mercoledì 18 luglio 2018

Una irrefrenabile voglia di sparare

Tempo fa, nell'infausta occasione di presentare denuncia per l'incursione di ladri nella casa di campagna di mia suocera, il solerte maresciallo dei carabinieri della locale stazione ci chiese senza preamboli se avessimo subito il furto di armi tenute in casa. Alla nostra risposta negativa riprese un atteggiamento più sollevato e cordiale e fornì la motivazione della sua brusca domanda, che, d'altra parte, era facile immaginare. Considerata, infatti, l'inveterata abitudine di tenere armi da caccia nelle abitazioni di campagna, i ladri vanno a colpo sicuro sapendo di avere buone possibilità di aggiungere al bottino qualche fucile, doppietta se non addirittura pistole o peggio. La preoccupazione del diligente milite era pertanto giustificata dalla consapevolezza che un'arma nelle mani sbagliate è un'arma mille volte più pericolosa di un'arma in mani esperte. Allargare la possibilità di detenere armi per legittima difesa è un pericoloso lasciapassare alla proliferazione di armi potenzialmente in grado di uccidere per motivi che quasi mai saranno legati ai propositi legittimi sostenuti dai fautori della legge. Non è il caso di scendere alla ratio politica della proposta; basta soffermarsi sulle cifre rese disponibili dalle autorità preposte al rilascio di licenze per porto e detenzione di armi: oggi, al netto di minorenni, interdetti, carcerati, diffidati, sorvegliati e altri soggetti attenzionati, ogni onesto cittadino italiano ha a disposizione tre armi, un piccolo arsenale, che può raddoppiare, nel caso in cui, come chi scrive, non possieda neppure una fionda. Un piccolo arsenale che può essere sottratto, rapinato, usato di soppiatto ad insaputa del legittimo affidatario per rapinare, minacciare, uccidere. Oppure che diventa una legittima difesa del legittimo detentore per torti immaginari o ingigantiti cagionati dal coniuge, dal collega, dal passante o da chi ti guarda in cagnesco dal finestrino dell'auto accanto. E i precedenti non sono certo oggetto di cronaca occasionale. 
Permettere una proliferazione di armi, anche se sostenuta da una legge dello Stato, condivisibile o meno, è un errore. Le conseguenze di questo errore sono largamente prevedibili. I crimini in Italia sono in netto calo, ma la sensazione della necessità di una legge che permetta a chiunque di sparare a chiunque è forte. C'è nell'aria una crescente, pericolosa e irrefrenabile voglia di sparare. Chi sostiene queste velleità giustizialiste e promuove questa legge non è in buona fede.  

