giovedì 29 dicembre 2011

L'Italia che non sa ricordare

E’ innegabile che Pietro Germi si sia lasciato suggestionare da quel brandello di epopea della grande Recessione americana descritto magnificamente nel film “Furore” quando, nel 1950, diresse il “Cammino della Speranza” uscito esattamente 10 anni dopo il capolavoro di John Ford, ma è altrettanto vero che l’ispirazione al dramma rappresentato dalla pellicola attinse a piene mani dalla realtà dura e cruda del nostro Paese di quegli anni.
Il “Cammino della Speranza” è un film che la critica tende ad annoverare tra i contributi al neorealismo italiano anche se riprende solo in parte i tratti distintivi del genere. Salvo alcuni spunti di particolare valore “neorealistico” come l’incontro a Roma tra il ragazzino in bicicletta e la siciliana spaesata alla ricerca del marito, la vicenda è troppo romanzata, lineare e semplificata e non sempre brilla per coerenza cronologica. Gli attori sono carichi di pathos e mimica gestuale quasi avessero abbandonato la recitazione senza il sonoro il giorno prima. I personaggi di contorno, sebbene particolarmente azzeccati nei ruoli, restano guitti mestieranti senza particolare talento.
Suggestive e di particolare pregio sono le inquadrature iniziali con il gioco magistrale tra il bianco abbacinante degli edifici della zolfatara ottocentesca, il cielo livido e le sagome scure delle donne in attesa del ritorno degli uomini dalle gallerie della miniere.
Ma ciò che colpisce è la capacità del regista di riprendere in presa diretta un dramma umano allora contingente e reale: la fuga degli Italiani stremati dalla disoccupazione per raggiungere i Paesi d’Oltralpe e tentare la fortuna e un riscatto alla miseria. E sarà l’inizio di una nuova epopea e il prologo di nuovi drammi: le migliaia di italiani sradicati dalla propria terra e destinati a fare i minatori in Francia, Belgio, Germania, a spalare quel carbone che in milioni di tonnellate arriverà in Italia per dare fuoco al boom economico prossimo ad esplodere. Sarà dunque l’inizio di tragedie piccole (ormai dimenticate) e grandi come Marcinelle, che sempre con maggior fatica si commemorano. Ma il “Cammino della Speranza” è un film sull’inizio, sull’inizio della ricerca di un’occupazione e di una sistemazione che nel film non vediamo, ma oggi, possiamo solo immaginare.
Se l’inflessibile guardia di confine francese che abbandona la maschera di severità al sorriso del bambino porta a riconciliare lo spettatore con la vicenda e i personaggi, nulla sappiamo di che cosa sarà di loro appena si dovranno scontrare con la realtà dello sfruttamento della manodopera di disperati in cerca di lavoro.
Oggi il seguito di quel film lo si potrebbe girare qui da noi, in Italia, perché dopo la rincuorante assistenza nei centri di accoglienza verso chi è scampato al cammino della speranza di oggi, che non è più il confine tra Italia e Francia, ma sono i deserti infuocati attraversati in completa incoscienza, la vera fatica di vivere la si incontra nell’incertezza, in chi specula sulla miseria altrui, nella burocrazia e nella diffidenza. Il dramma dell’umanità in cammino che con tenacia e costanza sa portare ricordi, amori, affetti e legami attraverso situazioni quasi sempre senza possibilità di controllo è ben espresso nel film di Germi, che, detratto dell’intrinseco valore artistico, resta un grande documento per l'originalità del tema e l'attualità storica. A questo proposito, la Roma ripresa nel film è reale. E’ la Capitale nel 1950, l’anno degli Americani, degli attori di Hollywood, della dolce vita che iniziava ad affacciarsi dalle terrazze dei palazzi. La denuncia di Germi è passata anche di qui, dagli uffici dei commissariati romani dove agenti troppo zelanti sono affaccendati in altre questioni per accorgersi dei drammi e degli odiosi traffici che si consumavano sotto i loro occhi.
Questo film andrebbe rivisto. Proposto alle scuole, ai politici che dimenticano la miseria dietro alle loro spalle, a chi oggi, in fin dei conti, sta bene.
Perché forse quello che ci impedisce di essere veramente un popolo migliore non è tanto la memoria, ma la capacità di ricordare.
“Il cammino della Speranza” di Pietro Germi con Raf Vallone e Elena Varzi - 1950

