Angela Merkel deve avere
raggelato il sangue a molti con le sue affermazioni circa l’attardarsi della
ripresa che per molti sarebbe dietro l’angolo. La cancelliera tedesca
prefigura almeno altri cinque anni prima che tutti si possano dire al riparo
della crisi.
Esagera? Per molti certamente,
soprattutto per i tromboni che fanno di tutto per convincerci che i segnali
della ripresa ci sono, eccome se ci sono. Dimenticano costoro che gli
indicatori dell’economia reale, quali l’aumento degli ordinativi all’industria,
la ripresa dei consumi, la controtendenza nel tasso di disoccupazione, e l’assestamento
dei parametri dei mercati finanziari, sono sempre stati oggetto di oscillazioni
periodiche, cicliche e che un momentaneo trend positivo non implica necessariamente
avere imboccato la felice strada della salvezza.
La Merkel è una persona realista
e molto concreta. Vede le cose per quello che sono. Ma stavolta forse neppure
lei ha afferrato il senso della propria affermazione. Cinque anni sono tanti,
ma sono anche un periodo ragionevolmente breve per potere attuare quelle
riforme che ci porteranno veramente fuori dalla crisi.
Il problema è che le riforme che
i Paesi occidentali, soprattutto quelli europei, stanno andando in senso
esattamente opposto a quanto si dovrebbe fare. E sembra che nessuno se ne stia
accorgendo. La locomotiva è instradata sul binario morto, ma nessuno ha voglia
di fermarla. O per usare una parafrasi più simpatica e attuale, gli Schettini
sulla tolda di comando dei Paesi in crisi profonda tergiversano davanti all’impellente
necessità di invitare equipaggio e passeggeri ad abbandonare la nave o all’incapacità
di valutare la reale portata del danno. In ogni caso sempre comportamento criminale
e’.
Non è infatti la strada delle riforme costate
lacrime e sangue ai cittadini di mezzo mondo e il depauperamento dei nostri
sistemi di welfare, istruzione e servizi che potranno prevenire il crollo
definitivo del sistema economico attuale che arranca a fatica. Fate due conti: la
crisi è iniziata a palesarsi per la sua portata da almeno quattro anni. La
strada del rigore nei conti degli stati è stata da subito indicata come la
soluzione da intraprendere. Tuttavia, nonostante il tempo passato le cose vanno
di male in peggio. Indipendentemente da quanto efficaci e solerti siano stati
gli apparati di controllo ad attuarle (in Italia, certo non abbiamo brillato) nessuno
Stato può dirsi veramente rilassato. Eppure si continua a perseverare in strade
che saranno sempre più impervie cercando, inevitabilmente, di convincere cittadini
sempre più recalcitranti a percorrerle.
Fate una riflessione: che cosa è
cambiato veramente durante questa crisi? A parte il nostro impoverimento, se è
vero che crisi significa momento di passaggio e cambiamento che cosa è
originato di veramente positivo e propizio in questi anni?
Poco o niente. Nulla che possa
delineare uno scenario migliore per il domani. Nessuna politica che possa
fondare i modelli economici dei prossimi
anni. E, vi invito ancora a pensare, si
continua a parlare di finanza, pubblica certamente, quasi fosse il traino dell’economia e non
viceversa come dovrebbe essere.
Dove sono quegli uomini politici
(e mettiamolo l’attributo uomo davanti a politico), i visionari che
riusciranno a prefigurare i nuovi paradigmi della produzione di benessere nei
prossimi anni? E soprattutto quali sono i terreni sui quali dovranno misurarsi
coloro che rivendicano il diritto di guidare il proprio Paese - e non solo il proprio - fuori dalla
crisi? A mio giudizio, lasciando ad altri il parere sugli uomini o donne più
degni ad intraprendere il ruolo di futuri leader, i cardini sui
quali dovranno girare i provvedimenti più opportuni a rinforzare l'economia mondiale per
sopravvivere alla crisi, sono essenzialmente tre: produzione, distribuzione e
bene comune.
Cominciamo dalla produzione:
bisogna ridare alla produzione il senso più vero del termine, cioè l’impiego
di risorse per produrre beni destinati ad un’utilità per noi e per altri. La
produzione per troppo tempo è stata rinchiusa negli opifici, poi nelle fabbriche
e ultimamente negli uffici. Beni e servizi, si suole dire, per intendere un
qualche cosa che posso comprare a fronte di una contropartita che alimenterà un
sistema che in ultima istanza andrà ad arricchire un ristretto circolo di
individui assai facili alla speculazione, ovvero alla finanza. Nella realtà ci
sono altri ambiti della produzione che non sono stati trattati con altrettanta
deferenza, soprattutto in Italia. La produzione di istruzione, di cultura, di
senso civico, di identità nazionale non ha raggiunto gli stessi livelli di
qualità di alcuni prodotti (sempre meno in verità) che ci rendono merito nel
mondo. L’impiego delle risorse non è stato messo a frutto adeguatamente. Chi ha
amministrato queste risorse non ha saputo capire che la vera produzione di
ricchezza parte dalle scuole, dalle università, dai consessi civili dove gli
individui vivono e si relazionano. Chi amministra oggi non può fare altro che
tagliare queste risorse, recidendo in tal modo ogni futura speranza che
sapere, abilità, competenze, sensibilità si trasformino nel benessere di
domani. Guardate le piazze e i giovani che le occupano. Alla loro età non avevate di meglio da fare?
Distribuzione: sono convinto che
nei grandi numeri si nasconda la virtù: questo per una legge molto semplice,
seppure difficile da comprendere: la legge del caos. Tante risorse nelle mani
di poche persone non rendono come poche risorse nelle mani di tante persone. Se non altro per incidenza statistica. In
Italia abbiamo avuto distretti di eccellenza perché questo assioma ha
funzionato. Ma non parlo solo dei distretti produttivi. Parlo del volontariato,
delle associazioni senza fini di lucro, delle parrocchie e dei preti di
periferia: tante persone con poche risorse che fanno cose importanti per il
bene di tanti. Come sappiamo la distribuzione è regolata da leggi assurde che
destinano risorse verso operatori pubblici o privati che il più delle volte non
danno prova di saggia ed equa amministrazione. Il sistema fiscale drena risorse che
andranno a sostenere una moloch che a breve non elargirà più i servizi sui
quali poggia il nostro benessere – istruzione, salute, assistenza, ma si
vanterà solo di avere prolungato di un altro anno un’inevitabile agonia. Nel frattempo
lo speculatore privato avrà aumentato ancora di divario tra la sua ricchezza e
il nostro benessere.
Bene comune: non è solo l’acqua
per la quale si è giustamente combattuto, ma anche la possibilità di
riappropriarsi di un territorio per decenni rimasto senza leggi. La
cementificazione degli ultimi trent’anni ha lasciato una distesa di ruderi
industriali che nessuno abbatterà. Lo sviluppo incontrollato del trasporto
privato impedisce oggi la fruizione del territorio da parte di chi cerca di
riappropriarsene per scoprirne l’intima bellezza. Eppure anche in questo caso,
quando un regime di austerità faciliterebbe una più convinta adesione da
parte della cittadinanza a modelli di vita meno dispendiosi (trasporti, mobilità,
consumi, riutilizzo di risorse, recupero del territorio e delle campagne)
nessun provvedimento serio ed efficace è stato intrapreso per facilitarne una
rapida diffusione.
Allora, vi sembrano ancora troppi
cinque anni?