L’immagine della nave da crociera semiaffondata a pochi metri dalla costa ha suscitato non poca morbosa attenzione da parte dei media di tutto il mondo.
Si avverte, infatti, una beffarda e irriverente presenza dell’elemento liquido che sovrasta ormai arredi, suppellettili, tappeti che mai e poi mai si sarebbero immaginati ghermiti dall’acqua marina, di quell’elemento che la moderna epopea dei viaggi per mare, dal Titanic in avanti, ha cercato di dimenticare e di oscurare con cortine di lusso e sfarzo. O di miseria e puzza di sudore (come direbbe De Gregori) se parliamo della terza classe.
Una forte connotazione simbolica della nave ha sempre trovato nella ricerca del lusso e delle comodità, una risposta all’atavico terrore dell’uomo a navigare sulla superficie dell’abisso marino, colmo di misteri e creature mostruose. I crescenti agi che le imbarcazioni hanno riservato nel corso dei secoli ai primi argonauti sino ai facoltosi passeggeri dell’epoca d’oro dei transatlantici, sono state un illusorio paravento al baratro che separa il fasciame del vascello all’oscuro abisso marino. Con l’avvento della navigazione di massa, che ha coinciso con le punte dei flussi migratori oltreoceano di eserciti di persone del tutto ineducate al mare e alla navigazione, le navi si sono gradatamente adeguate alla necessità di nascondere o limitare il più possibile la vista dell’elemento che di per se giustifica il mezzo, e cioè il mare.
L’esplosione, poi, del business delle crociere d’evasione, dove la nave non è più un mezzo di trasporto per raggiungere una meta prefissa, bensì una scusa per potere esercitare stili di vita altrove non possibili, il mare viene addirittura eliminato, oscurato alla vista, dimenticato. E’ soltanto una superficie abbastanza tranquilla per potere fare muovere una costruzione metallica di enormi dimensioni, un “non luogo” galleggiante che contiene tutto quello serve per il divertimento e che non può stare da nessuna altra parte.
A bardo delle crociere si fa di tutto: si mangia, si gioca, ci si trastulla, si fanno conoscenze e si cercano avventure galanti. Tutto tranne ricordarsi che siamo in navigazione e andare per mare racchiude sempre una certa dose di rischio.
Ecco perché l’immagine della nave semiaffondata esercita una fortissima dose di sgomento in chi la guarda che non riesce a capitarsi di come sia stato possibile un affronto del genere alla magnificenza della nave, al suo bianco immacolato, alle sue comode cabine, ai suoi lussuosi saloni, alle divise dell’equipaggio e all'ostentata sicumera di chi le indossava.
Ancor più sconvolgente è l’immagine di quel relitto beffardamente adagiato a pochi metri dalla terraferma che riprende un’altra simbologia del naufragio caro, questa volta, ad un filone di pittori del tardo XVIII secolo che amavano raffigurare il vascello ormai ingovernabile nei pochi istanti che precedevano lo schianto contro la scogliera. La rappresentazione dello scenario di contorno alla nave – le ondate che frangono contro la scogliera, gli alberi sulla costa sferzati dal vento, il lampo che ammanta di bagliore sinistro le vele lacerate della nave - servivano ad enfatizzare la potenza dei fenomeni naturali, che nel loro insieme, offrivano a chi rimirava la pittura, un’idea di maggiore potenza rispetto al naufragio della nave in mezzo al mare.
Non possiamo parlare della simbologia del naufragio senza nominare il naufrago e lo stato di smarrimento che genera nel sopravvissuto l’idea di avere perso parte di se stessi in fondo al mare. Anche oggi, nonostante assicurazioni, risarcimenti e indennizzi, lo stato di depauperamento che si avverte dopo essere scampati ad un naufragio è avvilente. Proprio per questo motivo i marinai portavano l’orecchino d’oro: in caso di naufragio tutti i loro averi li avrebbero sicuramente seguiti nella buona o cattiva sorte. E’ andata bene ai naufragi della Concordia che si sono subito trovati al sicuro, tranne pochi sfortunati, ovviamente.
L’ultimo elemento simbolico del naufragio, la zattera, ovvero l’estremo tentativo di ridare fisionomia al motivo della navigazione intrapresa, mediante mezzi di fortuna e senza la minima possibilità di controllo se non i capricci degli elementi. Ma proprio a causa dell’assoluta mancanza di possibilità fare rotta verso una destinazione voluta, il mito della zattera ha generato meravigliose idee letterarie dove il mistero, l’ignoto e l’indole dell’uomo si dimostrano capaci di creare mondi di assoluta perfezione o baratri di abbruttimento e abiezione come nel caso dei naufragi della fregata francese Meduse, che tanto colpì l’immaginario popolare dell’epoca, per dichiarati episodi di cannibalismo.
