Gli anni del boom economico nascondono molte piaghe tra le ombre in chiaro scuro dei film che ne hanno celebrato gli splendori e i sogni. Oggi che le menti vagano alla ricerca della grande bellezza di una Roma felliniana ebbra di sontuosa malinconia per eleganti figure in bianco e nero, sarebbe anche opportuno puntare il fuoco sull'altra capitale del miracolo italiano, quella Milano che si ergeva come baluardo di virtù con le terrazze Martini, la piazza del Duomo dardeggiante di neon e una nebbia che faceva ancora paura. E in questa città, nelle pieghe di una vita che scorre irrimediabilmente e inquietamente uguale a quella dei giorni nostri, ci porta il personaggio, dichiaratamente autobiografico descritto nella Vita Agra, il romanzo che diede onori e fama a Luciano Bianciardi. Venuto dalla terra di Maremma con la ferma intenzione di immolarsi contro la sede di una multinazionale simbolo dell'insaziabile ingordigia del costituendo partito della razza padrona che, per sciatteria e colpevole trascuratezza, decimò la vita di una quarantina di minatori in una delle innumerevoli stragi sul lavoro del tempo, il protagonista subirà la lenta metamorfosi che muterà lo spirito di ribellione in una spasmodica ricerca della quotidiana sopravvivenza. Non si scorge traccia di affetto nel suo rapporto con Anna, la compagna, ma solo le tensioni di un rapporto di scambio scandito da datori di lavoro sovra eccitati, femmine compagne dalle aspirazioni piccolo borghesi, meandri della burocrazia di partito che portano ovunque tranne che sulle vie della rivoluzione e i mille sotterfugi per sfuggire all'altra faccia della miseria che sono i "tafani" mandati dai creditori a riscuotere debiti e cambiali in scadenza, venditori ambulanti, committenti impazienti e segretarie nevrasteniche in perenne lotta con il proprio mestruo. E' una descrizione disagiata della vita di quegli anni, ancora troppo ottimisticamente consacrati come il tempo delle vacche grasse. Sono spaccati di interni di piccoli appartamenti ammorbati dal tanfo di sigarette fumate in sequela per attingere forze ed energie per arrivare in fondo agli incarichi assunti, una conta spasmodica delle cartelle tradotte solo per potere contabilizzare la copertura dell'affitto, della rata per i mobili, l'assicurazione per potere campare in caso di malattia. E Milano, che più volte lo rigettò (fu licenziato per scarso rendimento dalla neonata Feltrinelli) non ne esce meglio. Il protagonista, Bianciardi stesso, si è detto, si muove nelle quattro mura di una vita che potrebbe benissimo essere quella di un precario sottooccupato o un disoccupato del terziario degli anni 2000, ovvero i nipoti di quelli che in cinquant'anni non hanno ancora imparato ad amministrare le risorse del Paese. Bianciardi ottenne fama e vita agiata dalla pubblicazione del suo lavoro nel 1962, al culmine cioè della rinascita industriale italiana, ma anche lui non seppe amministrare il suo benessere. Morì alla soglia dei cinquant'anni distrutto dall'alcol e dalla fatica delle vita agra. Ci lascia un testo vivo e toccante che serve ancora, purtroppo, solo per riflettere.
Luciano BIANCIARDI (1971) - La Vita Agra, Rizzoli