domenica 30 giugno 2013

L'America vista dal fiume.

Attraversare l’America e scrivere un libro non è proprio il massimo dell’originalità visto che la moda del diario di viaggio americano è una pratica diffusa da almeno tre secoli. Ma se chi attraversa il continente lo fa navigando, allora forse il diritto di scriverlo spetta sicuramente. Anche perché al momento non risultano altri tentativi simili. Andati a buon fine, perlomeno. Da oceano a oceano. Dall’Atlantico al Pacifico. Dalla baia dell’Hudson, sotto il traffico di Manhattan, alle foci del Columbia, nell’Oregon navigando attraverso il sistema fluviale e lacustre degli Stati Uniti percorrendo  solo un manciata di chilometri su strada per ovviare all’impraticabilità delle Montagne Rocciose. La fatidica catena, lo spartiacque, il “divide” che decide da quale parte andranno le gocce di pioggia che cadono su di esse: a sinistra, verso Ovest per percorrere il breve, ma tumultuoso tratto che le porterà verso il Pacifico o a sinistra per congiungersi all’incredibile sistema fluviale che gira intorno al Missouri, il vero fiume per gli americani, che attraverso chiuse, laghi artificiali, sbarramenti e rovine industriali mette in comunicazione le più importanti città degli stati centrali degli Stati Uniti con l’Oceano Atlantico.
La palma dell’impresa spetta ad uno scrittore che ha fatto del viaggio la propria ragione di vita. Dopo milioni di chilometri che lo hanno portato a conoscere ogni angolo recondito del proprio Paese, molto spesso seguendo le “strade blu”, l’equivalente delle provinciali che una volta, sulle vecchie cartine autostradali americane venivano tracciate proprio in quel colore. William Least Heat-Moon, lasciati da parte, questa volta, i tormenti privati, decide di partire su una piccola barca a chiglia piatta - Nikawa, cavallina di fiume in lingua nativa - per risalire per migliaia di chilometri i fiumi americani con il precipuo intento di arrivare dall’altra parte dei continente. Facile a dirsi, ma difficile spiegarlo a quelle diverse centinaia di persone che incontrerà nel corso della sua navigazione e accuratamente ritratti nel suo diario di bordo. Perché, tolta l’eccezionalità dell’impresa  e riconosciuta la tenacia dell’autore deciso a non sprecare un miglio di acqua navigabile, il bello di questo libro sono le descrizioni dei personaggi conosciuti durante l’incredibile viaggio. Uomini e donne, gestori di pub, contadini, addetti alle chiuse, vagabondi, uomini di legge decisi a fare rispettare le leggi sullo sfruttamento delle acque interne, ognuno ripreso in un contesto specifico, ma tutti uniti dalla forza evocativa che quel viaggio sapeva dare: dal suo punto di partenza, New York al suo punto di arrivo, il Pacifico che per molti americani dell’interno restano sempre dei miraggi irraggiungibili.
Anche Least Heat-Moon però non sfugge alla regola consolidata che stabilisce che ciò che giustifica un viaggio è seguire le orme di qualcuno che ha visitato quei luoghi in tempi remoti. E nel suo caso le anime ricorrenti sono quelle dei capitani dell’Esercito Americano Meriwether Lewis e William Clark mandati in avanscoperta agli inizi del XIX secolo per scoprire le origini dei grandi fiumi americani e iniziare a costruire quel grande sistema di vie d’acqua solcate da battelli leggendari che da San Louis portavano ricchezze, bellezze, vizi e alcool in tutti gli avanposti del West. Dagli stralci dei diari dei due militari le descrizioni dei luoghi rivisitati quasi due secoli dopo sono di una struggente bellezza. Anche i due rudi uomini d’armi capitolano di fronte agli spettacoli di gole, canyon e valli ammettendo la loro pochezza di narratori e auspicando la penna di un Salvator Rosa (un nostro connazionale, a malapena ricordato come eroe risorgimentale e ancora meno come scrittore).
Bellezze, che salvo alcuni tratti ben poco concedono al visitatore attuale. I genieri del Governo federale, in nome dello sfruttamento commerciale delle acque interne, navigazione, pascoli e, soprattutto, energia elettrica, non hanno dimostrato animo sensibile come i due militari. L’opera dell’uomo è sempre visibile per quanto riguarda alvei ristretti per aumentare la profondità, deviazioni, canalizzazioni, chiuse, dighe e canali. Un sistema efficiente che permette oggi un discreto ricorso alle vie d’acqua per finalità di trasporto commerciale anche grazie ad una ferrea regolamentazione degli afflussi delle acque per contenere i rischi di alluvioni o contrastare i periodi di magra.
Buona parte del viaggio si dipana lungo il tortuoso itinerario del Missouri, il fiume per definizione per chi è veramente americano. Al punto che molti lo considerano ancora più importante del Mississippi che ha strappato il primato di fiume più lungo degli Stati Uniti a danno del Missouri solo in ragione di una svista dei cartografi in merito alla effettiva attribuzione del primo tratto fluviale che in realtà sarebbe stato metodologicamente corretto attribuire al Missouri. Di certo l’errata attribuzione non ha tolto a Least Heat-Moon il fremito primordiale verso questo fiume e la volontà quasi ferrea di risalirlo quasi fino quasi alle sue sorgenti. Un libro che si legge con entusiasmo, lo stesso che ha mosso l’autore nel raggiungere il Pacifico, grazie a dialoghi secchi, costruiti con sagacia e ironia. Una continua rincorsa tra l’autore e i suoi compagni di viaggio, i “pilotis” del momento che si avvicendano nel corso del viaggio, ma che nella narrazione pare essere sempre la stessa persona. Di notevole impatto emotivo le perle di saggezza raccolte durante gli incontri. Una su tutte degne di nota (e di stimolo alla riflessione per molti):  nella lingua degli indiani d'America la parola inondazione non esiste. I fiumi hanno iniziato a straripare solo dopo l'arrivo dei bianchi. Prima seguivano solo il loro destino.