giovedì 28 giugno 2018

Io non dovevo essere qui


"Io non dovevo essere qui. Nessuno mi sente. Nessuno mi troverà mai" Se lo era detto già tante volte, ma adesso, guardando in alto e vedendo sopra di lui uno squarcio di cielo blu scuro attraversato da nuvole veloci, lo diceva con un groppo alla gola che prima non aveva provato. La fine era vicina.  Racchiuso in un crepaccio con una frattura esposta alla gamba che almeno non sanguinava più, non avrebbe passato la notte gelida che l'attendeva. Ma che cosa avrebbe significato sopravvivere? Nessuno lo avrebbe cercato. Sapeva che era destinato a morire inghiottito da una fessura di ghiaccio. "Se avessi preso la macchina qualcuno avrebbe potuto vederla ferma sul piazzale delle funivie e alla fine gli sarebbe potuto venire in mente che c'era qualcuno che non era tornato" Ma non c'era nessuna macchina sul piazzale e nessuno può notare quello che non c'è. Sorrise amaramente. Era il suo lavoro non essere notato. E lo faceva bene. Arrivato al Breuil con il torpedone da Milano come uno sciatore della domenica qualsiasi si era accorto che molti lo guardavano con stupore misto a invidia. Poi aveva capito. Con quel paio di sci che avevano visto scaricare dal baule della corriera erano in molti a chiedersi come mai il proprietario non si potesse permettere una macchina o comunque un viaggio più comodo piuttosto che una partenza all'alba da Piazza Castello. Certo, i Rossignol: li aveva visti in una vetrina del centro in piazza San Babila e li aveva subito comprati. Trenta mila lire, più i bastoncini in acciaio e gli scarponi che erano l'acquisto che l'aveva gratificato di più. Doppia cucitura, doppio allaccio. Perfetto per sciare, ottimo per camminare in montagna e forse, ma doveva ancora sperimentarlo, adatti per le marce di addestramento nel deserto, dove gli ufficiali della Legione Straniera come lui dovevano esercitarsi. E il giorno dopo, almeno per un breve tratto, li avrebbe provati. Si trattava solo di arrivare al Plateau Rosa scendere di qualche centinaio di metri prendere i riferimenti del rifugio Theodulo, capire che si trovava in Svizzera e poi giù fino a Zermatt per poi arrivare in qualche modo a Ginevra per mettere in atto il suo piano. Ma le cose erano andate diversamente.
La parete di ghiaccio davanti a lui sembrava viva riflettendo il chiarore delle stelle. Milioni di riflessi d’argento che si confondevano con le lancette fluorescenti del suo orologio, rotto e ormai fermo. Quella parete di gelo sembrava invitarlo ad accoccolarsi ai suoi piedi. Non avrebbe mai potuto risalirla. Era destinato a morire li. E allora, si, forse e meglio sdraiarsi e guardare in alto. Il cielo era sopra lui e le stelle che brillavano in alto erano meno fredde della parete del crepaccio. In Indocina aveva vissuto l’inferno: visto morire compagni e amici. Una guerra assurda e inutile. La Francia aveva passato il segno. Ma lui era un militare e doveva comprendere, anzi era più di un militare: era un negoziatore segreto. Suo era il compito di aprire, per conto del suo Paese, un tavolo di trattative per la pace, ma non tutti erano convinti. C’era chi voleva lasciare la parola fine del conflitto ai cannoni e alle bombe, perché se si è in guerra è giusto combatterla fino alla fine. Non era d’accordo. E doveva portare a termine il suo mandato. Sapeva di essere pedinato e seguito dai mastini della guerra. Ogni sua iniziativa per arrivare ai Ginevra sarebbe stata annientata. E se c’era una cosa di cui tutti erano convinti era che un compito del genere lo avrebbe potuto portare a termine solo lui. Così la sua idea di falsificare dei dispacci e fare credere ai comandi che Wilbert Wersinsthal-DeFrême, nome in codice M.M, ovvero le sue iniziali rovesciate, era stato assegnato in segreto su una nave oceanografica nei mari della Nuova Caledonia, fu un buon espediente per far si che non gli tenessero gli occhi puntati più di tanto. “Nuova Caledonia! Che razza di posto! Fino là sono andati i francesi, con i loro territori d'Oltremare, con le loro navi, le loro truppe. E io dovrei essere li. Come faranno a cercarmi qui, in fondo ad un crepaccio sotto la funivia delle Cime Bianche?" Pianse. Pensò ai colori della Nuova Caledonia che, anche se c’erano i francesi, doveva essere un bel posto. E poi pensò a quella ragazza che l’aveva seguito alle funivie. Era giovane, forse di Torino perché era salita a Ivrea scendendo da un’altra corriera. Era sicuramente affascinata dai suoi sci. Probabilmente si era decisa a seguirlo per vedere se la sua abilità era pari al prestigio dei suoi sci. Lo aveva seguito in biglietteria e si era messa a bella posta proprio dietro lui. “Che stupido” pensò, “Che stupido che sono stato. Ho comprato il blocchetto da sessanta corse perché non volevo che pensasse che volessi scappare, non volessi misurarmi con lei. Sessanta corse. Per farne una e cadere in un crepaccio!” Pianse ancora. Il suo sguardo cadde sugli occhiali rotti. “A sciare in alta montagna con gli occhiali da vista, come un impiegato! Che idiota! Quella ragazza avrebbe dovuto capirlo da quel particolare che non ero un vero sciatore: ci vuole la mascherina da sci che ripara dal sole e soprattutto non si appanna. E se non si appanna si vede dove si va e non si cade nei crepacci”. Poi ebbe un sussulto: “Si certo, la ragazza ha capito chi sono. Forse mi verrà a cercare. Forse dirà che le sembrava di avere visto uno che non sapeva sciare e aveva tutta l’aria di essere un agente segreto che ha preso la direzione sbagliata sotto le Cime Bianche. Forse. Ma io non dovevo essere qui. Io sono in Nuova Caledonia E nessuno mi verrà a cercare”.

giovedì 14 giugno 2018

Si alza una voce


Matteo Salvini, neoministro dell'interno, ha detto che alzando la voce si ottiene quello che si vuole. Il popolo plaude alle maniere decise del leader e si compiace di  sapere che c'è qualcuno che dà fiato al grido di rabbia lungamente represso. Ma altre voci si alzeranno oltre a quelle di Salvini, altre persone alzeranno le loro urla al mondo e non saranno proseliti elettorali, ma grida di dolore e di speranze disilluse. Quanti Primo Levi, quante Anna Frank che oggi macerano in un tormento ingiusto e incomprensibile sono pronti oggi a scrivere il loro diario domani. Quanti Steinbeck, cantore della sofferenza altrui stanno preparando a costo della propria vita le parole che ascolteranno i ragazzi, le ragazze, gli uomini e le donne dei prossimi decenni. E' sicuro: costoro ci sono già e sono nascosti in quei mille e mille volti stralunati che aspettano uno sbarco e nessuno potrà mai impedire loro di essere le testimonianze di domani del male di ieri. Perché è sempre stato così: andremo alle presentazioni dei libri, leggeremo le loro storie, ci commuoveremo ad ascoltare le testimonianze. Perché siamo fatti così: il dolore di molti ci lascia indifferenti, ma quando dietro al dolore c'è un viso, una cicatrice, un numero tatuato sul braccio ci lasciamo andare, battiamo le mani e ci alziamo in piedi in segno di rispetto. Ma soprattutto, indignati, dopo avere letto l’ultima pagina ci chiederemo: ma il Mondo, non sapeva o faceva finta di niente?