. Dai modelli di comportamento, ai trasporti e alle letture tutto è materia per un approfondimento che porti a discriminare tra l'utile e il vacuo, tra la sostanza e l'effimero, tra il modello virtuoso e il pedissequo seguito a richiami di inconsistente benessere.
giovedì 30 settembre 2010
giovedì 16 settembre 2010
Bambini e moda e i veri motivi per scandalizzarsi
Strano destino quello di essere bambini: da oggetto delle offese di chi dovrebbe mettersi al collo la macina da mulino fino a diventare soggetti in grado di scandalizzare un editorialista famoso come Antonio Scurati. Sicuramente il giornalista deve averne passate di immagini pubblicitarie di bambini e bambine in atteggiamenti divistici e sfrontati prima di scrivere il suo editoriale sulla Stampa dello scorso 11 Settembre. Ma si sa, i fanciulli, anche i più ricchi, viziati e smorfiosi sono anime candide, pure ed innocenti e i loro genitori liberi di fare ciò che pensano e ritengono opportuno per la prole.
Ma nel campo della moda l’uso scellerato della prima infanzia per scopi promozional come scrive Scurati, è solamente uno degli aspetti, forse il meno dannoso, dell’utilizzo commerciale che si tende a fare a scapito dell’età della spensieratezza.
Lasciamo dunque perdere quanto costa avere un figlio e allevarlo nella primissima età che è oggetto di minuziose ed accurati studi puntualmente aggiornati e divulgati; andiamo piuttosto a verificare quanto si spende per non avere i figli, tra i piedi, s’intende. La scusa che i genitori non possono dedicarsi ai figli come vorrebbero è ormai un frustro e abusato alibi. Non si spiegherebbero altrimenti le miriadi di offerte di vacanze dove è compreso nel prezzo l’affidamento dei piccoli cari ad improvvisati kinderheim di villaggi turistici, navi da crociera, spiagge, campeggi, parchi giochi ecc. Se proprio non si riesce a stare con i ragazzi in inverno perché disfarsene appena si va in vacanza?
E le milioni di baby sitter che ogni sabato sera vengono reclutate per accudire i bambini lasciati a casa dai genitori che escono a cena? Siete più riusciti a vedere un film decente il sabato sera? No, infatti. E’ impossibile perché il sabato sera ci sono solo film per bambini inframmezzati da messaggi pubblicitari rivolti ai piccoli, ovviamente, ma anche agli adolescenti, nel senso delle baby sitter. Il sabato sera è la prima volta della settimana che i piccoli potrebbero stare svegli con i grandi, ma il loro destino e quello che i grandi non li vedono neppure addormentati sul divano. Sono usciti.
E che dire dei corsi, sport, attività che ogni inverno i piccoli devono frequentare con assillante frequenza? E’ difficile sostenere che si tratta dell’unico modo per affidare i figli a strutture sicure quando si è impegnati: le famose mamme taxiste piene di energie e di risorse dei filmati pubblicitari, proprio perché guidano per ore in mezzo al traffico non lavorano. E allora perché non dedicano più tempo ai figli. A casa.
L'animo commerciale di intraprendenti insegnanti, discettori, istruttori, artisti e creativi di vario genere hanno scovato molteplici ricettacoli, a pagamento s’intende, dove è possibile affidare i propri figli per fare quello che vorrebbero fare a casa con il proprio padre e la propria madre insieme, possibilmente. E’ un fiorire stagionale di centri estivi, corsi di lingua, di musica, avviamenti allo sport, gare, gite, corsi che stimoleranno certo i ragazzi, ma li destinano ad essere inesorabilmente soli ed in balia di loro stessi. Troppo piccoli per essere responsabili.
Afferma Scurati che i bambini oggi vengono manipolati dall’industria della moda. Sì, è vero,ma la moda per i bambini esiste da sempre. Da piccolo sognavo i mocassini neri di vernice, ma il piccolo modello che le indossava sulla rivista di moda di mia madre era un bambino vestito da bambino, con la faccia da bambino e che dopo la foto del servizio fotografico è tornato a fare il bambino.