giovedì 15 dicembre 2011

I benefici (e l’urgenza) di una vera lotta all’evasione


Mai come in questo momento deve essere avvertita da chi governa il Paese l’urgenza di affilare le armi contro l’evasione fiscale. E non solo per un mero calcolo di saldi di bilancio statale, ma per la necessità di evitare un clima di tensione in grado di sovvertire gravemente l’ordine sociale.
Con la necessità di coprire un disavanzo che si sarebbe potuto agilmente contrastare con i proventi dell’economia sommersa, pari grosso modo ad un terzo della ricchezza ufficiale, lo Stato è andato nuovamente ad attingere dalle tasche dei redditi emersi. Accrescendo il senso di rabbia nei confronti di chi l’ha fatta franca per anni, il feticcio potenziale contro il quale sfogare presunti torti ed ingiustizie subite.
L’assenza di una politica che muova le risorse dello Stato a favore di una seria, assidua e inflessibile lotta all’evasione rischia di portare a maturazione i germi di quella rivolta che ha sempre avuto il sopravvento ovunque la presenza dell’autorità latitasse, sobillata dal pensiero ricorrente che nessuna giustizia è migliore di quella che dispenso a mio insindacabile giudizio.
La storia è piena di cacce a presunti nemici da stanare con forconi e vecchi moschetti: dalle streghe, ai neri, agli immigrati, ai comunisti, fascisti e altri rappresentanti di razze, ideologie e provenienze differenti. Con l’immancabile difetto di fare di ogni erba un fascio e di colpire, nell’abbondanza, anche chi passava lì per caso.
Oggi l’evasore non è più il modello segretamente ammirato in virtù della propria sfrontatezza nell’ostentare lusso e benessere a basso costo fiscale, ma è colui che ha portato il Paese al collasso e che continua a vivere nel suo limbo dorato ed inviolabile con il sardonico sorriso di chi sa di averla passata liscia ancora una volta.
Il rischio di azioni di piazza isolate e incontrollate ai danni di coloro che nell’iconografia illustrata da un certo tipo di stampa pressappochista e populista, sono identificati come proprietari di SUV, barche, abitazioni in località prestigiose può salire nei prossimi mesi allorché gli effetti delle misure del Governo Monti inizieranno ad assottigliare salari reali degli italiani.. E quando ci “scapperà il morto”, vero o metaforico che sia, lo Stato come sempre dovrà vedersela con le sue colpe.
Che sono tante, ingiustificatamente troppe.
Innanzitutto perché la lotta all’evasione è più facile che la lotta alla criminalità. Questo per il semplice motivo che il mafioso o il malavitoso latita, tende a nascondersi mente l’evasore, al contrario, ostenta. E’ lo fa in modo più eclatante di chi lavora, guadagna e paga le tasse perché chi evade ostenta non solo la propria ricchezza, ma anche la sua invulnerabilità alle leggi dello Stato, che guarda caso, sono anche promulgate per difendere i suoi interessi. Dunque stanare un evasore è più facile e meno pericoloso che cercare un delinquente che spesso gira armato. Non si può negare che le forze dell’ordine e la Magistratura non siano solerti nel fare accertamenti su patrimoni quando la provenienza o la paternità di questi non sia ben chiara,  ma non è sufficiente. Il cittadino non percepisce il lavoro di indagine che viene svolto sui grandi evasori: vuole vedere colpito il vicino che vive palesemente al di sopra dei redditi che denuncia o il pizzaiolo sotto casa che non rilascia lo scontrino. Perché un pizzaiolo per quartiere, per i quartieri di tutte le città, per le città di tutte le provincie e di tutte le regioni alla fine fanno più “nero” che un grande evasore. Questa assiduità e costanza nella caccia all’evasione non avviene in Italia perché mancano le risorse ovvero uomini sul territorio e paga poco in termini di impatto sull’opinione pubblica. Ma a tale proposito mi sento di dare un consiglio al Governo: se mancano uomini e mezzi per azioni di contrasto capillare sul territorio perché non concentrare tanti uomini e mezzi in una piccola zona? Non dico di essere esperti di tattica, ma basta avere fatto qualche partita a Risiko. Concentrando per esempio il 70% degli effettivi della Guardia di Finanza e altri corpi di polizia tributaria in poche Regioni italiane (per esempio due al nord, una al centro e una al sud) si potrebbero effettuare azioni a tappeto di controllo di piccole attività, ovvero le principali fonti di reddito sommerso. E dopo? Scegliere a caso altre Regioni? No. Io andrei a controllore le stesse attività ispezionate prima, ma con altro personale così faccio anche piazza pulita di corrotti e pusillanimi che si annidano nella polizia.
E anche sulle sanzioni mi pregio di dare alle nostre Autorità un consiglio: siate creativi anche nell’imporre sanzioni che diamo immediato beneficio alla collettività: obbligate l’evasore incallito e impenitente ad usare le risorse che per anni ha occultato in modo immorale per interventi a beneficio della collettività come il restauro delle scuole, il recupero di opere artistiche ed architettoniche, il contrasto al degrado ambientale ed urbano o iniziative, ironia della sorte, di imprenditorialità giovanile.
Un’adeguata misura di contrappasso per chi ha sempre avuto uno sfumato concetto del bene comune, e un evidente segno “coram populo” dei progressi della lotta contro l’evasione.
In caso di recidiva lo Stato potrebbe ex lege subentrare nella compagine azionaria delle società dell’evasore beneficiando di una quota di proventi fino a coprire la cifra evasa più le sanzioni e gli interessi. Questa misura è a mio giudizio più efficace, anche come deterrente, della comminazione di sanzioni elevate che rischiano di compromettere le possibilità di sopravvivenza dell’azienda stessa.
In Italia, grazie a politici coraggiosi sono state combattute tante battaglie e sono state quasi sempre vinte. Non sempre si trattava di nemici o avversari reali, ma spesse volte si trattava di atteggiamenti e comportamenti ben più pericolosi di uomini armati: mi riferisco alla piaga dell’analfabetismo del secondo dopoguerra, al clima di odio politico dei primi anni della Repubblica, ai tentativi di colpo di stato degli anni ’60, ovviamente al terrorismo degli anni ’70 e’80, e anche, doverosamente, alla grande criminalità organizzati che giudici, carabinieri e polizia hanno combattuto e combattono con risultati di straordinaria efficacia. Ma sono due le cose in cui il nostro Paese non ha mai svolto un’azione incisiva: una, che tratto spesso su questo blog ovvero la tutela dell’ambiente e la seconda che è la lotta all’evasione.
Il tempo per l’inerzia e i bizantinismi politici stanno minacciosamente cambiando.