Si avverte, infatti, una beffarda e irriverente presenza dell’elemento liquido che sovrasta ormai arredi, suppellettili, tappeti che mai e poi mai si sarebbero immaginati ghermiti dall’acqua marina, di quell’elemento che la moderna epopea dei viaggi per mare, dal Titanic in avanti, ha cercato di dimenticare e di oscurare con cortine di lusso e sfarzo. O di miseria e puzza di sudore (come direbbe De Gregori) se parliamo della terza classe.
Una forte connotazione simbolica della nave ha sempre trovato nella ricerca del lusso e delle comodità, una risposta all’atavico terrore dell’uomo a navigare sulla superficie dell’abisso marino, colmo di misteri e creature mostruose. I crescenti agi che le imbarcazioni hanno riservato nel corso dei secoli ai primi argonauti sino ai facoltosi passeggeri dell’epoca d’oro dei transatlantici, sono state un illusorio paravento al baratro che separa il fasciame del vascello all’oscuro abisso marino. Con l’avvento della navigazione di massa, che ha coinciso con le punte dei flussi migratori oltreoceano di eserciti di persone del tutto ineducate al mare e alla navigazione, le navi si sono gradatamente adeguate alla necessità di nascondere o limitare il più possibile la vista dell’elemento che di per se giustifica il mezzo, e cioè il mare.
L’esplosione, poi, del business delle crociere d’evasione, dove la nave non è più un mezzo di trasporto per raggiungere una meta prefissa, bensì una scusa per potere esercitare stili di vita altrove non possibili, il mare viene addirittura eliminato, oscurato alla vista, dimenticato. E’ soltanto una superficie abbastanza tranquilla per potere fare muovere una costruzione metallica di enormi dimensioni, un “non luogo” galleggiante che contiene tutto quello serve per il divertimento e che non può stare da nessuna altra parte.
A bardo delle crociere si fa di tutto: si mangia, si gioca, ci si trastulla, si fanno conoscenze e si cercano avventure galanti. Tutto tranne ricordarsi che siamo in navigazione e andare per mare racchiude sempre una certa dose di rischio.
Ecco perché l’immagine della nave semiaffondata esercita una fortissima dose di sgomento in chi la guarda che non riesce a capitarsi di come sia stato possibile un affronto del genere alla magnificenza della nave, al suo bianco immacolato, alle sue comode cabine, ai suoi lussuosi saloni, alle divise dell’equipaggio e all'ostentata sicumera di chi le indossava.
Ancor più sconvolgente è l’immagine di quel relitto beffardamente adagiato a pochi metri dalla terraferma che riprende un’altra simbologia del naufragio caro, questa volta, ad un filone di pittori del tardo XVIII secolo che amavano raffigurare il vascello ormai ingovernabile nei pochi istanti che precedevano lo schianto contro la scogliera. La rappresentazione dello scenario di contorno alla nave – le ondate che frangono contro la scogliera, gli alberi sulla costa sferzati dal vento, il lampo che ammanta di bagliore sinistro le vele lacerate della nave - servivano ad enfatizzare la potenza dei fenomeni naturali, che nel loro insieme, offrivano a chi rimirava la pittura, un’idea di maggiore potenza rispetto al naufragio della nave in mezzo al mare.
Non possiamo parlare della simbologia del naufragio senza nominare il naufrago e lo stato di smarrimento che genera nel sopravvissuto l’idea di avere perso parte di se stessi in fondo al mare. Anche oggi, nonostante assicurazioni, risarcimenti e indennizzi, lo stato di depauperamento che si avverte dopo essere scampati ad un naufragio è avvilente. Proprio per questo motivo i marinai portavano l’orecchino d’oro: in caso di naufragio tutti i loro averi li avrebbero sicuramente seguiti nella buona o cattiva sorte. E’ andata bene ai naufragi della Concordia che si sono subito trovati al sicuro, tranne pochi sfortunati, ovviamente.
L’ultimo elemento simbolico del naufragio, la zattera, ovvero l’estremo tentativo di ridare fisionomia al motivo della navigazione intrapresa, mediante mezzi di fortuna e senza la minima possibilità di controllo se non i capricci degli elementi. Ma proprio a causa dell’assoluta mancanza di possibilità fare rotta verso una destinazione voluta, il mito della zattera ha generato meravigliose idee letterarie dove il mistero, l’ignoto e l’indole dell’uomo si dimostrano capaci di creare mondi di assoluta perfezione o baratri di abbruttimento e abiezione come nel caso dei naufragi della fregata francese Meduse, che tanto colpì l’immaginario popolare dell’epoca, per dichiarati episodi di cannibalismo.
Per una lettura su pittura e naufragio Esperanza Guillén (2004), Naufragi, immagini romantiche della disperazione, Bollati Boringhieri – ISBN 978-88-339-1999-7