I bambini che orripilano Scurati sono i bambini aggressivi vestiti da piccoli trafficanti di coca e le bambine vestite come le loro donne. Modelli inverosimili perchè nessun bambino sogna di essere come loro.Sono i genitori che vengono manipolati attraverso l'immagine ammiccante e indecente di piccoli teppisti impudenti e questo uso, se pemettete, è veramente scandaloso, osceno.
La pubblicità, denuncia Scurati, calca la mano nel periodi di ripresa della scuola. Soprattutto quest’anno dopo i ridicoli spauracchi della Gelmini sul ritorno massiccio del grembiule dei tempi che furono e la completa riabilitazione delle capacità dell’abito di santificare il monaco. Non c’era bisogno di scomodare la psicologia per comprendere quanto senso di colpa ci sia dietro lo sperpero di denaro per acquistare degli stracci griffati buoni solo per qualche mese di stagione fredda. Da che mondo è momdo i genitori hanno sempre ovviato alle proprie manchevolezze coprendo i figli di attenzioni immeritate. I vizi nascono, in fondo, delle permissioni degli adulti alla prorompente e devastante voglia di un bambino di essere un bambino. Un bambino, appunto, non un piccolo adulto. E questo è il vero scandalo che dovrebbe portare il mondo della comunicazione pubblicitaria a vincolarsi alla macina. La macina? Si certo le macine del mulino bianco, quelli della famiglia felice.
domenica 12 settembre 2010
Lungo le coste del Canada con Raban e Vancouver.
Un viaggio per mare, su una piccola barca a vela, inseguendo una grande impresa del passato alla scoperta di uno dei tratti di costa più tormentati del mondo. Ancora una volta grazie alla penna veloce e scattante di Jonathan Raban.
Jonathan Raban, autore di Bad Land di cui ho già parlato in un precedente post, ci propone il resoconto della sua navigazione a vela in solitario, da Seattle a Juneau, lungo il Passaggio Interno la rotta meno insidiosa per raggiungere, risalendo la costa occidentale del Nord America, le prime avvisaglie di terre alaskane.
Il Passaggio Interno, un dedalo di canali, isole e stretti tormentato da correnti di marea di facile prevedibilità, ma quasi sempre di pessimo umore, è la rotta relativamente più facile e sicura per risalire il Canada e anche la più ricca di storia, fenomeni naturali e tracce del passato prossimo delle popolazioni indigene per molti versi ormai dimenticato o banalizzato, ma ancora in grado di mostrare l'antico rapporto vitale con l'acqua e le sue misteriose creature abissali. Raban si lascia guidare dai diari del viaggio effettuato duecento anni prima da Vancouver, che su incarico dell’Ammiragliato Britannico si cimentò nella dettagliata rilevazione geografica di un mondo non più così nuovo (gli spagnoli contendevano agli inglesi con signorile ostilità il possesso di quelle terre), ma estremamente interessante fintantoché non avesse mostrato la definitiva chiusura di ogni passaggio verso est.
La narrazione di Raban, incisiva e suggestiva, si intreccia con le note malinconiche che ondeggiavano in capo al comandante della spedizione, ormai da tutti chiamato con disprezzo “Van” a cagione della sua origine olandese e della sua ancora più modesta origine di stato, ma soprattutto in ragione della sua totale assenza di trasporto verso il “sublime” che l’incrocio tra terra e mare di quei luoghi selvaggi rivelava ai giovani e nobili gentlemen imbarcati nella loro crociera d’iniziazione.
Anche Raban, inglese di nascita, trapiantato negli Stati Uniti, ci ripropone numerosi accostamenti con la terra d'origine, ma a distanza di secoli la Madre Patria perde l'immagine di quel Paese dai paesaggi ordinati e prevedibili che Vancouver nei suoi semplificati disegni di conquista, avrebbe traslato sulle coste Canadesi e diviene l'origine di misere e malinconiche vicende umane: prima tra tutte la dolorosa perdita del padre, ma anche la vecchia rock-star venerata in gioventù e incontrata ormai demente nel piccolo villaggio canadese, l'odio tra cattolici e protestanti che continua a propagarsi in sperduti approdi della Columbia Britannica, le vocali scozzesi rintracciate nella parlata dei nativi educati alle missioni degli evangelizzatori.
