mercoledì 9 aprile 2014

La storia agra

Gli anni del boom economico nascondono molte piaghe tra le ombre in chiaro scuro dei film che ne hanno celebrato gli splendori e i sogni. Oggi che le menti vagano alla ricerca della grande bellezza di una Roma felliniana ebbra di sontuosa malinconia per eleganti figure in bianco e nero, sarebbe anche opportuno puntare il fuoco sull'altra capitale del miracolo italiano, quella Milano che si ergeva come baluardo di virtù con le terrazze Martini, la piazza del Duomo dardeggiante di neon e una nebbia che faceva ancora paura. E in questa città, nelle pieghe di una vita che scorre irrimediabilmente e inquietamente uguale a quella dei giorni nostri, ci porta il personaggio, dichiaratamente autobiografico descritto nella Vita Agra, il romanzo che diede onori e fama a Luciano Bianciardi. Venuto dalla terra di Maremma con la ferma intenzione di immolarsi contro la sede di una multinazionale simbolo dell'insaziabile ingordigia del costituendo partito della razza padrona che, per sciatteria e colpevole trascuratezza, decimò la vita di una quarantina di minatori in una delle innumerevoli stragi sul lavoro del tempo, il protagonista subirà la lenta metamorfosi che muterà lo spirito di ribellione in una spasmodica ricerca della quotidiana sopravvivenza. Non si scorge traccia di affetto nel suo rapporto con Anna, la compagna, ma solo le tensioni di un rapporto di scambio scandito da datori di lavoro sovra eccitati, femmine compagne dalle aspirazioni piccolo borghesi, meandri della burocrazia di partito che portano ovunque tranne che sulle vie della rivoluzione e i mille sotterfugi per sfuggire all'altra faccia della miseria che sono i "tafani" mandati dai creditori a riscuotere debiti e cambiali in scadenza, venditori ambulanti, committenti impazienti e segretarie nevrasteniche in perenne lotta con il proprio mestruo. E' una descrizione disagiata della vita di quegli anni, ancora troppo ottimisticamente consacrati come il tempo delle vacche grasse. Sono spaccati di interni di piccoli appartamenti ammorbati dal tanfo di sigarette fumate in sequela per attingere forze ed energie per arrivare in fondo agli incarichi assunti, una conta spasmodica delle cartelle tradotte solo per potere contabilizzare la copertura dell'affitto, della rata per i mobili, l'assicurazione per potere campare in caso di malattia. E Milano, che più volte lo rigettò (fu licenziato per scarso rendimento dalla neonata Feltrinelli) non ne esce meglio. Il protagonista, Bianciardi stesso, si è detto, si muove nelle quattro mura di una vita che  potrebbe benissimo essere quella di un precario sottooccupato o un disoccupato del terziario degli anni 2000, ovvero i nipoti di quelli che in cinquant'anni non hanno ancora imparato ad amministrare le risorse del Paese. Bianciardi ottenne fama e vita agiata dalla pubblicazione del suo lavoro nel 1962, al culmine cioè della rinascita industriale italiana, ma anche lui non seppe amministrare il suo benessere. Morì alla soglia dei cinquant'anni distrutto dall'alcol e dalla fatica delle vita agra. Ci lascia un testo vivo e toccante che serve ancora, purtroppo, solo per riflettere.

Luciano BIANCIARDI (1971) - La Vita Agra, Rizzoli 

martedì 1 aprile 2014

Lavoro tuo e lavoro mio

L'Italia continua a rimanere al palo quando si tratta di impostare delle politiche di miglioramento dello stato dell'occupazione. Sia in termini percentuali, cioè di incremento del numero di occupati sul totale delle persone abili al lavoro, ma , e soprattutto, per quanto riguarda la qualità del lavoro. Ovvero che tutti siano contenti di quello che fanno. Che non sempre significa che il laureato debba fare lavori adeguati alla sua preparazione: se il giovane ingegnere vuole guadagnare qualche soldo facendo il garzone in un supermercato perché ha deciso di farsi il giro dell'Australia a piedi prima di iniziare la sua carriera professionale, è giusto che chi lo assume lo inquadri regolarmente, lo paghi per quello che fa e gli riconosca tutti i diritti che gli spettano. Il lavoro va tutelato sempre, indipendentemente da chi lo svolge. Ma è risaputo che spesso non è così. L'italia rimane ferma, incapace di trovare una via che sblocchi il sistema di reclutamento della forza lavoro dai pregiudizi e che lo liberi dall'applicazione di pratiche sostanzialmente scorrette e leonine. Non è sempre corretto puntare il dito contro la crisi e le dinamiche di profitto delle multinazionali e le manovre della finanza globale. Il dito lo dovremmo, semmai, puntare contro noi stessi e farci carico della colpa di dare troppa poca importanza al lavoro degli altri e a sopravalutare eccessivamente il nostro. Il lavoro è, troppo spesso, solo il nostro. Quello degli altri è una fastidiosa circostanza. Le conversazioni di lavoro tra pendolari sul treno si focalizzano sempre su quanto faticoso e carico di responsabilità sia il proprio incarico e su quanti colleghi scansafatiche e approfittatori si annidino nella propria azienda, chi lavora nel privato critica chi lavora nel pubblico e viceversa, il professionista e l'artigiano criticano l'operato del collega per valorizzare se stessi al cospetto del nuovo cliente, gli automobilisti mandano improperi all'indirizzo del camionista che ostruisce la strada quando lo stesso sta consegnando quello che mangerà a cena. Non sempre il rapporto è dialettico tra il giudice e l'avvocato, tra il tifoso e lo sportivo, fra il genitore del ragazzo somaro e il suo professore. Il marito denigra il lavoro della moglie e la padrona di casa sevizia la domestica accusandola di battere la fiacca. E via dicendo.
Il valore civile nelle relazioni sociali si misura anche da quanto rispetto e tolleranza si dimostri nei confronti delle diversità, ma nel nostro paese le logiche corporativiste hanno sempre prevalso con conseguenze di lunga gittata che hanno contribuito a creare un sistema fermo da anni incapace di conformarsi alle opportunità offerte dal mercato che cambia costantemente e, soprattutto, di smussare quella disastrosa tendenza a discriminare tra i lavori considerati rispettabili e quelli di basso rango, tra i lavori occasionali e quelli stabili, tra quelli da dipendenti e quelli da autonomi. Di fatto tutti legali, ma tutelati in modo molto diverso e origine delle vistose sperequazioni che oggi saltano all'occhio.