giovedì 23 maggio 2013

Il marketing del tubo (di scappamento)


Le automobili prodotte negli ultimi anni si distinguono in due grandi categorie: quelle che mostrano il tubo di scappamento e quello che lo nascondono. I veicoli di basso cabotaggio, come utilitarie, macchine per famiglie, onesti mezzi di trasporto per chi all'auto non può rinunciare, il tubo di scarico lo occultano dietro il paraurti. Quelle grosse, potenti e cafone lo ostentano. Grosso, cromato, prepotente. Un simbolo di maschia potenza da esibire come i colori sgargianti che ornano il fondoschiena dei babbuini. Due, tre anche quattro in alcuni casi. Un’aberrazione che Luca Mercalli definisce una mostruosità come un uomo con due ani. Più che le motivazioni che portano a evidenziare la parte finale della combustione, che è poi l’origine di buona parte dei mali dei tempi nostri, bisognerebbe capire perché gli strateghi del marketing automobilistico abbiamo deciso di non mostrarlo più. In fondo l’auto ha sempre avuto il tubo di scappamento. E’ connaturato con essa, quasi una funzione sensoriale che le permette di funzionare, di fare rumore per farsi notare e di emettere scarichi nocivi per farsi sentire. Non si capisce per quale motivo sia improvvisamente sparito. Se si tratta di nascondere il fatto che non si vuole fare vedere che inquinano allora perché mostrare le vergogne di quelle che invece consumano di più e spesse volte senza motivo? Si vuole sottolineare l’atteggiamento remissivo e pacifico del suo utilizzatore che farebbe tutto per evitare di andare in giro a depositare la sua quota giornaliera di CO2, ma che tuttavia continua ad usare l’auto anche per fare tragitti da passeggiata balneare? Questo potrebbe essere un buon motivo. Come sempre il marketing riesce a trasformare le nostre deficienze in modelli virtuosi sempre a patto che si assecondino i modelli di consumo proposti. E’ oggettivamente difficile trovare delle argomentazioni ragionevoli. Io avrei fatto il contrario: nascondere la protuberanza velenosa di SUV, bolidi stradali et similia e fare pesare di meno le colpe a chi usa la macchina con coscienza e rispetto per gli altri. 

mercoledì 15 maggio 2013

Il difficile senso di una tragedia

Se può avere ancora senso tornare a parlare del gesto folle di Adam Kabobo, lo squilibrato che a colpi di spranga e piccone ha ucciso tre persone, sarebbe bene parlare di una persona che ha restituito il vero significato di questo dramma. Mi riferisco al direttore dell'Ospedale Niguarda che di fronte ai giornalisti ai quali comunicava l'ultimo ferale bollettino medico sulle condizioni del povero ragazzo di 21 anni, dopo un attimo di umano sbandamento, ha detto due parole che riverberano magnificamente  il pathos di questa tragedia: e' difficile. E' difficile, infatti, trovare un senso a quello che stava leggendo; è difficile per un medico giustificare le ragioni di una morte così, come è difficile per un padre giustificare la perdita di un figlio, per una comunità le ragioni della follia e della disperazione, per una città giustificare il disinteresse e l'ignavia. E' difficile, è oggettivamente difficile. Il solo vero atto di responsabilità è il silenzio di chi è sopravvissuto, il lavoro e l'impegno delle forze dell'ordine, dei giudici e degli operatori sociali che sapranno prevenire tragedie simili, le lacrime di un medico che ha fatto il possibile, ma oltre al dato clinico, non sa fornire spiegazioni. E' difficile, ma le lacrime e il dolore sincero del medico del Niguarda sono le cose più semplice da comprendere.