mercoledì 7 dicembre 2011

La debolezza di sindaci e pedoni

Spiace constatare che gravi incidenti che hanno visto vittime due bambini siano capitati proprio in due città governate da sindaci la cui recente elezione ha suscitato folate di entusiasmo e forti aspettative di cambiamento. La Milano di Pisapia, strappata dalle mani della Moratti e la Torino di Fassino che riprende la nouvelle vague del precedente sindaco, ancora non hanno dato la sterzata decisa per eliminare il problema dei problemi delle grandi città di oggi: il traffico. Di Milano e del povero ragazzo investito dal tram ho già parlato. Di Torino e del bambino investito sulle strisce da uno scriteriato non ancora, ma temo di non avere molto da dire o da aggiungere. So solo che le Amministrazione possono fare molto di più per risolvere una questione che sembra non trovare, da qualunque parte si giri la testa, il giusto entusiasmo per tentare una soluzione radicale. E pensare che la risoluzione del problema del traffico, inteso come apposizione di limiti al traffico di veicoli privati, potrebbe generare una cascata di benefici di ritorno: la riduzione dell'inquinamento e la diminuzione dei malanni cronici che affliggono gli abitanti, la sicurezza per pedoni, ciclisti e per gli stessi automobilisti, miglioramento del contesto urbano che permetterebbe un migliore sfruttamento del patrimonio artistico ed architettonico delle città per fini turistici.
Alcuni mesi fa un mio post sosteneva la necessità di prevedere una fattispecie giuridica che implicasse anche la responsabilità oggettiva delle amministrazioni poco solerti nell'intervenire in palesi situazioni di pericolo per l'utenza più debole, come parrebbe essere il caso dell'attraversamento pedonale di Torino. Avevo suggerito di rendere civilmente responsabili i Comuni per il risarcimento alle vittime di incidenti dovuti a strisce pedonali poco evidenti perché scolorite, passaggi pedonali male illuminati o nascosti, mancanza di dissuasori che opportunamente obblighino i conducenti a rallentare in prossimità degli attraversamenti. Replicare il concetto dell'obbligo alla sicurezza per il datore di lavoro che deve essere in grado di valutare tutte le situazioni di rischio e adottare i presidi più ragionevoli.
Se vale per le aziende perché non dovrebbe valere per le città?