Un libro unico, toccante, scritto con l'odore di sentina e gasolio del piccolo ketch dell'autore e la puzza dei salmoni ammassati nel corso di una stagione di pesca particolarmente propizia, ma anche lasciati marcire nel canale di scolo di Juneau, l’avito corso d’acqua ormai troppo cementificato e verticalizzato per essere risalito per l'ultimo viaggio prima di morire.
Una piccola critica alla traduzione che evidenza notevoli carenze lessicali della traduzione che è caduta in imperdonabili sostituzioni di termini nautici con parole di natura cittadina e stradale. Ma questo non toglie l’emozione di uno dei più bei viaggi di carta che abbia mai fatto.
Jonathan Raban (2003), Passaggio in Alaska. Da Seattle a Juneau, Einaudi ISBN 88-06-16585-2
Jonathan Raban, autore di Bad Land di cui ho già parlato in un precedente post, ci propone il resoconto della sua navigazione a vela in solitario, da Seattle a Juneau, lungo il Passaggio Interno la rotta meno insidiosa per raggiungere, risalendo la costa occidentale del Nord America, le prime avvisaglie di terre alaskane.
Il Passaggio Interno, un dedalo di canali, isole e stretti tormentato da correnti di marea di facile prevedibilità, ma quasi sempre di pessimo umore, è la rotta relativamente più facile e sicura per risalire il Canada e anche la più ricca di storia, fenomeni naturali e tracce del passato prossimo delle popolazioni indigene per molti versi ormai dimenticato o banalizzato, ma ancora in grado di mostrare l'antico rapporto vitale con l'acqua e le sue misteriose creature abissali. Raban si lascia guidare dai diari del viaggio effettuato duecento anni prima da Vancouver, che su incarico dell’Ammiragliato Britannico si cimentò nella dettagliata rilevazione geografica di un mondo non più così nuovo (gli spagnoli contendevano agli inglesi con signorile ostilità il possesso di quelle terre), ma estremamente interessante fintantoché non avesse mostrato la definitiva chiusura di ogni passaggio verso est.
La narrazione di Raban, incisiva e suggestiva, si intreccia con le note malinconiche che ondeggiavano in capo al comandante della spedizione, ormai da tutti chiamato con disprezzo “Van” a cagione della sua origine olandese e della sua ancora più modesta origine di stato, ma soprattutto in ragione della sua totale assenza di trasporto verso il “sublime” che l’incrocio tra terra e mare di quei luoghi selvaggi rivelava ai giovani e nobili gentlemen imbarcati nella loro crociera d’iniziazione.
Anche Raban, inglese di nascita, trapiantato negli Stati Uniti, ci ripropone numerosi accostamenti con la terra d'origine, ma a distanza di secoli la Madre Patria perde l'immagine di quel Paese dai paesaggi ordinati e prevedibili che Vancouver nei suoi semplificati disegni di conquista, avrebbe traslato sulle coste Canadesi e diviene l'origine di misere e malinconiche vicende umane: prima tra tutte la dolorosa perdita del padre, ma anche la vecchia rock-star venerata in gioventù e incontrata ormai demente nel piccolo villaggio canadese, l'odio tra cattolici e protestanti che continua a propagarsi in sperduti approdi della Columbia Britannica, le vocali scozzesi rintracciate nella parlata dei nativi educati alle missioni degli evangelizzatori.
Un libro unico, toccante, scritto con l'odore di sentina e gasolio del piccolo ketch dell'autore e la puzza dei salmoni ammassati nel corso di una stagione di pesca particolarmente propizia, ma anche lasciati marcire nel canale di scolo di Juneau, l’avito corso d’acqua ormai troppo cementificato e verticalizzato per essere risalito per l'ultimo viaggio prima di morire.
Una piccola critica alla traduzione che evidenza notevoli carenze lessicali della traduzione che è caduta in imperdonabili sostituzioni di termini nautici con parole di natura cittadina e stradale. Ma questo non toglie l’emozione di uno dei più bei viaggi di carta che abbia mai fatto.