William LEAST HEAT-MOON (2000), Nikawa - Diario di Bordo di una Navigazione attraverso L'America, Einaudi - ISBN 88-06-15496-6

giovedì 20 giugno 2013

Tra orgoglio e abbandono: cronache di un viaggio abituale tra Lombardia e Piemonte

La ferita che ha lasciato lo sviluppo di Malpensa 2000, la “grande Malpensa” come imponeva la logica leghista allora imperante è ancora ben impressa nel territorio circostante, sventrato e svilito per assecondare un modello di sviluppo che, anche allora, non sarebbe risultato credibile.  Attraversare i comuni della lotta, quelli che scesero in piazza per protestare contro i carrelli degli aerei che sfioravano le antenne, Lonate Pozzolo, Ferno, Samarate, vuol dire passare in mezzo a rioni completamente abbandonati. Equamente abbandonati: case popolari, ville con piscine, casette con gli occhi chiusi con i mattoni in attesa di un riutilizzo che difficilmente si potrà fare. Visti i tempi e la cronica mancanza di pianificazione. Oggi i loro proprietari, indennizzati con moneta sonante, si sono trasferiti e agli aerei non ci pensano più. Ci viaggiano solamente, passando sopra altre case e altri tetti di gente meno fortunata di loro. Virando verso est, verso la sponda del Ticino oltrepassata la teoria di capannoni e uffici vuoti da sempre si passa sopra il fiume, l’unica anima bella rimasta in quest’angolo di orgoglio lumbard nel mondo, ormai solo immagine di un degrado senza fine.  In questi giorni di piena vederlo scorrere sotto il ponte di ferro di Galliate è come un soffio di ossigeno per un moribondo. Una riga verde smeraldo - perché se è vero che tutti i fiumi hanno un colore, il verde smeraldo è  il colore del Ticino - che passa sotto questa struttura del 1952, un tunnel che quando si attraversa, dà sempre l’idea che usciti dall'altra parte ci si possa ritrovare  a vivere il giorno della sua inaugurazione. In quegli anni verso i quali tutti vorremmo in fondo tornare, illusi che il tempo di allora si muovesse con il moto lento di un film in bianco e nero. Il ponte è la boccia di vetro con la ballerina immobile e la neve finta che le si agita intorno. Attraverso il vetro si vedono le stagioni: le piene, la neve sulle rive, la secca i bagnanti che affollano le anse e l’anima candida dagli occhi verde smeraldo che ogni estate pretende le sue vittime che, come tutti i fiumi, trattiene sul fondo, come a rivendicarne il pieno possesso. Il trofeo da esporre. Passo per Galliate e anche qui il ricordo degli anni del dopoguerra rivive. Con le sfide fra Varzi, illustre e notabile concittadino e Tazio Nuvolari, nato in una città del Mantovano gemellata con Galliate, città viscontea. Ma è solo un breve momento. Superato il centro della città, con le sue fortificazioni di stampo ottocentesco, il confine con l’Austria era a pochi metri, inizia a spandersi l’immonda concretezza dell’area industriale, un’onda sul bagnasciuga che, purtroppo, non si ritira mai. Un assurdità dei piani regolatori di anni di illusorio benessere, dove un paese di poche migliaia di anime riesce oggi ad avere due anche tre aree industriali, con l’intento dichiarato di coprire tutti e quattro i punti cardinali.
Nella campagna tra Novara e Vercelli, attraversata dal gioco reticolare dei canali irrigui che portano i nomi di uomini politici post-unitari che fecero l’Italia, ma soprattutto fecero grande il Piemonte, la cascina si staglia come una cattedrale gotica diroccata. In mezzo a quello spazio rimasto vuoto è ancora facile immaginarla solitaria in mezzo alla campagna. Con lentezza muovevano allora carri, bestie, biciclette, poi qualche motocicletta, qualche motofurgone, ma sempre nella direzione di quel centro di vita sperso in mezzo alle risaie e alla nebbia. Oggi ci passa l’autostrada, di fianco, un rudere rossastro che stona con le insegne della benzina e l’acciaio del guard-rail che le scorre vicino.
A Cameriano, sullo stradone, a metà paese si gira a sinistra e qui si che sembra di tornare agli anni 50’. Anche prima se non fosse per il monumento ai Sette Martiri della resistenza trucidati in mezzo alle rogge, è facile immaginare di tornare agli anni trenta. Il bar del paese serve acqua e menta e gli anziani seduti non sembrano oziosi come quelli dei bar cittadini. La padrona invita a giocare al tiro alla rana, dove vince chi riesce a centrare la bocca larga dell’anfibio con dischetti di ottone vecchi di decenni. D’inverno se si è fortunati può capitare di essere inviatati a cena dai cacciatori che svuotano i carnieri in questo posto d’altri tempi. Dopo il reticolo delle risaie, qualche cascina semi abbandonata si ritorna sullo stradone per Borgo Vercelli, altro esempio di politiche dementi che sono riuscite a trasformare un bell'esempio di urbanistica fluviale, caso raro per il Piemonte, dove le città voltano le spalle ai propri fiumi, in un polveroso ricettacolo di abbandono che colpisce indiscriminatamente capannoni costruiti e mai usati e architetture settecentesche.
Prima di Vercelli, nascosto tra una selva di cartelli gialli e neri che indicano le ansimanti attività superstiti dell’ennesima area industriale appare a malapena il cartello marrone che indica il percorso della via Francigena. E’ facile imbattersi in pellegrini turisti, in quasi tutti i mesi dell’anno. Persone normali: pensionati dall'aria giovanile, turisti stranieri con lo zaino che attraversano a piedi zone poco probabili per una passeggiata di meditazione: parcheggi, distributori di benzina, centri di logistica semivuoti. Ma dietro quel muro, si apre un sentiero di terra battuta che porta a Roma passando per monti, colline, laghi e boschi. Un sicura certezza per chi passa e prosegue nel suo itinerario di squallore. A sud di Vercelli, sulla strada di larghezza esagerata che attraversa le risaie un’altra area industriale, in forte espansione: ben due centri commerciali sorti nel giro di un amen. Con altrettante rotonde che ruotano attorno al nulla. Gareggeranno con l’abbandono che regna sovrano in questa parte di Piemonte funestata da centri commerciali e produttivi relitti di idee di espansione mal calcolata: concessionarie in stile azteco, un mega centro per l’artigianato che ha conosciuto solo i fabbri che hanno serrato i cancelli, ospedali allo sfascio, un ex orfanotrofio finito di costruire quando, ex lege, gli orfani sono stati cancellati dall'ordinamento, un manicomio in cerca di identità. Tutto nel giro di qualche centinaio di metri in linea d’aria. Unica nota di valore: è che qui Francis Lombardi, pioniere e asso dell’aviazione prima e carrozziere dopo, aveva i suoi stabilimenti che regalava sogni agli italiani del boom economico trasformando semplici utilitarie in semi-fuoriserie pretenziose. Oggi non se lo ricorda più nessuno.  