mercoledì 8 maggio 2013

Quando la pubblicità non aveva sensi di colpa


Ha fatto bene Silvio Saffirio a scrivere il suo libro sugli anni ruggenti della pubblicità. Una parentesi di storia felice che inizia verso la metà degli anni ’70 per chiudersi intorno alla metà degli anni ’90. Chi scrive è uno del mestiere. Nel senso che ha lavorato nel settore che conosce molto bene. La sua idea letteraria, dovendo semplificare, è stata questa: “perché non intervistare tutte quelle persone che hanno lavorato insieme a me, come soci, colleghi o concorrenti, che conosco molto bene, ma che non ho mai potuto conoscere per quello che pensano intimamente della pubblicità?”. Ne è uscito un lavoro molto interessante, soprattutto perché i solidali dell’autore erano, più che altro per ragioni anagrafiche, le menti creative che hanno fortemente contribuito alla nascita della comunicazione commerciale moderna. Parliamo di Emauele Pirella, Milka Pogliani, Maurizio D’Adda, Giampietro Vigorelli, Pasquale Barbella, Franco Moretti e altri esponenti di quel mondo che hanno lasciato un segno indelebile nel vissuto di molti prodotti e marche che magari oggi non esistono più, ma che continuano ad influenzare il nostro modo di parlare, di scrivere e di pensare. Rammarica che non abbia potuto essere schierato tra gli intervistati Enzo Baldoni (il libro è uscito dopo la sua scomparsa in Iraq) perché il suo punto di vista, a detta di molti degli intervistati, avrebbe potuto aggiungere ancora più significato alla lettura. Ma accontentiamoci anche del fatto che nel tempo intercorrente dal termine delle interviste alla stampa due importantissimi personaggi sono passati purtroppo a miglior vita: Emanuele Pirella che ha legato il suo nome ad alcune campagne storiche come quella del famoso sedere che invitava chi lo amava a seguirlo e Marco Mignani al quale penso potrà fare solamente piacere se verrà ricordato per i  suoi famosi 10 piani di morbidezza.
Ci sono alcuni elementi che saltano agli occhi e che descrivono bene il periodo: innanzitutto un fatto congiunturale dovuto alla calata in massa delle “major” anglosassoni della comunicazione che sono arrivate nel nostro Paese per sfruttare un mercato ancora immaturo e dalle fortissime potenzialità. Al traino dell’espansione in Italia di importanti corporation dell’alimentazione, delle bevande e dei beni semidurevoli sono arrivate importanti agenzie di comunicazione come Leo Burnett, J. Walter Thompson, Ogily&Mather, Young&Rubicam, Saatchi&Saatchi le quali, lungimiranti, si sono ben guardate da mandare manager scadenti a soggiornare per qualche anno nel Bel Paese, ma hanno smosso i cavalli di razza facilitando in seguito lo sviluppo di un fiorente periodo di creatività tipicamente italiana. Per la pubblicità italiana è stata una grande lezione per apprendere le tecniche e le modalità di lavoro delle grandi agenzie internazionali (che ancora oggi imperano in questo ambiente) alle quali hanno però unito un’inedita dose di immaginazione sofisticata, apparentemente leggera e ingenua, ma in grado di superare le reti molto fitte e infide della moralità dei tempi che spesso intralciava, con regolamenti assurdi, censure di vario tipo e cavilli burocratici di bizantina memoria la crescita di un sistema di comunicazione commerciale più aperto e libero. Non si dimentichi che il pubblico al quale si doveva fare riferimento era quello abituato ai siparietti di Carosello (tornato allegramente in auge in questi giorni) dove lo “sketch” con il volto conosciuto era totalmente svincolato dal prodotto che veniva poi evidenziato nella coda finale del filmato. Scelta non casuale o motivata da ragioni artistiche, ma in ossequio a vetusti regolamenti interni della Rai che impedivano, di fatto, ogni contaminazione del marchio all’interno della “reclame”.
Dal libro di Saffirio emerge anche la magia di una professione che allora nasceva veramente per caso e per pura combinazione. Sono eloquenti le testimonianze degli intervistati che raccontano gli sforzi per entrare nel mondo dell’editoria, ritenuto allora il vero paradiso della parola, della lettera, del pensiero che unisce la conoscenza all’arte, la volontà di apprendere alla capacità di divulgare. Tanti bei sogni sperperati nelle difficoltà di quegli anni: l’origine borghese e le scarse disponibilità economiche, le tentazioni dell’ideologia, i paradisi artificiali, la contestazione. Quasi tutti gli intervistati ammettono di essere stati, in fondo, dei falliti di successo. Ma il vaso di Pandora della pubblicità era ormai scoperchiato e la forte attrazione che il mondo della pubblicità eserciterà negli anni a venire su frotte di giovani dalle velleità creative ed immaginifiche farà scaturire dapprima un proliferare di agenzie molte volte improvvisate e affastellate che avrà come risultato un decadimento molto sensibile della qualità dei lavori e la netta sensazione che un momento magico sia definitivamente terminato. Si tenga presente, a riprova di questo, che la pubblicità italiana, per quanto ci possa piacere o essere piaciuta per le sue trovate, le immagini che ha evocato e i modi di dire che ha imposto, a livello internazionale non brilla certo per premi e riconoscimenti ricevuti. Ogni tanto portiamo a casa qualche cosa, ma capita di rado.
In ogni caso, gli anni ruggenti della pubblicità, nel piccolo del nostro mondo, ci sono stati. Con l’avvento delle televisioni commerciali e dei famigerati “spot” l’investimento delle aziende verso la pubblicità, soprattutto verso il canale televisivo, ha toccato vette molto elevate. E questa abbondanza di denaro che acquistava spazi di visibilità sul mezzo che ha fatto letteralmente impazzire gli italiani a partire dalla metà degli anni ’80, ha fatto la fortuna di molti pubblicitari, travisandone però spesso, i reali meriti. Infatti non va dimenticato che il successo di una campagna pubblicitaria per quanto intelligente, azzeccata e a passo con i tempi dovrà riconoscere il suo successo, e spesso il successo viene scambiato unicamente per quanto una pubblicità riesca a farsi ricordare, in ragione della potenza di fuoco alla quale ricorrerà. Insomma, per quanto banale, poco creativo e volgare, il messaggio pubblicitario ci sembrerà più riuscito di quello che vediamo meno. Ma si sa che la pubblicità non ha sensi di colpa.

Silvio SAFFIRIO (2010), Gli Anni Ruggenti della Pubblicità- I grandi creativi raccontano, Instar Libri - ISBN: 978-88-461-0110-5