Jonathan Raban (2003), Passaggio in Alaska. Da Seattle a Juneau, Einaudi ISBN 88-06-16585-2
Oggi cucino io. Con le mie bambine.
Ho scoperto quanto è bello rinunciare ad andare al ristorante e starmene a casa a cucinare con le mie bambine.
Sebbene anche i pasti fuori casa inizino ad accusare i tempi di crisi e i ristoratori abbiano rinunciato a proseguire nell’incremento di prezzi ingiustificato partito qualche anno fa, per una famiglia media andare a cena fuori è ancora un onere elevato. Se fino a qualche tempo fa la pizzeria era il surrogato della cena al ristorante, dopo il passaggio all’euro semplificato dai pizzaioli con il semplice rapporto 1 a 1 (un migliaio di lire, un euro), anche la migrazione in massa al ristorante cinese sta cominciando a mostrare qualche segno di riflusso. Rimangono i Kebab che, salvo i provvedimenti restrittivi di qualche consigliere leghista in vena di censure, offrono ancora il gusto della cena stuzzicante a prezzi popolari.
Anche per me e la mia famiglia, le frequentazioni al ristorante si sono assottigliate, ma ho scoperto l’immenso piacere che si può trarre dal decidere con i propri figli di rompere la normale routine del pasto preparato a casa e trasformare la cena del sabato in una vera uscita al ristorante.
Nel nostro caso è stato facile perché la famiglia di mia moglie è di antiche tradizioni piemontesi e la preparazione dei cibi in casa ha sempre fatto parte del trasferimento per linea materna del bagaglio di ricette e segreti culinari. Questo ha comportato il fatto di avere due figlie che nonostante la tenera età, sono molto consapevoli di quello che mangiano, critiche nei confronti del cibo e desiderose di imparare in fretta.
Da parte mia c’è sempre stata la volontà di sperimentare cose nuove e di cucinare in modo decente giusto per togliermi dagli impacci e cavarmela da solo.
Abbiamo così deciso di cimentarci, almeno una volta alla settimana, nella nostra cena con nuove proposte gastronomiche, proprio come al ristorante, provvedendo anche alla parte coreografica della tavola e della sala. Qualche coppia di amici di vecchia data con figli disposta a prestarsi all’esperimento o qualche parente indulgente ed ecco che ci sono anche gli ospiti verso i quali è importante fare bella figura.
Il risultato è sempre molto positivo e divertente.Ed istruttivo per tutti. Anche per me.
Innanzitutto le ricette. Mica andiamo a cercare piatti complessi ed elaborati con ingredienti costosi e di difficile reperibilità. Usiamo solo quello che c’è in casa: avanzi, verdure,frutta, formaggini, uova, conserve. Al massimo qualche verdura di stagione che ci ispira e che troviamo al mercato il sabato mattina: zucche, cavoli, erbette, rape. Il bello sta nel trovare le formule e le alchimie giuste per trasformare il cibo di tutti i giorni in un piatto nuovo ogni volta. Io fornisco qualche spunto raccontando i piatti che ho visto preparare sotto il mio naso in una catena di self service presso il centro commerciale vicino all’ufficio. Le bambine provano, sperimentano, assaggiano. Cominciano a prendere le misure con le proprie decisioni e le proprie scelte decidendo di aggiungere un ingrediente sapendo che il risultato potrebbe non incontrare il palato degli ospiti.
Le bambine imparano anche a seguire un processo di lavoro stabilito a priori che parte dalla raccolta di tutti gli ingredienti e degli utensili, con l’assegnazione dei compiti e delle responsabilità, tipo non fare bruciare il soffritto o non mettere troppo sale nella pasta e termina nel calcolo dei tempi necessari per stabilire a che ora gli ospiti dovranno sedersi a tavola. Importanti sono gli ammonimenti sulle operazioni da non fare mai da sole e i controlli che la grande deve fare sulla piccola per evitare che combini disastri o che si faccia male.
Una volta a tavola le bambine raccontano agli ospiti come le pietanze sono state preparate e le fasi che le hanno coinvolte direttamente. Ammiccando ogni tanto al papà per fare intendere che condividiamo dei segreti che non riveleremo mai.
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