giovedì 6 giugno 2013

La vita e la memoria

Non suonino come un rimprovero le parole di Papa Francesco quando afferma che un uomo che muore di fame non fa notizia, mentre i dati dell'andamento finanziario diventano oggetto di interesse generale. La storia e l'Umanità non si sono mai fermati davanti al dolore del mondo; lo hanno giustificato con dati e fatti e spesse volte i dati coincidevano con i listini delle quotazioni di borsa. Siano invece, le sue parole, comprese come una pura verità alla quale non ci possiamo sottrarre, sia per aiutare quell'uomo che muore e tanto meno per modificare l'andamento delle contrattazioni di borsa. Accettiamolo e basta. Accettiamolo perché il nostro mondo è piccolo e non può arrivare a comprendere tutto il male dell'universo. Il nostro vivere, così come lo dipingiamo con la mente,  è riempito e svuotato costantemente delle cose buone che gradualmente vengono sostituite da cose meno buone, inutili vacue. Il lavoro è importante, la responsabilità ben riposta, l'attaccamento e l'impegno sono fondamentali per consolidare la propria posizione sociale e di censo, ma come suonerebbero adesso per chi ha dimenticato per otto ore, che beffardamente sono tante quante le ore di lavoro contrattualmente convenute, il figlio in un macchina diventata un forno? Nulla, meno di zero. E' come se scoprissimo, uscendo dai luccicanti uffici di una city che quell'uomo che muore accucciato sotto un portone è nostro padre. E noi ci siamo dimenticati di essere figli. Fino al momento in cui non lo avremo più.